Silvia Bussi, Daniele Foraboschi, Banchetto, in Le parole chiave della storia romana, Roma, Carocci, 2008
«Il primo germe della corruzione straniera fu portato a Roma dall’esercito d’Asia. Furono quei soldati a introdurre a Roma letti di bronzo, tappeti preziosi, cortine e altri addobbi. […] Allora si aggiunsero ai banchetti ballerine e musiciste, suonatrici di “sambuca” e persino intrattenimenti conviviali degli animatori […]. Ma gli stessi banchetti cominciarono ad apprestarsi con una cura e una spesa maggiore». Così Livio (XXXIX, 6), nel descrivere le conseguenze della campagna militare condotta nel 188/187 a.C. da Vulsone nell’asiatica Galazia, stigmatizza, in termini di severo moralismo, l’ingresso in Roma del simposio greco orientale come una delle manifestazioni di corruzione dei costumi morali a Roma. Le guerre transmarine furono dunque avvertite come causa di un epocale mutamento dei costumi anche per quanto riguardava una pratica, il banchetto, centrale nella vita religiosa, associativa e familiare dei Romani. Nella Roma delle origini il pasto in comune rientrava nel cerimoniale sacro delle confraternite religiose come le coenae saliares (cene rituali) celebri per l’opulenza dei loro allestimenti. Atto di devozione agli dei, la cerimonia conviviale era nello stesso tempo lo spazio in cui si rafforzavano i legami comunitari. Ideale evoluzione furono i riti del sellisternio e del lettisternio affermatisi tra il IV e III secolo a.C., cerimonie che prevedevano la materializzazione del dio nella forma del suo simulacro seduto o coricato su triclini dinanzi alla mensa riccamente imbandita e contemplato in raccoglimento dai cittadini. Successivo approdo del banchetto degli dei fu l’epulum Jovis, momento centrale delle festività in onore di Giove Capitolino dove, non più solo spettatore, il popolo partecipava in qualità di convitato all’imponente convivio pubblico sovvenzionato dallo stato. Il sacro convito non escludeva certamente la pratica “profana” del riunirsi a mensa – reclinati sul lato sinistro sul triclinio per agevolare la digestione e accrescere la quantità di cibo da ingerire – brindando con vino e senza precise finalità religiose. Di tale pratica sappiamo poco, e quel poco nella forma mitizzata che ne fornirono scrittori e storici di tarda età repubblicana. Improntato ad un’austera frugalità, il banchetto arcaico familiare a cui partecipavano pure le donne, seppure con il divieto di bere vino, fu anche importante spazio didattico: attraverso i canti simposiali del banchetto che celebravano le gesta eroiche degli avi si trasmettevano alle giovani generazioni quei valori civili e militari in cui la società romana arcaica si riconosceva. A partire dal III secolo a.C. l’ininterrotta serie di conquiste territoriali aprì il fronte commerciale con il Mediterraneo e con l’Oriente: Roma divenne l’epicentro di un fiorente circuito di importazione-esportazione fondato su una crescente richiesta interna di prodotti di lusso. L’inarrestabile corsa della società romana verso forme sempre più sfacciate di edonismo mutò profondamente il profilo del banchetto: il modello arcaico della cena familiare di disadorna frugalità difficilmente poteva reggere di fronte alle molli lusinghe del simposio greco-orientale. Persa ogni finalità didattica, il convito a Roma accoglie lo schema tripartito (mangiare e bere/riposare/godere) che era il nucleo originario del simposio greco. Ove godere era, più che presso i Greci, legato all’abbondanza e alla ricercatezza dei cibi ma anche, come per i Greci, legato a canti, balli, azioni sceniche offerti da musicanti, uomini e donne il cui professionismo si legava spesso all’esercizio della pratica erotica di cui la posizione sdraiata nel triclinio era il naturale preludio. Il convito dunque come teatro di lussuria: ai pueri modesti cui erano affidati in età arcaica i canti simposiali, succedono i pueri delicati, fanciulli effeminati di provenienza servile, per il cui acquisto si potevano pagare cifre astronomiche. Un nuovo spettro, oltre a quello del luxus, agitò allora i sonni della classe senatoria conservatrice: la pederastia, pericolosa minaccia all’istituto familiare. Eppure l’amore dei fanciulli era stato uno dei fondamenti del simposio greco. Ma le cene sontuose non erano solo allestite per il gusto dell’ostentazione o per smania edonistica. Esse diventarono in tarda età repubblicana trampolino di lancio per una facile ascesa alle magistrature. Amici e clienti a cui si aprivano le porte dei triclini costituivano la necessaria base elettorale per i personaggi più in vista della scena politica. Lo sperpero di ricchezze impiegato nei conviti indusse il Senato ad una serie di provvedimenti tesi a limitare le spese delle mense. La preoccupazione era, più che morale, politica: non solo l’importazione di merci di lusso costituiva un pericolo per il bilancio erariale, ma dilapidare i patrimoni aviti significava, in qualche modo, un ridimensionamento del potere patrizio. Un profluvio di leggi suntuarie (contro il lusso) si abbatté su Roma, a partire dal II secolo e per tutto il I secolo a.C. Ma i promotori di queste leggi erano il più delle volte i primi a trasgredirle: Cesare reagì al malcostume del lusso conviviale promulgando intorno al 46 a.C. la durissima Lex Julia sumptuaria.
