Ivano Dionigi, “La Repubblica”, 23 gennaio 2017
Novum per i classici era sempre qualcosa di dirompente e traumatico: “nova” la terra che gli Argonauti cercavano con la loro spedizione sacrilega; “novus” l’uomo che per primo nella propria famiglia ricopriva una magistratura; “nova” la religione cristiana che in nome della fede interiore rifiutava i riti esteriori della “religio civilis”. Quale è il nostro “novum”? Non quello che campeggia su copertine e classifiche; non quello delle periodiche proposte politiche che non riescono a interessare né giovani né vecchi; non quello dell’amministrazione della cosa pubblica esibita, più che gestita, a colpi di “like”; non quello della gridata e nominalistica discontinuità; e neppure quello della improvvisata originalità, che, come dice Berenson, «è propria degli incapaci». Queste sono novità che alimentano la cronaca, non il nuovo che fa la storia.
Novum è ben altro: è ciò che imprevedibilmente e irreversibilmente segna il destino individuale e collettivo. E se non siamo vigili, lo vediamo non in faccia, ma di spalle, quando se n’è già andato.
Il novum possiamo coglierlo nell’avvento ormai conclamato di due “barbari”, nelle due rivoluzioni che rischiano di mettere in ginocchio il vecchio ordine politico, economico, etico. La rivoluzione sociale, ovvero l’arrivo di nuovi popoli in cerca di quella giustizia che noi abbiamo rimosso dal nostro lessico.
La rivoluzione tecnologica, ovvero l’impero dei media digitali, che porta con sé inedite possibilità ma anche altrettante domande. Questo passaggio dall’analogico al digitale ha segnato – paradossale contrappasso – un salto dalla socialità del noi alla solitudine dell’io.
Per conoscere questo novum abbiamo bisogno di politica e di cultura, di statisti (perché diciamo leader?) e di maestri. Figure fuori moda che preferiscono la verità alla consolazione.
Nel Protagora di Platone leggiamo che gli uomini morivano perché si facevano la guerra, perché «conoscevano soltanto la tecnica (demiourgiké téchne) ma non l’arte della politica (politiké téchne)», la sola che può salvare la vita degli uomini. Cicerone, facendo l’esegesi di quel mito platonico, esalta la parola politica per eccellenza: res publica, “la cosa di tutti”; in opposizione alla res privata, “la cosa del singolo”. Grazie al governo della res publica, il civis – leggiamo nel Sogno di Scipione – si assicura «un posto riservato in cielo». Perché la politica è la responsabilità più nobile. Messaggio pressoché incomprensibile per noi, arrendevoli al linguaggio sin troppo facile e contronatura dell’antipolitica. Contronatura: perché noi “animali politici” siamo destinati a edificare la polis, e, dice Aristotele, «chi vive fuori dalla comunità civile è o bestia o dio».
L’università, una delle istituzioni più prestigiose e più credibili del Paese, ha oggi una responsabilità non riducibile a codificata ed esangue mission. Noi professori siamo chiamati a professare (profiteri) l’etica della competenza e l’etica del rigore intellettuale e morale, che non si concilia con la doxa rumorosa, la chiacchiera imperante, il facile consenso.
Due i compiti tra i principali e più urgenti. In primo luogo quello di ricordare la bellezza, la prerogativa e il potere della parola: quel logos che ci distingue dagli animali (a-loga) e che, nella relazione con l’altro, si fa ponte: dia-logos appunto. Oggi la parola rischia di non esserci amica: ridotta a strumento, slogan, merce, finisce per assumere una sciagurata autonomia dalla realtà e di logorarsi in una crisi di entropia. Come lamentava Frontone, un oratore del II sec. d.C., ci accontentiamo delle parole che troviamo «per via»: le parole «ovvie » (obvia).
Abbiamo bisogno di una ecologia linguistica, che segni la differenza tra “vocaboli” e “parole”; abbiamo bisogno di una pentecoste laica. Perdura l’eco del lamento di Sallustio: «Abbiamo smarrito i veri nomi delle cose»; e ci suona sinistramente familiare l’atto di accusa di un personaggio dell’Agricola di Tacito contro la voracità imperialistica dei Romani: «Il depredare, il massacrare e il rapinare con falsi nomi li chiamano “impero” (imperium), e dove fanno il deserto lo chiamano “pace” (pax) ». Uso mai dismesso quello di creare neologismi che sottendono false equivalenze e usi mistificati: pensiamo ai nostri “flessibilità” per disoccupazione, “economia sommersa” per lavoro nero, “guerra preventiva” per aggressione. La stessa parola “trasparenza” nella sua ipertrofia regolamentare non è forse il sintomo di quella cattiva coscienza che s’illude di creare la virtù per decreto?
Nel tempo della retorica totale – dove i colpi di Stato si fanno a suon di parole prima ancora che di armi –, la vera tragedia è che i padroni del linguaggio mandino in esilio i cittadini della parola. In questa prospettiva la filo-logia, «la cura e l’amore per la parola», trascende il significato di disciplina specialistica e si eleva a impegno severo e nobile di ogni uomo che non intenda né censurare né censurarsi. Altro compito dell’università: promuovere un’alleanza tra humanities e tecnologie. A chi sostiene che la scienza e le tecnologie sono destinate a scalzare le humanities e che i problemi del mondo si risolvono unicamente in termini ingegneristici e orientati al futuro, si dovrà replicare che, se la scienza e le tecnologie hanno l’onere dell’ars respondendi, della risposta ai problemi del momento, il sapere umanistico ha l’onere dell’ars interrogandi, della domanda. Arte più difficile e decisiva, perché ha la responsabilità di ricapitolare e interpellare gli snodi del pensiero: vale ricordare che il paradigma della dimenticanza, che alimenta la tecnica, non può escludere quello della memoria che alimenta le idee; che la cultura deve governare la politica, l’economia e la tecnica; che l’oblio del passato e l’affidamento esclusivo agli algoritmi ci consegnano alla monocultura iper e microspecialistica, quando non addirittura a una sorta di monoteismo tecnologico; che alla scuola spetta formare cittadini digitali consapevoli, come ha fatto con i cittadini agricoli, industriali, elettronici. Ricordare col Petrarca che la condizione dell’uomo europeo è quella di «rivolgere lo sguardo contemporaneamente avanti e indietro» (simul ante retroque prospiciens); che la verità si sottrae al presente e si tende tra “il già” e “il non ancora”; che tramite, memoria, eredità di ieri sono punti di riferimento indispensabili per conoscere e riconoscere i “barbari” di oggi. Proprio i classici possono soccorrerci e aprirci il tempio del tempo: perché – come ha ricordato Umberto Eco – ci allungano la vita; perché – come ci ha illuminati Osip Mandel’stam– il classico deve essere sentito non come ciò che è già stato ma «ciò che ancora deve essere». Perché i classici, al pari della scienza e della tecnologia, hanno il futuro nel sangue.
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