Seneca

Seneca fu, per i posteri, il rappresentante letterario del primo impero: nel Medioevo egli era noto più di Cicerone, e nei nostri tempi non lo respinsero neppure quei circoli che per il resto scagliano l’anatema contro la letteratura pagana. L’educatore di quel principe, il cui genio si tramutò in grandiosa terribilità, il consigliere e confidente dell’imperatore, e poi una delle sue vittime, l’austero filosofo i cui grandi sermoni moraleggianti risuonano fino a noi nella loro lingua folgorante, ha da sempre attirati su di sé gli sguardi degli uomini: odio e amore, giudizi aspri e benevoli non sono mai toccati, in tale misura, ad altro uomo e scrittore dell’antichità, e ancor oggi, si può dire, la sua figura ondeggia nella storia alterata dall’odio e dal favore dei due partiti
E. NORDEN, La prosa d’arte antica dal VI secolo a. C. all’età della Rinascenza, trad. it., Salerno Editrice, Roma 1986, vol. I, p. 317

«Il toreador della virtù»: così, in una pagina velenosa e feroce del Crepuscolo degli idoli, Seneca era definito da Nietzsche, che pure in gioventù l’aveva annoverato fra i “grandi moralisti”. Il filosofo dell’Oltreuomo, nel momento in cui sottolineava, con la tagliente concisione dell’aforisma, il contrasto e l’incoerenza, abili e tortuosi, del personaggio e del pensatore, della vita e della parola, aveva del resto alle spalle una tradizione antisenecana che andava dall’Agostino del De Civitate Dei al Petrarca delle Familiares, da La Rochefoucauld, che intitolava ad un “Seneca smascherato”, spogliato ormai dei suoi infingimenti e delle sue doppiezze, la prima edizione delle sue amare e disincantate Massime, fino al Melville del Diario italiano, che dietro la maschera emaciata e sofferente dell’asceta intravedeva lo sguardo vitreo e protervo dell’usuraio (quale peraltro Seneca, se dobbiamo credere alla testimonianza, d’altro canto perlopiù ostile, di Cassio Dione, effettivamente fu). 

Forse non aveva tutti i torti Agostino quando, nel De Civitate (VI, 10), lamentava, con antitesi laceranti, che Seneca, pur se spiritualmente liberato dalla filosofia, covasse i vizi che fustigava, compisse egli stesso le azioni che rimproverava agli altri, adorasse ciò che denunciava .
In effetti non mancano, nell’esperienza umana ed intellettuale di Seneca, le contraddizioni e i paradossi. Pur esaltando il distacco dalle ricchezze, fu ricchissimo (del resto, come si legge nel De vita beata, il filosofo non deve affatto essere per forza povero, ma semplicemente non essere schiavo delle proprie ricchezze, considerarle più come un benevolo prestito della fortuna che come un possesso stabile e saldo, ed essere pronto, qualora se ne desse il caso, a perderle senza eccessivo rammarico); pur predicando la virtù, la misura, l’equilibrio, il distacco dalle passioni, si dilettò, secondo l’uso greco, con gli efebi , sempre stando a Dione (Storia romana, LXI, 10); alla morte, nel 54, dell’imperatore Claudio, sbeffeggiò, nell’Apocolocyntosis, quello stesso sovrano che aveva esaltato in modo enfatico ed iperbolico nella Consolatio ad Polybium, con cui tentava, peraltro senza immediato successo, di ottenere la revoca dell’esilio inflittogli nel 41 per torbidi intrighi di palazzo.
È forse con Seneca (e lo intuirono in molti fra i suoi lettori più attenti, da Montaigne a Rousseau) che nasce la teodicea, l’interrogazione inesausta, inesauribile, mai pienamente soddisfatta (né forse mai soddisfabile, in termini e limiti umani) sulla giustizia ultima, assoluta, trascendente. «Per alta vade spatia sublimi aetheris», dice Giasone nell’inquietante chiusa della Medea senecana, «testare nullos esse, qua veheris, deos»: «Va’ per gli spazi profondi dell’etere sublime, / per rivelare che non ci sono dei là dove tu passi».
Matteo Veronesi, I “dulcia vitia” di Seneca scrittore

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