La forza e la pietà: l’Iliade
La conoscenza e la sofferenza: l’Edipo re
L’invenzione di Roma: l’Eneide
Piero Boitani, “Il Sole 24 ore – Domenica”, 29 ottobre 2017
La scena si apre di notte, quando Priamo, contro l’avviso di tutti, si decide ad attraversare la pianura che separa Troia dal campo greco per andare a riscattare il corpo del figlio. Il vecchio è solo con l’auriga, ma viene ben presto raggiunto da Ermes, che Zeus ha inviato in suo aiuto. Il dio guida Priamo all’accampamento nemico, dandogli consigli preziosi sul modo in cui rivolgersi ad Achille. E Priamo entra all’improvviso nella tenda di colui che gli ha ucciso tanti figli, lo supplica nel nome del padre di lui, Peleo, bacia la mano che ha ammazzato Ettore. Achille, che ha appena terminato di mangiare, e che in un primo momento sussulta, piange ricordando il padre e Patroclo; Priamo piange il suo Ettore. La comunanza tra uomini viene infine ristabilita: nel pianto. Achille si alza di scatto, solleva per la mano il vecchio, lo invita a sedere con lui e si lancia in un discorso sugli affanni in mezzo ai quali gli dèi costringono gli uomini a vivere. Poi esce, chiama le ancelle e fa lavare e rivestire il corpo di Ettore, infine lo adagia lui stesso sopra la bara e, rompendo in lamenti per Patroclo, ritorna nella tenda. Invita allora Priamo a mangiare con lui, sostenendo che si era ricordata del cibo persino Niobe, cui Apollo aveva ucciso ben dodici figli.
Alla fine del pasto, ormai sazi, i due si guardano e si ammirano, in quella che è l’estrema pausa del poema: Priamo nota quanto Achille sia «grande e bello, proprio uguale agli dèi»; Achille osserva il «nobile aspetto» di Priamo e ascolta le sue parole.
Un grande stupore, una profonda meraviglia si impadronisce di entrambi mentre si guardano, come se adesso, dopo la morte, venisse il momento della scoperta dell’altro e tale scoperta consistesse in primo luogo nel rinvenimento della bellezza in un essere umano. Perché l’Iliade, poema della forza e della pietà, è anche il canto della bellezza.
Prima che a Priamo sia permesso di coricarsi, Achille gli domanda quanti giorni di tregua sarebbero necessari per la celebrazione dei funerali. Una volta a letto, però, il vecchio è risvegliato da Ermes, che gli consiglia di ripartire subito per Troia con il corpo del figlio. Priamo obbedisce e rientra in città. Il resto del libro XXIV è preso dalle esequie di Ettore, che l’ultimo verso del poema riassume: «Davano così sepoltura ad Ettore domatore di cavalli».
È necessaria la morte perché l’uomo venga restituito a se stesso e riconosca la bellezza dell’altro uomo. È necessario il pianto perché Priamo possa essere anche Peleo e Achille divenga per un attimo Ettore, perché l’eroe della forza sia anche quello della resistenza – perché Ettore possa avere onore di pianti finché il sole risplenderà su le sciagure umane.
Come giallo, come ricostruzione di un delitto che è parricidio e incesto, l’Edipo re di Sofocle è fantastico: forse il miglior giallo che sia mai stato scritto, dotato di un meccanismo a orologeria che non lascia tregua sino all’eclatante ribaltamento conclusivo. Edipo vuole conoscere il suo génos, ma quando giunge a conoscerlo, scopre di essere figlio di un uomo che egli ha ucciso e di una donna, la madre, con la quale si è congiunto e ha generato dei figli. La conoscenza che ha acquisito si rivela una tragedia. Edipo si acceca per non veder più il mondo nel quale ha commesso tanto male.
Il problema, per noi moderni, risiede però in una domanda essenziale: è colpevole Edipo di avere commesso questi orrori? Egli stesso sosterrà nel dramma successivo della serie tebana di Sofocle, l’Edipo a Colono, che non sapeva nulla, e quindi non era colpevole. Ogni evento gli sarebbe stato imposto dalla combinazione di Fato e Tyche, la sorte. In realtà, per i Greci Edipo è colpevole, ma non più e non meno di ciascun essere umano. Perché ogni essere umano è soggetto alla fallibilità: non alla colpa individuale nel senso cristiano, e quindi non al peccato, ma alla possibilità di errare e cadere: alla fallibilità. Edipo ha commesso una hamartía, cioè un colpevole errore. Ma la parola hamartía, che nel greco classico vuol dire «errore», nel greco dei Cristiani significa «peccato».
