Commentarii De bello Gallico

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A map animation for Julius Caesar, Gallic War 1.1, made by Alice Ettling using Google Earth. The Latin is read by Chris Francese. It is part of a series in the Dickinson College Commentaries.

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campagne_galliaCesare in Gallia: video didattico a cura di Historia Civilis (in lingua inglese)


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Un bilancio delle guerre galliche e della conquista

G. ZECCHINI, Le guerre galliche di Roma, Carocci 2009

Dopo il 50 e la partenza di Cesare per l’Italia subentrò in Gallia una quiete di fatto secolare: quando nel 48 d.C. l’imperatore Claudio si rivolse ai senatori per ottenere l’ammissione dei notabili gallici nel loro ardo, egli poté insistere sulla contrapposizione tra una decennale guerra di conquista e una successiva pace appunto dieci volte più lunga. Naturalmente questi dati numerici non potevano esaurire l’intera problematica dei rapporti romano-gallici: persistevano esitazioni, diffidenze e resistenze di tipo psicologico tanto che alla fine Claudio vide la sua richiesta soddisfatta solo limitatamente agli Edui. Tuttavia l’imperatore poté riferirsi a un secolo di pace senza provocare obiezioni e anche noi possiamo confermare la sua affermazione: l’effimera rivolta di Giulio Flora e di Giulio Sacroviro nel 21 d.C. appare in effetti un episodio pressoché irrilevante, non tale da turbare la sostanza della pace.

Le immediate ragioni di quest’ultima vanno ricercate, realisticamente, nelle conseguenze della conquista di Cesare: Plutarco (Caes. 15, 5 ) parla di 1 milione di morti e di 1 milione di prigionieri, Plinio il Vecchio di 1.192 .000 caduti  (NH, VII, 92) su una popolazione che si calcola in circa 8 milioni di abitanti; ora, perdite del 25 %  sono forse gonfiate, ma rinviano comunque a proporzioni tali che noi fatichiamo ad immaginare: la Germania e il Giappone non arrivarono al 10 % alla fine della Seconda guerra mondiale. Le dimensioni della strage fecero già inorridire Plinio, che si rifiutava di considerarla una componente della gloria di Cesare (ibid.: non equidem in gloria posuerim tantam etiam coactam humani generis iniuriam). La Gallia era dunque esausta, prostrata, per dirla con Jacob Burckhardt, dal Leiden der Unzaligen, il dolore delle vittime innumerevoli di tanti anni di guerra senza quartiere. Inoltre anche nel periodo della guerra civile tra Cesare e Pompeo Roma non sguarnì la recente conquista: un governatore esperto ed energico come D. Bruto vi rimase con tre legioni, aumentate a cinque nel 44; una sommossa tra i Bellovaci fu subito soffocata nel 46 (Per. CXIV) e poi ci pensarono i generali di Ottaviano a ricondurre sotto controllo gli estremi belgici e aquitanici del territorio: M. Vipsanio Agrippa nel 39/8 e M. Valerio Messalla Corvino nel 28 operarono in Aquitania, C. Carrinate e M . Nonio Gallo agirono contro i Morini e i Treveri nel 30/29. Al suo ritorno dall’Oriente nel 29 Ottaviano trovò una Gallia in ordine e pronta a essere plasmata dalla sua opera di romanizzazione.

