Matteo Nucci, ora in minima&moralia, già in “Venerdì di Repubblica”, 26 maggio 2015
“Concava, avvallata” la definivano i cantori omerici all’inizio dell’Iliade. E così appare ancora oggi, la grande Sparta, per chi s’introduca, provenendo da nord, fra le montagne che cingono la valle del suo fiume sacro: l’Eurota. A ovest il Taigeto svetta oltre i 2.400 metri. A est, il Parnone si ferma poco sotto i 2000. In mezzo, è ancora fertile la vallata inespugnabile, la fortezza naturale che rese inutile qualsiasi cinta muraria per la città che dominò militarmente, produsse istituzioni invidiate e celebrate da immensi scrittori, retori e filosofi (su tutti, Platone) e la cui fortuna nei secoli è decaduta in senso inversamente proporzionale rispetto a quella che era stata la sua importanza. Forse la colpa è di quell’ “atenocentrismo” attraverso cui nei secoli i moderni hanno voluto rileggere la storia dell’Ellade antica. Forse è stata una presunzione democratica contro l’indefinibile assetto costituzionale di una polis dominata da due re e che pure non si poteva definire un regno; una polis governata da un consiglio di 28 anziani (la gerusia) e che pure non si poteva definire oligarchia; una polis animata da un’assemblea popolare e che pure non si poteva definire democrazia. Forse è stato un pregiudizio contro gli uomini che sconfissero Atene, contro la chiusura alle novità, il loro conservatorismo. Tucidide, il grande storico del V secolo, aveva scritto: “se oggi la città dei Lacedemoni venisse abbandonata e rimanessero solo i templi e le fondazioni degli edifici, i posteri difficilmente potrebbero credere alla potenza e alla fama di Sparta”. Qualche decennio più tardi, Senofonte scrisse: “Riflettevo su come Sparta, una delle città meno popolose, sia divenuta una delle più potenti e celebri della Grecia e mi stupivo di come fosse accaduto. Poi pensai alle istituzioni degli Spartiati e finii di stupirmi”. Oggi, per chi penetra tra le vie della città che fu rifondata nel 1834 da Ottone di Baviera, primo re della Grecia indipendente, le parole degli storici antichi risuonano di un’eco funesta. Dove sono quei pochi monumenti pubblici? E dove si possono rintracciare le grandi istituzioni antiche?
Le vie a scacchiera progettate dall’architetto bavarese Fr. Stauffert, tra magnifici edifici neoclassici e i palazzoni che a decine li hanno sostituiti negli anni ’70, sono contrassegnate di continuo da un’unica indicazione: Museo dell’Olivo e dell’Olio d’Oliva. Per il resto è necessario domandare. E poiché è ancora viva l’arte che duemilacinquecento anni fa veniva insegnata ai ragazzi fra i sette e i quattordici anni, ossia l’esprimersi attraverso risposte brevi e concise (il modo di parlare laconico: dalla regione di Sparta, la Laconia), è possibile seguire le veloci indicazioni, districarsi fra le strade alberate per raggiungere il viale Paleologou percorso da palme, raggiungere il monumento a Leonida, eroe che nel 480 assieme a trecento concittadini s’immolò alle Termopili contro i Persiani, e salire poi verso le rovine dell’antica città. Certo, a parte l’espressione laconica, non molto altro è rimasto oggi di tutto quel che si insegnava ai ragazzi quando, estromessi dalle famiglie di origine, venivano ripartiti in branchi per essere forgiati a una vita comunitaria ascetica imperniata sul rispetto dello Stato, e combattere in sua difesa. Il senso civico, l’idea della cosa pubblica, il rispetto fra pari. Tutto sembra perduto in una regione che accoglie turisti interessati più che altro alle straordinarie rovine di Mystras, la città fondata dai Franchi a metà del XIII secolo, con i suoi monasteri, i suoi affreschi, gli acciottolati che paiono vivi. L’antica Sparta invece sembra sepolta in un tempo assolutamente irripetibile. Mentre ci si inerpica tra ulivi secolari disseminati attorno al teatro ellenistico, resti di santuari la cui identificazione è dubbia, mura di porticati e stradine perdute, l’impressione è che la Sparta moderna si sia riplasmata su un ideale opposto a quello antico. Osservando la città che, come una linea d’ombra, si affaccia oltre alla distesa di verde dell’area archeologica, sospesa nella sera che cala dal Taigeto, la lacerazione sembra soltanto fisica. Ma in città, essa diventa qualcosa che con la fisica non ha più a che fare.
