Alfonso Traina, INTRODUZIONE A ORAZIO LIRICO: LA POESIA DELLA SAGGEZZA, Patron 1998
1. L’immagine «apollinea» di Orazio fu tanto cara al classicismo e al razionalismo illuministico quanto sospetta alla sentimentalità romantica. La critica moderna tende a rovesciare questa immagine, non senza qualche esagerazione. In realtà, Orazio fu un uomo ansioso, melancholicus , noi diremmo nevrotico. La migliore conferma ce l’ ha data Orazio stesso, con una delle sue callidae iuncturae: strenua nos exercet inertia (epist.1,11,28: «ci fa soffrire un torpore smanioso»), il cui ossimoro non è solo una figura retorica, ma sembra anticipare la terminologia degli psicologi moderni: «depressione ansiosa».
Orazio si conosceva bene. Era, come tutti gli scrittori latini, introspettivo. Dalle sue opere non si ricava solo il suo ritratto fisico – un meridionale basso, corpulento, cisposo, scuro di pelle e precocemente grigio -, ma anche, e soprattutto, quello psichico dominato da due tratti, irritabilità e irrequietezza. «Non sai stare un’ora con te stesso, ma fuggi da te cercando di eludere l’ansia col vino o col sonno: invano, ché essa, nera compagna, ti sta sempre alle costole», si fa dire, a meno di trentacinque anni, dal servo Davo, promosso, per l’occasione, a voce della sua coscienza (sat. 2, 7). Questa «nera compagna», la cura, ha una folta presenza lessicale nell’opera oraziana: non è tanto significativo il totale delle sue occorrenze (nell’accezione di «ansia» una ogni 260 versi, contro una ogni 337 versi nel «poeta dell’angoscia», Lucrezio), quanto la ricchezza della sinonimia nominale e verbale. Sono cinque i sinonimi di cura (aegrimonia, aerumna, maeror, sollicitudo, tristitia, per un totale di 10 occorrenze) e 14 i verbi con cui Orazio esprime la rimozione della cura, quanti nessun altro poeta dell’età repubblicana e augustea. Anche l’aggettivazione è emblematica: atra, «nera», è un epiteto che compare solo in Orazio e vi compare ben quattro volte. Perché questa predilezione? Perché, ha risposto uno studioso tedesco, ater è il colore della morte .
2. L’importanza di questa tematica nella lirica di Orazio è suggerita dalla sua collocazione. Nel I libro, dopo le odi a Mecenate a Ottaviano, a Virgilio – il protettore, il principe, l’amico del cuore (animae dimidium meae) – , la 4, l’ode a Sestio, è dominata dalla personificazione della morte, di cui sentiamo il lugubre rintocco in una delle più insistite fra le rare allitterazioni onomatopeiche oraziane: Pallida Mors aequo Pulsat Pede PauPerum tabernas / regumque turres (v. 13 sg.: «la pallida Morte picchia con piede imparziale alle porte dei tuguri e dei palazzi»), in contrasto con la danza leggera – che si vede e non si sente – delle Grazie e delle Ninfe: iunctaeque Nymphis Gratiae decentes / alterno terram quatiunt pede (v. 6 sg.: «le Grazie leggiadre tenendo per mano le Ninfe battono la terra ora con un piede, ora con l’altro»). Così come lo scenario della danza, la mite notte primaverile rischiarata dalla luna (v. 5: imminente luna), si contrappone alla notte della morte che vanifica l’essere nel nulla: iam te premet nox fabulaeque Manes (v. 16: «presto su te peserà la notte e i Mani, una favola»).
Questa ode costituisce un dittico certo intenzionale con l’ode 7 del libro IV: Diffugere nives, redeunt iam gramina campis («si è dissolta la neve, torna già l’erba ai piani»).
3.È il medesimo motivo, la circolarità del tempo cosmico, quale si attua nel girotondo delle stagioni, opposta all’irripetibile linearità della vita umana; ed è un metro affine, epodico archilocheo come l’altro, e, come l’altro, usato una sola volta nel canzoniere oraziano. Anche la collocazione è significativa, nel cuore del IV libro (composto di 15 carmi), dopo le odi civili, celebrative dei duces, quasi ad affermare, sul trionfo degli uomini, il trionfo della morte, livellatrice di tutti i valori: Nos ubi decidimus / quo pius Aeneas, quo Tullus dives et Ancus, / pulvis et umbra sumus (vv. 14-16: «noi, una volta caduti dove già il pio Enea, il ricco Tulio ed Anco, non siamo che polvere ed ombra»). Anche se non è questa l’ultima parola di Orazio, che al trionfo della Morte farà seguire, come vedremo, il trionfo della Poesia, dobbiamo prendere atto che il poeta, rinviando con 4, 7 a 1, 4 ha segnato, ai confini della sua opera lirica, una delle principali tematiche della sua ispirazione: quel senso di morte che rende così struggente il sapore della vita.
