Carlo Vulpio, “Corriere della Sera, 30 maggio 2015
Il rischio è che potremmo non vedere più non soltanto Palmira, che è in Siria, ma anche Leptis Magna, Sabratha e Ghirza, che sono in Libia, oppure Baalbek, che è in Libano, o Amman-Gerasc e Petra, in Giordania.
Se il fanatismo jihadista e la barbarie del Califfato nero dell’Isis non verranno fermati, tutto un mondo sparirà e di esso, biblicamente, non rimarrà pietra su pietra.
In tal caso, dovremo accontentarci di «vedere» questi luoghi meravigliosi soltanto attraverso gli scritti di chi li ha raccontati meglio di tutti, e cioè Cesare Brandi — storico dell’arte, critico, scrittore, giornalista — autore del bellissimo e attualissimo, oltre che profetico, Città del deserto, pubblicato nel 1958 e riproposto oggi da Elliot edizioni (178 pagine, con una prefazione di Geno Pampaloni del 1990).
Sarebbe un peccato se questa stolta furia iconoclasta prevalesse, ma se dovesse andare a finire così, ecco una ragione in più per leggere (o rileggere, ancora meglio) questo libro di Brandi, che non solo emoziona, non solo descrive — e con quale finezza — ma spiega anche il perché, già allora, questo patrimonio dell’umanità era in pericolo, e perché oggi quel pericolo è diventato, direbbero i giuristi, «concreto e attuale».
È ingiusto affidare a una frase un intero ragionamento — fra l’altro basato su raffinate riflessioni storiche e filosofiche e su brillanti osservazioni urbanistiche, architettoniche e artistiche — ma la considerazione finale di Cesare Brandi, non sospettabile di anti-islamismo di maniera, come dimostrano le pagine sulla questione israelo-palestinese, è di quelle a cui non ci si può sottrarre. «L’Islam — scrive Brandi — non può esistere nel nostro mondo se non assorbendolo o distruggendolo: nulla ha da sostituire, nulla ha da imprestare se non una forma arcaica della sacralità».
Se questo è vero, non c’è da farsi illusioni che, per esempio, la libica Leptis Magna, «una cannonata anche per chi viene da Roma o da Ostia», «il primo capolavoro della scultura romana», «città lunga tre chilometri, con strade e fognature perfette», «esempio di virtuosismo urbanistico sopraffino e di grande architettura», possa fare una fine diversa da Palmira, le cui tombe costruite in altezza, a quattro o cinque piani, scrive Brandi, ne hanno fatto un caso unico nell’antichità, «la prima città con impresari di pompe funebri e speculatori che compravano in blocco e vendevano a strozzo i loculi». E come Palmira e Leptis Magna, città emporio in mezzo al deserto e tuttavia ricchissime, corrono lo stesso rischio anche Sabratha, che ha una basilica giustinianea il cui mosaico pavimentale «è la più bella opera d’arte superstite della Tripolitania», e tutti gli altri luoghi in cui Brandi davvero riesce a portare per mano il lettore, conquistandolo con le sue similitudini: «Amman come e peggio dei Sassi di Matera» (ovviamente i Sassi di sessant’anni fa) o le case di Gerico e Damasco come i trulli di Martina Franca, la città vecchia di Gerusalemme come quella di Bari intorno alla Basilica di San Nicola, oppure Betlemme con le strade curve come in Calabria e i mosaici simili a quelli di Cefalù. Mondi e civiltà che hanno attraversato il tempo.
«Ma i barbari — avverte Brandi — sono di tutti i tempi». Ricordiamocelo .