L’integrazione della Gallia nella civiltà romana è sempre stata portata a modello dell’ eccezionale capacità dei Romani di assimilare i vinti e di far seguire all’inevitabile durezza della conquista un comportamento improntato a magnanima generosità, a illuminato senso di humanitasÈ vero che questo quadro idilliaco ha le sue ombre. Già nel XIX secolo N . D. Fustel de Coulanges insisteva sulla permanenza di un sostrato, di una mentalità, di alcune strutture sociali celtiche che sarebbero poi riaffiorate con la dissoluzione dell’impero romano; più di recente R. McMullen ha potuto parlare, con qualche buona ragione, di una Celtic Renaissance già nel III secolo d.C. e io non escluderei, contro il troppo categorico diniego di Drinkwater e Elton, che effettivamente tratti celtici siano sopravvissuti sino al tardo antico, al IV-V secolo d.C. In ogni caso una resistenza alla romanizzazione ci fu; di là dalle specifiche valutazioni, la reiterata e sempre più rigida condanna della religione druidica da parte delle autorità romane (è noto che sotto un imperatore non certo sanguinario come Claudio bastò che un cavaliere romano di origine gallica portasse al collo un oggetto di culto druidico per essere condannato a morte sull’istante: Plin. NH, XXIX, 1 2 ,54) deve pure essere dipesa sia da un’incompatibilità di fondo con i valori della civiltà romana (in particolare riguardo ai sacrifici umani), sia dalla sua pericolosità politico-sociale: non può essere casuale che nel 69 d.C., durante la prima vera crisi del principato, i druidi profetizzarono la fine del dominio romano e il suo trasferimento ad Occidente, tra i Galli (Tac. Hist. IV,54) ; tre aristocratici, i treveri Sabino e Classico e il lingone Tutore, concepirono il progetto di fondare un imperium Galliarum (Tac. Hist. IV,5 5 ) ; infine, nelle campagne intorno a Lione un movimento di rivolta antiromano dai connotati decisamente religiosi si coagulò intorno alla figura di Maricco, ritenuto dai suoi fanatici seguaci invulnerabile, quasi un dio, e definito adsertor Galliarum, patrocinatore della causa della Gallia (Tac. Hist. II,61) .

Tuttavia i sostenitori di una piena e rapida integrazione nel nuovo ordine romano hanno buoni argomenti per sé. Sul piano religioso già Cesare, in qualità di pontefice massimo, aveva rilevato la compatibilità, anzi la corrispondenza tra dèi celtici e dèi romani e aveva stilato una tabella di equivalenze (l’interpretatio Romana degli dèi gallici); molti culti locali già nella prima età imperiale sono officiati, come rivela l’epigrafia, da sacerdoti, che sono già cittadini romani; nel 12 a Lione fu eretto per volere di Augusto l’altare alla dèa Roma e ad Augusto stesso e del nuovo culto fu incaricato un nobile eduo cittadino romano, C. Giulio Vercondaridubno (Per. CXXXIX): almeno in apparenza non si registrano opposizioni a quest’operazione dall’indubbio significato politico-religioso. Sul piano giuridico, la cittadinanza romana fu diffusa in Gallia per singole persone, ma con grande slancio: anche i rivoltosi del 21 d.C., Sacroviro e Floro, sono due Giulii! Sul piano linguistico e culturale la diffusione del latino in Gallia non incontrò ostacoli: già nell’età di Cesare Varrone di  Atax scrive un poema epico-storico in latino e sotto Augusto uno storico voconzio, Pompeo Trogo, scrive in latino la sua storia universale; sempre Augusto fondò nel 16 o nel 12 la scuola di studi superiori di Augustodunum (Autun) (Tac. Ann. III,4 3 ) e i nobili gallici furono pronti ad inviarvi i loro figli, perché apprendessero quella retorica senza cui non si faceva carriera all’interno del sistema politico romano.

Le ragioni degli uni non sono però necessariamente conflittuali con le ragioni degli altri: la romanizzazione procedette sul piano sociale dall’alto verso il basso, giacché era più allettante per i ceti elevati romanizzarsi in vista delle straordinarie prospettive che così si aprivano all’interno dell’amministrazione di un impero mondiale; al tempo stesso, la nostalgia del passato libero e indipendente e la fedeltà ai costumi dei padri non si cancellarono così presto, né sempre in modo indolore, ma, tra i pochi visibili sussulti a cui abbiamo accennato, si consumarono lentamente nel silenzio dell’emarginazione: per fare un unico esempio, ma forse quello più significativo, essere druido nella libera Gallia era stato un ruolo di grande prestigio, essere druido nella Gallia romana significava essere relegato al rango di un prete locale.

