216 a.C., 2 agosto, Canne (Puglia). Nel corso della II guerra punica il cartaginese Annibale sconfigge l’esercito di Roma guidato dai consoli Lucio Emilio Paolo e Gaio Terenzio Varrone.
PAOLO RUMIZ, L’inferno di Canne, la strage e l’epifania di una morte sconcia, “La Repubblica”, 11 agosto 2007, ora in Annibale. Un viaggio, Feltrinelli, 2008
VENTO e praterie. Lontano, lo scintillio dell’Ofanto e la striscia del mare davanti al Gargano. Non vedo che questo, mentre risaliamo a piedi la vecchia ferrovia Barletta-Canosa-Minervino. Nient’altro che vento, cicale, e il nostro “paso doble” sulle traversine. E poi ancora silenzio, ulivi, filari di vigne come eserciti, sudore, respiro pesante, sete. Intorno, solitarie masserie dai nomi incompatibili col sole libico che ci sovrasta: Maltempo, Epitaffio, Lamacupa.
Canne va raggiunta così, controvento, lontano dalle grandi strade, col sole di mezza estate allo zenith, nella controra quando l’ombra è pesante, i fantasmi escono come a mezzanotte, e i trapassati – come temeva Pitagora – si arrampicano per le radici delle fave. Caldo tremendo: come quel 2 agosto 186 avanti Cristo, quando in un pomeriggio il generale Annibale distrusse otto legioni.
“Guardati da questa bellezza” esala esausto Giovanni Brizzi. Non è solo la sete che gli abbassa la voce; è l’emozione.
Della battaglia sa tutto, ma per lui ogni volta è come la prima. Ci sediamo nel cono d’ombra della stazioncina “Canne della Battaglia”, magnifica nel suo rosso pompeiano d’ordinanza. Sopra di noi rotea un falco. Il luogo dell’ecatombe è davanti a noi, chiuso fra la vecchia linea e una barriera di colli sui sessanta metri.
Basta salire di poco verso il Monte San Mercurio e subito pare di affacciarsi su un’incommensurabile nulla, una voragine di luce che inghiotte ogni cosa e ti spara in una dimensione senza tempo. Siamo sul luogo dove la morte in battaglia raggiunse dimensioni inimmaginabili. Un evento fuori scala.
Sessantamila morti fanno seicento cataste di cento corpi ciascuna. Il doppio di Austerlitz. Più dei caduti americani in anni di guerra in Vietnam. E’ la più orrenda strage del mondo antico, l’epifania di una morte sconcia, deturpante. Una morte “moderna”; la stessa che Remarque racconta nella Grande Guerra. A Canne si celebra l’epitaffio del duello omerico, quello che finisce con i corpi lavati e profumati da consegnare all’eternità. Brizzi: “La battaglia di Cheronea fu un trauma per i Greci, ed ebbe quattromila caduti. Al confronto, Canne è l’inferno”.
Leggiamo da Tito Livio cosa si vide il mattino dopo. “Alcuni, cui le ferite morse dal freddo avevano fatto riprendere i sensi, nell’atto di alzarsi in piedi coperti di sangue furono annientati dal nemico… Altri erano distesi a terra anche se vivi, poiché avevano i femori e i garretti tagliati, scoprivano la nuca e la gola e invitavano i nemici a bere il sangue che rimaneva loro… Certuni furono trovati con le teste affondate in buche, ed era chiaro che da soli se l’erano scavate e che,
seppellendo i volti, col gettarvi sopra la terra si erano soffocati”.
Ma l’immagine più atroce è un’altra. La leggano, quelli che credono alla bellezza della guerra. “Attrasse l’attenzione di tutti un Numida ancor vivo, tratto col naso e gli orecchi mozzati di sotto a un Romano che gli si era steso sopra morto; questo, non servendogli più le mani per afferrare un’arma, aveva trasformato in rabbia la sua ira ed era spirato straziando con i denti il nemico”.
Canne è il macello di una classe dirigente che vuole combattere in prima linea, la morte di tre consoli ed ex consoli, di otto questori, quaranta tribuni, ottanta senatori. Il fratello minore di Annibale, Magone, portò a Cartagine tre canestri di anelli, tolti dalle dita degli “equites” in quella sola battaglia.
Canne è morti insepolti, divorati dai cani e spogliati delle loro armature; è gambe sgarrettate dal colpo di gladio dei cavalleggeri spagnoli; è “Detruncata corpora”, ferite che “ultra mortem patebant”; è agonia di settimane per infezione e setticemia senza un medico o un’infermiere sul campo. Non c’è la Croce Rossa a quei tempi; Canne è anche scannamento dei sopravvissuti, all’alba del giorno dopo. Un’ammucchiata sanguinolenta di vivi e morti.