Ma se la sua condotta privata aderiva al modello della più assoluta frugalità, l’uomo pubblico da un lato celebrò i trionfi del 46 a.C. con un fantasmagorico banchetto offerto a sessantamila invitati in cui furono servite seimila lamprede e un cado (misura di liquidi che equivale a circa un barile) di pregiato vino di Chio ogni nove commensali, dall’altro impose, in un regime di controllo intransigente, misure severe alle spese per i banchetti. Cesare fece allestire altri simposi urbani accompagnandoli con donazioni di frumento al popolo romano secondo una demagogica politica suntuaria funzionale al suo progetto autocratico-egemonico.
I banchetti pubblici continuarono in età imperiale. Per l’affluenza dei convitati (seicento commensali erano soliti sedersi ai banchetti grandiosi offerti da Claudio) furono introdotti letti, cioè triclini a forma di sigma capaci di ospitare più persone. Intanto il banchetto privato aveva raggiunto livelli di sfarzo mai prima raggiunti per soddisfare il gusto di ostentazione anche dei nuovi ricchi: appaltatori, costruttori, mercanti ecc., cresciuti con il nuovo sistema produttivo commerciale. Sfarzo e opulenza si sposavano con la volgarità propria della crapula. Una saletta attigua alla sala del banchetto ospitava i convitati che volevano liberarsi lo stomaco per riprendere ad abbuffarsi. «Mangiano per vomitare, vomitano per mangiare», dirà sprezzantemente lo storico dei Cesari Svetonio. Un’esilarante rappresentazione della pacchianeria del banchetto romano ci è data da Petronio nella celeberrima cena offerta dal liberto Trimalcione, il parvenu che si picca di competere per eleganza con l’antico modello greco del simposio. Un antecedente meno conosciuto, ma che servì da modello per Petronio, è la cena di Nasidieno Rufo cantata da Orazio nelle Satire, divertente parodia del banchetto greco trasportato nella Roma dei ricchi. La letteratura si era da tempo impossessata del tema del banchetto facendone un obiettivo satirico e polemico che la attraverserà fino al basso impero. (DF)
IL CIBO COME ECCESSO
“Il cibo come eccesso implica sempre una connotazione morale; valgano come esempio le parole di Epitteto (41): “È segno di stupidità trascorrere gran parte del tempo a occuparsi del proprio corpo, esercitando i muscoli, mangiando, bevendo, defecando e copulando. Queste cose andrebbero fatte incidentalmente e si dovrebbe piuttosto dedicare tutta l’attenzione alla mente”.
Teofrasto (Caratteri, 3), presentando una tipologia di persone prive di equilibrio, fa elencare al suo loquace personaggio tutti i piatti che ha gustato la sera precedente. Plutarco (Mor., 1094C) disprezza le persone che non ricordano un pasto consumato da poco e si entusiasmano per questo tipo di piaceri. Nella biografia di Augusto, Svetonio include anche la dieta seguita dall’imperatore, come riflessione secondaria (Aug. 74-76): “Nel cibo – giacché non potrei certo ometterlo – egli era oltremodo frugale”. Veniamo a sapere che sbocconcellava piccoli fichi e pane nero durante i suoi spostamenti in lettiga, che pur avendo dato importanza ai banchetti pubblici a questi però arrivava in ritardo, dicendo di aver già mangiato.