Ciò che più importa sottolineare in questa sede, a conclusione di un libro dedicato alla guerra, non all’integrazione, è però che nella guerra, o meglio nella prima fase, quella bellica e quindi violenta, della conquista romana sono in nuce molti sviluppi del successivo processo di romanizzazione e della nascita della civiltà galloromana. Ciò non significa che un rapporto iniziale ”vincitore/vinto” sia il presupposto necessario di qualsiasi integrazione (non esistono, per fortuna, nella storia regole fisse), ma soltanto che il rapporto conflittuale tra Romani e Galli non deve essere letto solo come una catena di scontri tanto sanguinosi quanto sterili. In primo luogo, il sentimento di paura e di odio reciproco (il metus Gallicus contrapposto, come si è detto, al metus Romanus) non fu disgiunto dall’ammirazione per il valore degli uni e per la superiore scienza militare degli altri; inoltre, in una guerra ci si scontra, ma inevitabilmente ci si incontra: mercanti e negotiatores romani e italici si diffusero nella Gallia Cornata grazie alla conquista della Gallia Narbonensis e ancor più durante gli anni del proconsolato di Cesare: nel 52 a Cenabum e a Noviodunum furono assaliti e massacrati, ma di norma i rapporti con gli indigeni dovettero essere più pacifici e fecondi; infine, combattere un nemico per vincerlo o per resistergli implica l’esigenza di conoscerlo sempre meglio: non sappiamo che cosa Cesare sapesse del druidismo quando giunse in Gallia nel 58, ma certo, quando nel 51 scrisse l’etnografia celtogermanica, ne sapeva più di qualsiasi precedente etnografo. In secondo luogo, due fattori, peculiari delle guerre galliche, contribuirono in forma decisiva a porre le basi della successiva integrazione.

Il primo fattore è la scarsa identità politico-culturale dei Galli: sia in Cisalpina, sia in Transalpina essi erano divisi per gentes o civitates, alcune delle quali potevano esercitare una sorta di egemonia su altri popoli clienti o finitimi (”vicini” in un senso abbastanza vago; la traduzione letterale ”confinanti” è fuorviante), ma non ci fu mai un sentimento identitario comune capace di tradursi in un progetto politico unitario; l’assenza di un’identità propria e consapevole fu vantaggiosa nel momento delle migrazioni, perché permise ai Celti di mescolarsi alle popolazioni preesistenti, spesso senza grandi attriti, e di dar vita a combinazioni etniche celtiberiche, celtoliguri, celtogermaniche, celtoilliriche; di fronte alla pressione romana essa si rivelò però un endemico elemento di debolezza: durante la conquista e la riconquista della Cisalpina tra III e II secolo i Cenomani rimasero in disparte e si mantennero nel loro atteggiamento filoromano, senza unirsi alla resistenza di Insubri e Boi; durante la conquista della Narbonensis i Romani poterono contare sull’appoggio del salluvio Cratone; Cesare perse a un certo punto l’appoggio dei ”fratelli” Edui, ma conservò sempre quello dei Remi e dei Lingoni ed anch’egli poté contare su fazioni filoromane pronte ad appoggiarlo in cambio dcl potere locale(Gobannitione prima e poi Epasnacto tra gli Arverni ne sono l’esempio forse più rilevante) . Il secondo fattore è la forza d’attrazione che la civiltà romana, se si preferisce il Roman way of life, esercitò sui Galli: Roma offriva un tenore di vita e opportunità di acculturazione e di successo inimmaginabili in un contesto celtico; già i Celti d’Italia tra VI e IV secolo erano venuti a contatto con una civiltà italica, quella etrusca, ben più avanzata e raffinata della loro: la concupivano, non fosse che per la sua ricchezza. Dopo la guerra annibalica e al momento della riconquista della Cisalpina, Roma non rappresentava però più soltanto la sintesi delle numerose e affascinanti manifestazioni delle civiltà italiche, ma era ormai l’unica superpotenza, la riunificatrice di quel mondo mediterraneo ai cui margini vivevano i Celti e a cui aspiravano, era davvero l’epitome del mondo.

Ai Galli, soprattutto alle aristocrazie celtiche si poneva dunque il dilemma: valeva la pena combattere e morire per difendere una libertà locale e frammentaria alla periferia dell’ ecumene o non era più costruttivo accettare di inserirsi nel cuore della civiltà antica, sapendo per di più che Roma era abbastanza sollecita nel coinvolgere le élites locali tramite la concessione della cittadinanza nel governo dell’impero? I Galli non cedettero subito alle lusinghe di Roma; la loro lotta per la libertà fu lunga e coraggiosa e ci volle un Cesare per averne ragione, ma tra loro ci furono sempre esitazioni e oscillazioni; poi, la sconfitta militare fu determinante perché prevalesse l’assenso all’integrazione nella civiltà romana, ma questo assenso ci appare il frutto di una decisione matura e consapevole, anche perché, a furia di combattersi, ci si conosceva, si sapeva quello a cui si andava incontro, soprattutto ci si rispettava, come rivela il discorso di Vulsone in Livio: i Galli ben più dei Greci parvero ai Romani preziosi compagni di strada nella loro avventura imperiale.

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