4. Il tema della morte è inscindibile dal tema del tempo. È la morte che dà all’uomo l’angoscia del tempo, perché è la morte, ultima linea rerum (epist. 1, 16) che toglie al tempo la rassicurante ciclicità della natura per distenderlo nella breve linea della vita umana. Brevis: ecco un altro aggettivo le cui occorrenze temporali in Orazio superano la somma delle analoghe occorrenze in Lucrezio Catullo Virgilio. È nel carme 14 del II libro che si fa più esplicita la connessione del tempo e della morte: Eheu fugaces, Postume, Postume, / labuntur anni nec pietas moram / rugis et instanti senectae / adferet indomitaeque morti («Scendono in fuga gli anni, Postumo, / Postumo!, e la buona coscienza / non farà ritardare / le rughe, la vecchiezza / che preme, la morte che nessuno vinse»). L’incalzare del tempo è reso non solo dai lessemi nominali (fugaces) e verbali (labuntur, instanti), ma anche dall’affannosa geminatio del vocativo (un nome che «sa di morte», diceva il Pascoli), donde viene alla strofa un convulso dinamismo che va a infrangersi sul blocco eptasillabico della clausola indomitaeque morti. Nessuna traduzione può riprodurre tutte le connotazioni di questo latino. «Fugace», per noi, è solo un sinonimo letterario di «passeggero». Ma fugax, connotato negativamente dal suffisso -āc-, è il soldato che fugge dal suo posto di combattimento: riferito agli anni, con una metafora oggi logora, ma allora inedita, significa farne dei traditori che ci abbandonano a nostra insaputa; lo conferma il verbo, labuntur, che è uno scivolare furtivo e silenzioso. Seneca, erede del senso e del lessico oraziano del tempo, userà il medesimo verbo in brev. vit. 8, 5: «il tempo non darà segno della sua velocità, scorrerà via senza rumore (tacita labetur )».
Non c’è dubbio: Orazio appartiene a quel tipo d’uomini i quali vivono più sotto gli auspici del tempo che passa e della morte che si avvicina che del tempo che progredisce e che facciamo progredire in noi. Questa angoscia del tempo, questo senso del precario tradiscono un fondo d’insicurezza che potrebbe avere radici lontane, nell’assenza di una figura materna, se così deve interpretarsi il silenzio di Orazio sulla madre, sorprendente non in se stesso, ma di fronte alle tante menzioni del padre (e, una volta, della nutrice). Pura ipotesi. Certo è invece il contraccolpo che ebbe sul giovane la sconfitta di Filippi e il naufragio dell’ideologia repubblicana. Tornò a Roma con le ali mozze (decisis pinnis), privo dei beni paterni, in difficili condizioni economiche. Era il crollo della città-stato, il crollo del suo mondo, e l’instabilità politica ed economica dovette acuirne la sensibilità per l’irrazionalità e l’imprevedibilità degli eventi, il gioco del Caso (ludus Fortunae) che la Grecia ellenistica chiamava Tyche. È un altro, e non dei minori motivi della lirica oraziana. Si è sorriso dell’importanza che Orazio annette all’episodio dell’albero che rischiò di cadergli sulla testa, al punto di metterlo sullo stesso piano della rotta di Filippi. Che hanno in comune la grande tragedia storica e il piccolo incidente personale? Due cose: l’imprevedibilità e la morte. A Filippi Orazio si salvò miracolosamente; nel suo fondo sabino, là dove si sentiva al sicuro (tutum) dalle forze distruttrici della vita, era in agguato l’improvisa leti vis (c. 2, 13: «il colpo improvviso della morte»), ad ammonimento che «non si è mai abbastanza previdenti per evitare ciò che ci può capitare da un momento all’altro». A questo misterioso e capriccioso potere, che ti salva o ti perde quando meno te lo aspetti, Orazio ha dato diversi nomi, Fortuna, Caso, dio, Giove, Necessità, da varie ottiche e in vari tentativi, mai del tutto riusciti, di dare un’occulta ragione al caos degli eventi. A sentire la Tyche come Provvidenza, nella vita e nella storia, come la sentì Virgilio che era anche lui partito, nelle Bucoliche, dall’ammissione che Fors omnia versat (ecl. 9:«tutto è in balia del Caso»), Orazio, memore della lezione epicurea, non giunse mai. Perché nulla può compensare l’uomo della sua mortalità. Ma fece una parziale eccezione: per sé, non in quanto uomo, ma in quanto poeta. Nelle circostanze più critiche della sua vita Orazio si sentì protetto da una forza sacra. A Filippi lo salvò Mercurio, il dio inventore della lira (c. 1, 10) ed emulo di Orfeo (c. 3, 11). Come dire, un’ipostasi della Poesia.