Trasporre il cibo in forma scritta presentava ovviamente alcune precipue difficoltà. Per quanto gli autori latini e greci cercassero di evitare ogni contatto con gli aspetti fisici e corporei dell’alimentazione, resta il fatto che, per quanto riguarda il gusto, l’appetito, la soddisfazione di un cibo, il vocabolario latino e greco ricorre alla metafora del piacere (cfr. edonè da edys che in greco vuol dire “dolce” e sapiens, dal verbo sapio che voleva dire in origine che “aveva un buon sapore”; lo stesso è riscontrabile nell’inglese sweet, “dolce” sia come sostantivo che come aggettivo).
Cicerone nei suoi scritti filosofici, predica sulle antiche virtù del cibo inteso come necessario corroborante per il corpo, ma quando scrive le epistole dimostra di essere a conoscenza di molti aspetti della gastronomia che un uomo colto deve possedere (Ad fam., 9, 18, 3 – Ad Att. 13, 52).
Il luogo dove cibo e sporcizia convivevano era la Suburra, descritta da Giovenale (Sat., 5, 105); il quartiere era lo stomaco di Roma, un po’ come il ventre di Parigi nella descrizione delle Halles in Victor Hugo. Inoltre il fatto che il quartiere delle taverne fosse così vicino al condotto fognario della Cloaca Maxima doveva rappresentare un costante monito al carattere transeunte del cibo.
Gli estremi dell’alimentazione romana, cibo frugale e cibo estremamente elaborato, rappresentavano l’iter del processo di civilizzazione: la natura rustica e frugale del passato era sovrapposta all’attuale cultura cittadina sofisticata, perciò il contrasto diviene storico e sociale insieme. La dieta seguita dalle altre razze viene in soccorso alla decadenza alimentare di Roma: Tacito nel paragrafo 23 della Germania ricordava che i Germani si cibavano di selvaggina, frutta selvatica e formaggio e sapevano placare il loro appetito senza dover ricorrere a condimenti e a elaborate preparazioni culinarie. L’espansione romana porta come conseguenza una chiara ostilità verso i cibi troppo elaborati e abbondanti e altri desideri superflui del corpo, l’ingordigia della gola si mette in rapporto con quella delle conquiste dei romani o degli arricchiti.
Molti autori, tra cui Plinio (Plinio, Nat. hist. XVII, 27, 220), ricordano come si manipolava la natura al fine di ottenere animali o ortaggi di grandi dimensioni, si ricorreva poi ad una grande quantità e varietà di cibi che spesso confondeva artificiosamente i sapori; il termine luxuria si riferisce contemporaneamente sia alla grandezza fisica, sia al proliferare di cibi ed alla esasperata raffinatezza gastronomica. Plinio ci riferisce di veri e propri “prodigia gastronomici” (Nat. hist., IX, 19, 54). Mentre in Grecia si attuavano scoperte scientifiche, a Roma cisisbizzarriva con quelle culinarie.
Eppure nell’Urbe esisteva una cultura del convivio nel suo significato intrinseco di “vivere insieme”, un corrispondente del simposio del mondo greco. Ricordiamo che dal punto di vista simbolico, i Saturnalia erano feste importanti, in esse si ribaltava qualsiasi gerarchia sociale e vi erano alcune variazioni sugli usi alimentari: nel rispetto dello stile ludico della festa, venivano serviti piatti di cibo finto, fatti di sostanze immangiabili (cfr. Petronio, Sat., 69, 9).
La cena era peri Romani quello che il symposium era per i Greci. La differenza stava nel fatto che il symposium era una riunione per bere, mentre la cena romana era appesantita da ogni sorta di cibi. Il momento del banchetto diviene comunque qualcosa di licenzioso e di eccessivo, un esempio di volgarità portata all’eccesso è la descrizione del banchetto funebre di uno schiavo fatta dal marmista Abinna alla fine della Cena del Satyricon: in essa vi è la tipica confusione tra ciò che è umano e ciò che è animale.
Nel convito vi sono spesso allusioni alla sessualità. Nella letteratura conviviale ricorrono giochi di parole tra sapiens (saggio ma anche saporito) e ius (salsa, sugo di carne, ma anche legge e diritto); spesso erano solo battute scherzose che però fanno capire una certa avversione del potere e il tono sprezzante dei moralisti.
