Attenti, ci dicevano, dopo i colli la traccia si perde: sarà una fatica tremenda. Ma non potevamo rassegnarci all’idea che proprio l’Italia non avesse strade romane percorribili, fatte di pietra, sangue e sudore.
QUANDO, DOPO IL GUADO di un fiume, un roveto o un campo di grano, la via ridiventava visibile, ben allineata con la direttrice che avevamo perso chilometri prima in un intrico di sentieri, asfalto o canneti, e una ventina di satelliti sopra di noi confermavano quel fatidico allineamento sullo schermo del Gps, allora anche la parte svanita della strada si ricomponeva sulla mappa, evidenziando tracce giudicate di primo acchito trascurabili. Ma soprattutto qualcosa si rimetteva a posto anche dentro di noi, e una magnifica esultanza si diffondeva nel gruppo in cammino.
Non stavamo solo ripercorrendo l’Appia antica. La stavamo ritrovando. La riconsegnavamo al Paese dopo decenni di incuria e depredazione. LEGGI TUTTO…
Tutti i giorni, domeniche escluse, su “La Repubblica”, Paolo Rumiz riscopre l’antica strada consolare romana, in un viaggio di 360 miglia di ghiaia, di “possenti selciati” e di storia, oggi sepolti o quasi da 611 chilometri di asfalto e capannoni, tratturi e strade provinciali. In cammino, dunque.