Nella bella piazza del municipio, il piano basso della palazzina neoclassica disegnata da G. Katsaros è occupato da un moderno bar. “Un piano del municipio ai privati? Si stupisce?” domanda una ragazza che sorseggia il suo caffè frappè, “Qui tutto è possibile. Si è superato qualsiasi limite. Ognuno fa quel che crede”. Dietro l’angolo, l’Inokratis è un’istituzione. Un bar, pasticceria, vineria, di altri tempi. Come un re, al suo tavolo, domina un tal Ephtimios che preferisce essere chiamato Tom. Ha superato gli ottant’anni e gran parte li ha vissuti a Chicago dove ha fatto fortuna. È il perfetto esemplare degli spartani fuggiti da un’economia depressa nel dopoguerra e tornati a godere delle bellezze della madrepatria. Racconta i cambiamenti della sua città, dei bellissimi palazzi che ne costituivano l’ossatura, ora in gran parte soltanto memoria storica o fotografica e scuote il capo desolato per la perdita di tanta bellezza (da visitare l’antica bottega di fotografie in bianco e nero lì accanto o la Biblioteca centrale della città). Poi mi racconta della sua casa. Era un’eccezionale palazzina antica, ma per renderla un po’ più grande ha dovuto ricostruirla daccapo, e adesso i piani sono otto. Fiero della fortuna con cui è tornato a trasformare (e a rimpiangere) la propria città, lo spartano americano aspetta l’estate per andarsene sulle isole vicine. Non so se avrebbe apprezzato una delle più celebri istituzioni della Sparta antica, Tom. I sissizi, ossia i pasti in comune, erano l’anima della città: fortificavano il senso di appartenenza a un ideale. Si mangiava pane di orzo, zuppa nera (sangue di maiale), e un dessert costituito da formaggio, fichi o cacciagione. Vino in misura moderata. Tutti dovevano contribuire. Chi non aveva i soldi per farlo perdeva i diritti di cittadinanza. E la cittadinanza era tutto, molto più di qualsiasi possesso privato, per gli spartiati, ossia i “pari”, dediti solo alla guerra. Sotto di essi stavano i perieci, gli “abitanti dei dintorni”, liberi ma privi di diritti civici, commercianti e artigiani. Infine, venivano gli iloti, i “conquistati”, schiavi che coltivavano le terre degli spartiati. Per chi non potesse informarsi preventivamente sugli usi, i costumi e la storia dell’antica città (E. Baltrusch, Sparta, il Mulino, pp. 141, euro 11, 50) il bel museo archeologico – il più antico costruito fuori da Atene – offre spunti necessari a percorrere la nostra strada nella Sparta che fu. Le strade migliori però sono due e entrambe portano fuori città.
La prima sale su verso i monti del Taigeto, dove ogni mese, uomini in lotta perenne con il loro naturale senso di pietà, erano costretti a portare i corpicini dei neonati giudicati fisicamente inadatti da un collegio di vecchi saggi. È una strada affascinante e cupa. I tornanti salgono tra rocce impervie per cinque chilometri oltre l’ultimo paese, Trypi, finché uno slargo attrezzato non segna l’inizio di passeggiate che portano su per i monti prima che ci si affacci sul mare di Kalamata. Il sentiero principale è ben segnalato fra i pungitopo e le macchie di timo selvatico. Il ronzio degli insetti spegne l’eco dei motori e in una mezzoretta di salita, si aprono nella roccia lacerazioni simili a caverne. È qui, secondo le ricostruzioni, che venivano lasciate morire le vittime dell’eugenetica spartana. Si può sempre prendere un’altra strada, però, se il solo pensiero delle grotte di Langada mette i brividi. È la via che scende per una quarantina di chilometri verso sud, verso il mare, verso Gythio, il porto di Sparta che potenza marinara non fu mai e che pure il colpo di grazia all’acerrima nemica Atene lo diede proprio sul mare, a Egospotami nell’agosto del 405 a.C. Attraverso la valle che si restringe e si fa più chiara, fra canneti e file di eucalipti, aria di iodio e brezza improvvisa, il nostro pensiero abbandona d’incanto la potenza militare, le istituzioni e le glorie perdute di Sparta per lascare spazio libero al dio che dominò ovunque nell’Ellade, più di Ares, più di Apollo, più dello stesso Zeus. C’è solo Eros, infatti, a Gythio. Impossibile non vederlo volare lì davanti al bel golfo, sull’isoletta microscopica che si staglia contro l’orizzonte. Ormai legata alla terraferma attraverso un lembo sottile di terra, l’isola si chiama oggi Marathonisi ma gli aedi omerici la conoscevano come Cranae. È lì che Elena e Paride passarono la loro prima notte d’amore, quando la donna più bella dell’Ellade lasciò le stanze del re spartano Menelao sognando un futuro di felicità accanto al superbo re troiano. Rigogliosa di piante e odori dolciastri di lascivia, l’isola è dominata da un fiore tra il viola e il nero quasi vellutato. “Kiria si chiama” dice la donna che cura il roseto accanto alla torre Tzanetakis (un museo etnologico). Kiria significa “signora” e la donna mi spiega che è la nobiltà dell’unica vera signora che si riflette attraverso il velluto di quelle foglie sensuali e lugubri. Non le domando se si tratti di Elena. Ne sono certo. Del resto, Elena ebbe tempo di ricredersi, di abbandonare l’effeminato Paride capace solo “nei passi di danza” e di tornarsene a casa. C’è una collina nei dintorni di Sparta che celebra l’amore ritrovato fra Menelao e la sua donna. Stavolta però per trovarla non bastano laconiche indicazioni. Serve la tenacia spartana. La forza di resistere. L’insistenza. Quel desiderio trasformato in determinazione che trovò la sua espressione massima nei versi di Tirteo, il poeta che infiammava i guerrieri cantando “Resista ognuno ben piantato sulle gambe al suolo / mordendosi le labbra coi denti”.