Grasso era sinonimo di grossolano, anche nelle opere letterarie; a Roma essere parchi voleva dire dissociarsi dall’insieme di materialismo e di consumi ostentati: Marziale dice di un ospite particolarmente arrogante “E’ la tua cena ad essere eloquente, non certo tu”. Cicerone giocando sul termine ius, che vuol dire anche salsa, scherza con la possibilità di scambiare le lezioni di retorica con quelle di cucina. Nel Gorgia (cfr. Plat. Gorgia 465d) l’arte retorica e quella culinaria vengono comparate sulla base del fatto che entrambe si fondano sull’inganno. Nel Moretum il cibo viene impiegato come metaforico e come reale: macrocosmo e microcosmo sono racchiusi nello spazio della poesia. La frase e pluribus unum (Moretum, 102 – curiosamente divenuto il motto che si legge sul dollaro statunitense), sottolinea la stravagante commistione di linguaggio comune e linguaggio aulico; il poeta diventa il villico irsuto e il formaggio una ridicola parodia del cosmo.
Tacito, Germania, 23
Potui umor ex hordeo aut frumento, in quandam similitudinem vini corruptus: proximi ripae et vinum mercantur. Cibi simplices, agrestia poma, recens fera, aut lac concretum. Sine apparatu, sine blandimentis expellunt famem. Adversus sitim non eadem temperantia. Si indulseris ebrietati suggerendo quantum concupiscunt, haud minusfacile vitiis quam armis vincentur.
Umor: si tratta di un liquido ricavato dall’orzo e dal frumento, cioè la birra, l’etimo della quale è teutonico.
Corruptus vuol dire fermentato. I popoli più vicini alla frontiera del Reno bevono il vino perché avevano più scambi con i Romani, anche gli esiti nelle lingue anglosassoni del vocabolo “vino” mostrano il rapporto con Roma. L’uso della cacciagione fresca ci fa capire come non fosse condita con spezie per evitare che s’imputridisse, come invece facevano i Romani.
Lac concretum: latte rappreso come in Virgilio, Georg. III, 463; non si tratta di formaggio che era pressoché sconosciuto alle genti barbare. Tacito conclude in maniera come al solito sentenziosa.
Suetonio, Augusto, 74-76
[74] Convivabatur assidue nec umquam nisi recta, non sine magno ordinum hominumque dilectu. Valerius Messala tradit, neminem umquam libertinorum adhibitum ab eo cenae excepto Mena, sed asserto in ingenuitatem post proditam Sexti Pompei classem. Ipse scribit, invitasse se quendam, in cuius villa maneret, qui speculator suus olim fuisset. Convivia nonnumquam et serius inibat et maturius relinquebat, cum convivae et cenare inciperent, prius quam ille discumberet, et permanerent digresso eo. Cenam ternis ferculis aut cum abundantissime senis praebebat, ut non nimio sumptu, ita summa comitate. Nam et ad communionem sermonis tacentis vel summissim fabulantis provocabat, et aut acroamata et histriones aut etiam triviales ex circo ludios interponebat ac frequentius aretalogos.
Dava spessissimo conviti e sempre in forma regolare, con accurata scelta delle persone e delle classi. Narra Valerio Messalla che non ammise mai alle sue cene alcun libertino, tranne Mena, soltanto però dopo che lo ebbe dichiarato libero cittadino, quando costui gli consegnò la flotta di Sesto Pompeo. Egli stesso scrive di aver invitato un tale nella cui villa dimorava, che era stato suo informatore particolare. Spesso entrava a mensa in ritardo e la lasciava più presto degli altri, sì che i convitati cominciavano a cenare prima che egli venisse e continuavano dopo che egli si era ritirato. Offriva cene di tre portate o di sei quando voleva molto abbondare, non per ciò di soverchia spesa, ma con somma giovialità; incitava infatti a partecipare alla conversazione chi taceva o chi parlava sommessamente, faceva intervenire o musici o attori ed anche ballerini ordinari del circo e più spesso i cantastorie.