Tra i due concetti c’è una bella differenza, perché il peccato si commette scientemente (come quando Adamo ed Eva mangiano il frutto che è stato loro espressamente proibito da Dio), mentre la colpa può essere appunto attribuita a qualcuno senza che egli ne sia cosciente o responsabile fino in fondo. Edipo, appunto, non sapeva che l’uomo che uccideva fosse il padre, né che la donna con la quale si congiungeva fosse la madre, e anzi ha fatto tutto il possibile per evitare di compiere entrambe le cose. Tuttavia, Edipo è colpevole, profondamente colpevole, come lo sono tutti gli essere umani. Potremmo dire che su di lui grava una «colpa originale» – che non vorrei chiamare «peccato originale» per evitare confusione con un ambito differente – una colpa originale che riguarda tutti noi. Tutti noi che vogliamo conoscere le nostre origini, il nostro spérma e il nostro génos per mezzo della ragione e della scienza. Tutti noi che abbiamo rubato il fuoco insieme a Prometeo, o che da lui lo abbiamo ricevuto.
Virgilio, il maggior poeta di Roma, comprende la straordinaria forza d’attrazione che la politica romana di accoglienza e tolleranza esercita sugli altri popoli. Con l’Eneide, egli compone per Augusto il grande poema epico di Roma: la prima metà, che narra l’errare di Enea, ispirata dall’Odissea; la seconda, nella quale Enea affronta la guerra per la conquista del Lazio, modellata sull’Iliade. Al centro del poema, Virgilio colloca il libro VI, nel quale celebra una vera e propria apoteosi di Roma, e in particolare della gens Giulia cui Augusto apparteneva.
Guidato dalla Sibilla di Cuma, Enea, come Ulisse prima di lui, scende agli inferi. Incontra il nocchiero Caronte, una folla di morti insepolti (tra i quali il suo timoniere Palinuro), passa l’Acheronte, Cerbero, Minosse, i suicidi, i Campi del Pianto – dove si trovano relegati coloro che soffrono per amore, e tra essi Didone, che a Enea rifiuta addirittura di parlare. Le vittime gloriose della guerra, troiane e greche, si affollano attorno a lui. Poi, evitato l’ingresso nel Tartaro, Enea e la Sibilla giungono ai Campi Elisi, sede dei beati. Il poeta Museo conduce Enea dal padre, Anchise.
Nel colloquio che segue, Anchise, rispondendo a una domanda del figlio, illustra in primo luogo lo stato e i mutamenti delle anime, poi lo conduce in cima a un’altura dalla quale può vederle tutte. «Ora», annuncia, «ti svelerò con parole quale gloria si riserbi / alla prole dardania, quali discendenti dall’italica / gente siano sul punto di sorgere, anime illustri / e che formeranno la nostra gloria, e ti ammaestrerò sul tuo fato». Ecco, allora, pararsi dinanzi a Enea una prima schiera di figure che incarnano la leggenda di Roma, dai discendenti immediati – Silvio, Proca e Numitore – sino al fondatore Romolo e, d’un balzo, a Giulio Cesare e Augusto.
L’esaltazione di Augusto è al centro del Trionfo di Roma pronunciato da Anchise. Dopo di lui, la voce percorre la storia della città ritornando ai successori di Romolo sino alla fine della monarchia, e discendendo lungo i secoli della repubblica sino a giungere a Marco Claudio Marcello, figlio adottivo e genero di Augusto, erede poi morto del Principato. Proprio prima di soffermarsi su Marcello, Anchise proclama apertamente l’ideologia alla quale Roma deve ispirarsi: «Foggeranno altri con maggiore eleganza spirante bronzo, / credo di certo, e trarranno dal marmo vivi volti, / patrocineranno meglio le cause, e seguiranno con il compasso / i percorsi del cielo e prediranno il corso degli astri: / tu ricorda, o romano, di dominare le genti; / queste saranno le tue arti, stabilire norme alla pace, / risparmiare i sottomessi e debellare i superbi».
I Greci saranno scultori, oratori e astronomi migliori dei Romani, ma questi ultimi dovranno governare i popoli, «stabilire norme alla pace», parcere subiectis et debellare superbos. Risparmiare chi si sottomette: assimilarlo, farlo cittadino romano. Sconfiggere, sterminare, punire chi resiste.
I Romani assolsero questo duplice compito in maniera egregia. Offrirono al mondo un ordine imponendo un sistema legale altamente sviluppato e costruendo per secoli, in tutta Europa, Medio Oriente e Africa settentrionale, strade, ponti, acquedotti, terme, teatri: in maniera mai eguagliata prima, o dopo, sino all’epoca moderna.