Affascinati da Annibale

Ermanno Bencivenga, “Il Sole 24 ore – Domenica”, 21 giugno 2015

In due delle sue satire Giovenale parla di studenti cui è assegnato il compito di dibattere se Annibale avrebbe dovuto marciare su Roma dopo la vittoria di Canne. Nel 1891 lo storico Theodore Ayrault Dodge pubblicò un’importante ricostruzione delle gesta di Annibale e documentò che all’epoca esistevano già 350 pubblicazioni sull’epico attraversamento delle Alpi da parte del generale cartaginese. Sono due fatti citati da Eve MacDonald, archeologa e lettrice all’Università di Reading, in Inghilterra, nel suo Hannibal, un libro frutto di diligente e meticolosa ricerca che a poco più di duecento pagine di testo ne accompagna sessanta di note e quasi venti di bibliografia.
Non sono fatti che riguardano direttamente Annibale; appartengono piuttosto alla cronaca dello straordinario fascino che questo personaggio ha sempre esercitato. E sono fatti significativi, perché evocano i due avvenimenti, le due decisioni, che hanno reso Annibale un’icona immortale nella nostra civiltà, un simbolo più vivido di quanto mai siano stati gli stessi romani e lo stesso Scipione che lo sconfissero. Un simbolo di che cosa? Dell’irriducibile ambiguità della condizione umana, del conflitto che si agita in ognuna delle nostre anime, il cui esito nessuno potrà mai prevedere.
Secondo il mito, la decima fatica di Ercole lo aveva portato all’estremità occidentale del Mediterraneo, là dove Europa e Africa quasi si uniscono (e dove eresse le sue colonne), per catturare i buoi rossi del gigante Gerione. Con i buoi in suo sicuro possesso, si trattava di tornare indietro, e per farlo Ercole attraversò le Alpi. L’unico precedente cui Annibale poteva fare riferimento per la sua impresa, dunque, era un leggendario semidio; realizzandola, entrò a sua volta nella leggenda e annunciò il carattere divino degli esseri umani. Testimoniò che nulla di quel che veniva giudicato per loro impossibile lo era davvero. Due millenni dopo il suo emulo Napoleone avrebbe scritto che «a ventisei anni Annibale concepì ed eseguì quel che non era concepibile» e «sacrificò metà del suo esercito solo per avere il diritto di combattere».
Ottenuto questo diritto, Annibale sbaragliò i romani al Ticino, al Trebbia e al Trasimeno, e il 2 agosto 216 li affrontò nella piana di Canne, nell’entroterra di Barletta. Roma intendeva chiudere definitivamente i conti con lui e aveva mandato oltre 80 mila soldati; Annibale ne aveva a disposizione circa la metà. Aveva anche, però, una superiore intelligenza strategica: lasciò che il nemico sfondasse al centro e quindi lo accerchiò dai fianchi e da dietro con i suoi uomini migliori. Fu un macello: i romani ebbero 50mila morti, inclusi un console e ottanta senatori; i cartaginesi ottomila. Roma era in ginocchio: per difenderla vennero arruolati ragazzi con ancora addosso la toga praetexta, la quale veniva abbandonata a sedici anni. Ci sarebbero volute tre settimane per raggiungere l’Urbe, ma niente avrebbe potuto arrestare i trionfatori di Canne. Annibale scelse invece di fermarsi e un suo luogotenente dichiarò: «Sai vincere una battaglia, ma non sai usare la vittoria». Da quel momento iniziò per lui una lunga agonia, tanto più lunga in quanto la sua abilità militare e organizzativa gli permise di sopravvivere in armi per tredici anni in un territorio che diventava sempre più ostile. Quando tornò in patria trovò ad aspettarlo forze (soprattutto di cavalleria) preponderanti e fu sconfitto a Zama.
La scelta di Annibale di non andare a Roma cambiò la storia. Roma controllava buona parte della penisola italiana e poco d’altro: i suoi unici possedimenti «d’oltremare» erano in Sicilia. Evitata la catastrofe imminente e guadagnato tempo, fu in grado di attaccare e debellare i cartaginesi in Spagna e, dopo Zama, di estendere il suo dominio anche in Africa, trasformandosi in una superpotenza priva di rivali che, un passo dopo l’altro, avrebbe fatto del Mediterraneo il mare nostrum.
Non è però solo in questo senso cosmico che la vicenda di Annibale continua ad attrarci. Anche in ambienti molto più limitati e situazioni molto più modeste, tutti noi conosciamo l’inquietante, spesso incomprensibile alternanza di audacia ed esitazione di cui lui ci ha dato un esempio estremo. Tutti noi, forse, abbiamo lavorato con coraggio e con successo per raggiungere una meta ambita e, quando finalmente l’avevamo alla nostra portata, le abbiamo volto le spalle. Tutti noi, forse, abbiamo avuto quella che in gergo sportivo si chiama «paura di vincere»: paura della felicità, dell’approvazione, dell’amore. È per questo motivo che Annibale ci parla: nella sua inconcepibile avventura e nel suo tragico epilogo leggiamo il nostro destino e rabbrividiamo pensandoci. Pensando a come il fatto di non cogliere l’occasione propizia, quell’unica volta che si presenta, possa avere come conseguenza che il tuo popolo non esisterà più e la tua storia sarà scritta da coloro che ti hanno umiliato.

Eve MacDonald, Hannibal: A Hellenistic Life, New Haven e Londra, Yale University Press, pagg. xvi+332

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