[76] Cibi – nam ne haec quidem omiserim – minimi erat atque vulgarisfere. Secundarium panem et pisciculos minutos et caseum bubulum manu pressum et ficos virides biferas maxime appetebat; vescebaturque et ante cenam quocumque tempore et loco, quo stomachus desiderasset. Verba ipsius ex epistulissunt: “Nosin essedo panem et palmulas gustavimus.” Et iterum: “Dum lectica ex regia domum redeo, panis unciam cum paucis acinis uvae duracinae comedi.” Et rursus: “Ne Iudaeus quidem, mi Tiberi, tam diligenter sabbatis ieiunium servat quam ego hodie servavi, qui in balineo demum post horam primam noctis duas buccas manducavi prius quam ungui inciperem.” Ex hac inobservantia nonnumquam vel ante initum vel post dimissum convivium solus cenitabat, cum pleno convivio nihil tangeret.
Quanto ai cibi, infatti non voglio omettere neppure questo, era frugalissimo e di gusti quasi volgari. Gradiva pane di seconda qualità, pesciolini minuti, cacio vaccino premuto a mano, fichi freschi biferi; e mangiava anche prima della cena, in qualunque momento e in qualunque luogo il suo stomaco lo invitasse. Sono parole tratte dalle sue lettere: “Ho mangiato pane e datteri in vettura”; “Tornando in lettiga dalla Basilica a casa ho mangiato un’oncia di pane con pochi chicchi di uva duracina; neanche un giudeo osserva i sabati come oggi li ho osservati io, che soltanto al bagno, dopo la prima ora di notte, ho mangiato due bocconi prima che cominciassero ad ungermi”. Per effetto di questo disordine, non di rado mangiucchiava da solo, prima di mettersi a mensa o dopo il convito, mentre durante questo non toccava cibo.
Petronio, Satyricon
66… ci fu servito un pezzo di carne di orsa.78
69…seguirono poi delle mele cotogne con gli spini confitti intorno, per simulare i ricci di mare, e ciò sarebbe stato ancora più tollerabile, se una pietanza stupefacente non ci avesse fatto venir voglia di morire piuttosto che di assaggiarne…
70… è una perla d’uomo, che,se tu vuoi ti fa un pesce da una vulva, un colombo da un pezzo di lardo, una tortora da un prosciutto, una gallina da un culaccio. Perciò gli ho trovato un nome che gli si addice bene…
Persio, Satire, Proemio, vv. 10 – 11
Magister artisingenique largitor
Venter, negatas artifex sequi voces.
Il ventre è maestro d’arte ed elargitore d’ingegno, sa imitare le voci negate dalla natura.
Platone, Gorgia, 464d:
Socrate: “Nella medicina si è insinuata la gastronomia, e pretende di sapere quali siano i cibi migliori per il corpo; infatti se un cuoco e un medico dovessero competere davanti ad una giuria di bambini- o anche di uomini dissennati come bambini- per stabilire chi dei due s’intende di più di cibi buoni e cattivi, fra il cuoco e il medico sarebbe il medico a morire di fame. E’ questo che intendo quando parlo di adulazione; e dico che è una cosa brutta perché mira al piacere disinteressandosi del bene”.
465b c d e: “Come dicevo, la gastronomia è un’adulazione travestita da medicina…la cosmesi sta alla ginnastica come la gastronomia alla medicina; e si potrebbe anche dire che la cosmesi sta alla ginnastica come la sofistica sta alla legislazione, o che la gastronomia sta alla medicina come la retorica sta alla giustizia … certo, se non fosse l’anima a governare il corpo, ma il corpo si governasse da sé, e se non fosse l’anima a tenere distinte la gastronomia e la medicina, ma il corpo dovesse giudicare in base ai piaceri che prova, allora avrebbe proprio ragione Anassagora: ogni cosa si confonderebbe insieme, nello stesso calderone, senza più possibilità di distinguere salute, medicina e gastronomia. Questa è la mia definizione di retorica, l’equivalente nell’anima di ciò che è la gastronomia per il corpo” .
http://www.armando.it/Uploads/Armando/docs/22067_18080_SCHEDE.pdf
PER APPROFONDIRE:
Reclining and Dining (and Drinking) in Ancient Rome
Villa dei Misteri, Triclinium. Ricostruzione digitale.
L’alimentazione nel mondo romano. VIDEO Memex – RAI SCUOLA (dal minuto 12′.18″).