5.Torniamo all’ansiosa temporalità oraziana. Il motivo del carpe diem si trova esplicitato nel c. 1, 11: dum loquimur, fugerit invida / aetas: carpe diem, quam minimum credula postero, ma ritorna in tutta l’opera di Orazio con una gamma di variazioni sinonimiche accordate ai rispettivi contesti. Nell’epodo 13 è l’urgenza e violenza di rapio: rapiamus, amici, / occasionem de die (v. 3 sg.: «rapiamo, amici, l’occasione alla giornata»); nell’epistola 1, 11, la più bella delle lettere, è il prendere finalizzato al godimento di sumo: tu quamcumque deiis tibi fortunaverit horam, / grata sume manu neu dulcia differ in annum (v. 23 sg.: «tu qualunque ora di felicità ti avrà elargito il dio, pigliala con mano grata e sfruttala senza rimandarne la dolcezza al futuro»). Carpo è, di tutti, il più nuovo e il più espressivo, dicendosi di un movimento lacerante e progressivo tra le parti e il tutto, come sfogliare una margherita o piluccare un grappolo d’uva. Il tutto è l’aetas, il tempo maligno (invida) visto nella continuità della sua fuga: la parte è il dies, l’oggi, da spiccare giorno per giorno senza contare sul domani.
L’ode 1, 11 è ricca di performativi. Ma la maggior parte di essi è, sintatticamente o semanticamente, negativa: non indagare il futuro (ne quaesieris…), è peccato sapere (scire nefas), non tentare l’oroscopo (nec temptaris…), non prolungare la speranza oltre il breve spazio della vita (spatio brevi / spem longam reseces), non farti illusioni sul domani (quam minimum credula postero). Il carpe diem è così serrato in un cerchio di divieti, connotati dalla sacralità di nefas, che ne condizionano il significato. La medesima struttura, sia pure a diverso livello, presentano gli altri carmi del carpe diem, l’epodo 13 («di tristezza non parlare»), l’epistola 1, 11 («non rinviare la gioia al futuro»). Vistosi paralleli sono offerti da altre varianti, metaforiche e sintattiche, del carpe diem: «cosa avverrà domani, non chiederlo e considera un guadagno ogni giorno che ti darà il caso»; «il cuore contento dell’oggi non si curi di ciò che è al di là»; «il dio previdente immerge il futuro nella notte e ride se il mortale si affanna oltre il lecito (ultra fas: il nefas del c. 1, 11). Ricordati di ben disporre del presente: il resto è come la corrente di un fiume»; «fa conto che ogni giorno sia per te l’ultimo raggio di sole: sarà un piacere di più l’ora inattesa». Il carpe diem ci appare dunque costantemente connesso col divieto complementare: non pensare al domani. Domani, è l’incertezza del futuro, è la certezza della morte. Da esse Orazio si difende contraendosi nel breve giro dell’oggi. Dies, occasio, hora , praesens, quod adest sono tutti sinonimi della puntualità dell’istante, in cui Orazio tenta di neutralizzare la fuga dell’aetas. Perché vivere il tempo, vuoi dire morirne.
Ogni poeta, come ogni uomo, ha un suo senso del tempo. Il tempo di Lucrezio è l’eterna alternanza cosmica di vita e morte (mors immortalis). Il tempo di Virgilio s’inarca fra la nostalgia del passato (aurea fuere saecula) e la speranza dell’avvenire (aurea condet saecula). Il tempo di Catullo si brucia in un presente di felicità esaltante (vivamus, mea Lesbia, atque amemus) o nel rimpianto di una felicità perduta (fulsere quondam candidi tibi soles). In Orazio il polo opposto al presente è il futuro: un futuro non sperato ma temuto, una fuga dal domani, che sull’oggi getta un’ombra di morte: «non attenderti l’immortalità, te lo ripete la stagione che rapisce i giorni della nostra vita» (c. 4, 7). Rapit, il verbo dell’epodo 13: rapiamus. Fra queste due «rapine», quella che il tempo fa all’uomo e quella che l’uomo tenta di fare al tempo, si tende la drammatica temporalità di Orazio.
Orazio, Carmina
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