«Sola in le piume / io giaccio in pianto» traduceva Foscolo
Solo Quasimodo ci ha restituito la voce di quei versi
Carlo Carena, “Il Sole 24 Ore – Domenica”, 31 maggio 2015
Quando, nel 1910, apparvero i Lirici greci tradotti da Giuseppe Fraccaroli, Renato Serra ne profittò per indagare, in una recensione spietata, «il modo di leggere i Greci». Ancora in una stagione in cui appunto con Fraccaroli e poi almeno fino a Romagnoli, 1932-36 non ci si scostava molto da Monti, Cesarotti, Zanella, Pascoli (un disastro), Serra invocava una rielaborazione formale non effimera bensì il ripristino di una poesia «voce vera di uomini» con un suo bello o brutto, buono o cattivo, da considerare. E invece quelli erano traduttori che procedevano col loro passo pachidermico calpestando le antiche strade senza nemmeno sospettare che al fondo ci possa essere una qualità di «bellezza segreta e ineffabile», legata al suono.
Il colpo di grazia fu inferto, come si sa, dai Lirici greci di Salvatore Quasimodo all’inizio degli anni Quaranta, che s’inebriava della «violenta e rapida musica» di quei lirici frammentari, per la quale avrebbe dato volentieri tutto il «lento romanzo dell’epica». Che fossero perlopiù frammenti accresceva l’arcano e stimolava la ripresa. C’è nel mondo, avvertiva Luciano Anceschi nell’edizione delle versioni di Quasimodo presso lo Specchio Mondadori, 1944, citando Hölderlin, Baudelaire e Leopardi, e «i migliori traduttori di oggi» Ungaretti, Montale, Vigolo, Traverso, una nuova disposizione e dimensione dello spirito, che si riflette nella poetica della parola e nello sforzo di dare con essa contemporaneità artistica nella ripresa di testi lontani.
Come si sa, da allora per quei pachidermi fu finita. Essi ci appaiono oggi patetici, quando non comici, se non ci si pone nella giusta prospettiva storica. Un volume Lirici greci nella collezione dei Diamanti dell’editrice Salerno ne dà spunto, allegando in appendice all’edizione e versione dei testi un’antologia di traduzioni, che da fine Settecento giunge appunto a Quasimodo (escluso). Vi si incuriosisce, e vi si legge di tutto. Dalle tronche per la frenesia degli ottonari di un tal Achille Giulio Danesi a fine Ottocento e di Rodolfo De Maria a inizio Novecento, alla frenesia per le rime del Romagnoli (Romagnoli-Pascoli era il paradigma negativo per Cesare Pavese). Naturalmente, mentre costoro s’impegnavano su elegiaci e giambici come sui lirici puri, dei canti corali e dell’Archiloco guerriero a Quasimodo non importava un bel nulla e traduceva piuttosto il «Con una fronda di mirto giocava | ed una fresca rosa; e la sua chioma | le ombrava lieve e gli òmeri e le spalle».
La nuova versione di Chiara Di Noi restituisce agli originali, riprodotti a fianco, la loro limpidità e la variegata finezza, dove occorre la loro violenza; li rende con chiarità sostenendosi e riparandosi da ogni tentazione su una solida formazione filologica, cedendo raramente a qualche svolazzo. Di fronte ai brandelli di Callino, Tirteo, Mimnermo, Solone, Senofane, Teognide, Archiloco, Semonide, Ipponatte, Anacreonte, Saffo, Alceo, Alcmane, Stesicoro, Ibico, Simonide e tre assaggi di Bacchilide e pochi più di Pindaro, qui allineati non cronologicamente ma per generi letterari, si è spinti ancora una volta a sentire il più vasto amore per la beauté des ruines invocato a suo tempo da Anceschi; grazie anche alla sensibilità della traduttrice pur nel suo rigore. Essa si attiene fino all’estremo possibile alla ripartizione dei versi e alla posizione delle parole, cerca di conservare anche i ritmi distintivi della poesia. Scioglie ma restituisce poi in tutto e per tutto i disperanti ma pregnanti composti greci; tiene conto della storia stessa di certi vocaboli risalenti a volte e imposti da Omero.
Questi sono i quattro versi più noti di Saffo: «Tramontata è la luna |e le Pleiadi, nel mezzo | è la notte; il tempo dilegua, | e io dormo sola». Da cui Ugo Foscolo traeva la cavatina: «Sparir le Pleiadi, | sparìo la Luna, | è a mezzo corso | la notte bruna. | Già fugge rapida | ogni ora, e intanto | sola in le piume | io giaccio in pianto»; mentre Leopardi si cullava con: «Oscuro è il ciel: nell’onde | la luna già si asconde, | e in seno al mar le Pleiadi | già discendendo van». Né si poteva fare diversamente allora, nella continuità di una tradizione letteraria durissima soprattutto in Italia, che investiva lessico e metrica. Che stringeva anche Felice Cavallotti quando nel 1878 rendeva con le cadenze decasillabiche della Battaglia di Maclodio il bardo Tirteo: «Bello al forte, fra i primi caduto | per la patria pugnando morire! | Non v’ha lutto ch’uguagli il soffrire | di chi il lare nativo lasciò…». Che ora nella versione Di Noia suona: «Così è bello morire per l’uomo valente: | combattendo per la patria e cadendo in prima linea; | quello che invece è di tutto più triste | è lasciar la città e i campi fecondi».
Lirici greci, a cura di Chiara Di Noi, Introduzione di Luigi Enrico Rossi, Appendice a cura di Enrico Cerroni, Salerno editrice, Roma, pagg. LXII-632
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