Dalla cima del monte uno guarda la piana accanto alla ferrovia e dice: impossibile. E’ lo spazio di uno stadio. Invece no: a Canne tutto avviene davvero nello spazio di uno stadio. O meglio, di una tonnara. Avviene con la tecnica e i tempi di una tonnara. Per capire, devi averne visto una, con il mare che ribolle, le vittime che si ostacolano a vicenda e gli uomini come posseduti che cantano “alamoa alamoa, janzù janzù”, lanciano colpi d’arpione alla cieca.
Penso: ma la tonnara non è una pesca rituale inventata dai fenici e dai cartaginesi? Perché in tutte le altre battaglie, i morti sono dispersi su una scia, e invece qui sono concentrati in un fazzoletto di terra? Sessantamila caduti in un fazzoletto. Perché i Romani non si mossero di un pollice e si lasciarono massacrare?
Fa caldo da bestie, non è facile ragionare sotto un sole che accieca. Con un bastoncino Brizzi traccia segni nella ghiaia, parla di “superamento della falange macedone di Alessandro Magno”, di nascita della “manovra avvolgente”, di valorizzazione della cavalleria contro una legione basata sulla fanteria pesante. Ma di tutto, sotto il sole di Canne, capisco una cosa soltanto. Tre parole.
“Annibale-vinse-arretrando”. Vedo sulla ghiaia il fronte cartaginese convesso che si lascia investire, diventa concavo, poi si richiude, finché le cavallerie alle ali sigillano lo spazio rimanente, formando una camera della morte imperforabile come quella di una tonnara.
Ma ancora non basta, dico. I Romani erano novantamila, buon dio, più del doppio del nemico. Come poterono soccombere?
“Il numero eccessivo fu il limite. Combatterono in novantamila nello spazio in cui erano abituati a combattere in quarantamila. Si ostacolarono a vicenda e non riuscirono a reagire”. Non basta ancora…
“La cavalleria romana era inferiore e i fanti erano quasi tutti reclute, dopo le stragi sulla Trebbia e sul Trasimeno”.
Ma l’organizzazione romana era comunque una macchina mortale…
“Però i due consoli erano in disaccordo tra loro, e la tecnica del comando a giorni alterni giocava a favore di Annibale”.
La tonnara, la maledizione della tonnara… Forse Annibale non fece che applicare su terra le tecniche secolari di una civiltà di mare…
“Ti rispondo con Polibio: dopo Canne ‘risultò evidente ai posteri che in tempo di guerra è meglio avere la metà dei fanti rispetto ai nemici e un’assoluta superiorità in cavalleria, piuttosto che affrontare la battaglia con le forze più o meno uguali a quelle dei nemici’. Canne cambiò la storia della strategia”.
Beviamo limonata fresca sulla terrazza del museo, ascoltando il rumore del trenino per Barletta che taglia la campagna. Manifesti dell’associazione “Pro Canne” annunciano escursioni e ricostruzioni storiche sul campo. Ci ha raggiunto Vincenza Morizio, professoressa di storia romana all’università di Foggia, e discutiamo della suggestione ipnotica del luogo, di questo maledetti campi della morte che sono spesso di una bellezza sconvolgente.
Mi tormenta un dubbio. E se i generali avessero scelto questi luoghi non solo per motivi strategici, ma anche per costruire una cornice mitologica “indimenticabile”? Se così non fosse, come mai il campo di Waterloo riesce a emanare una pace arcadica anche sotto la pioggia? Non si spiega, altrimenti, come mai Gettysburg, dove gli americani ebbero nella guerra civile più morti che in Giappone o in Normandia, sia un idillio assoluto. Per non dire del mare di Lepanto, fra Itaca e Patrasso: divino spazio blu di quiete e maestrale.
E se fosse solo suggestione? E se Canne fosse altrove? Nel museo vedo che nella vallata si è trovato poco o niente che confermi l’ecatombe. Ma qui sono tutti d’accordo. Delle grandi battaglie non rimane mai nulla. Già di Waterloo non si trova più nulla. I corpi vengono spogliati di tutto ciò che serve, i contadini fanno il resto. Proprio la battaglia di Canne lo dimostra: i fanti libici si presentano, terribili, davanti alle legioni, indossando le armi tolte ai romani uccisi nella battaglia del Trasimeno. Mostrano al nemico la sua stessa morte. E poi, qui o altrove fa poca differenza. “Canne è un luogo della mente” ammette la Morizio che proprio lì ha imparato ad amare la storia antica. “Ricordo il generale Ludovico che illustrava la battaglia ai bambini delle elementari, rumorosissimi, poi questi scappavano fuori a mangiare fave, ma alla fine, davanti alla valle, si fermava il respiro anche nel loro petto di mocciosi”.