Enea e Didone negli Inferi

Paul Cézanne, Aneas Meeting Dido at Carthage, ca. 1875, Princeton University Art Museum. FONTE: Wikipedia

L’incontro fra Enea e Didone negli Inferi

Aeneis,  VI, vv. 440-76. Traduzione di A. Fo, Einaudi.

Nec procul hinc partem fusi monstrantur in omnem Lugentes 
Campi: sic illos nomine dicunt.
Hic quos durus amor crudeli tabe peredit,
secreti celant calles et murtea circum
silva tegit; curae non ipsa in morte relinquont.
His Phaedram Procrinque locis maestamque Eriphylen     
crudelis nati monstrantem volnera cernit
Euadnenque et Pasiphaën; his Laodamia
it comes et iuvenis quondam, nunc femina, Caeneus
rursus et in veterem fato revoluta figuram.
Inter quas Phoenissa recens a volnere Dido        
errabat silva in magna; quam Troïus heros
ut primum iuxta stetit adgnovitque per umbras
obscuram, qualem primo qui surgere mense
aut videt aut vidisse putat per nubila lunam,
demisit lacrimas dulcique adfatus amorest:      
«Infelix Dido, verus mihi nuntius ergo
venerat exstinctam ferroque extrema secutam?
funeris heu tibi causa fui? per sidera iuro,
per superos et si qua fides tellure sub ima est,
invitus, regina, tuo de litore cessi.       
Sed me iussa deum, quae nunc has ire per umbras,
per loca senta situ cogunt noctemque profundam,
imperiis egere suis; nec credere quivi
hunc tantum tibi me discessu ferre dolorem.
Siste gradum teque aspectu ne subtrahe nostro.  
Quem fugis? extremum fato, quod te adloquor, hoc est».
Talibus Aeneas ardentem et torva tuentem
lenibat dictis animum lacrimasque ciebat.
Illa solo fixos oculos aversa tenebat
nec magis incepto voltum sermone movetur        
Tandem corripuit sese atque inimica refugit
in nemus umbriferum, coniunx ubi pristinus illi
respondet curis aequatque Sychaeus amorem.
Nec minus Aeneas casu percussus iniquo
prosequitur lacrimis longe et miseratur euntem.

E non lontano da lì, da tutte le parti a distesa,
ecco i Campi del Pianto: con questo nome li chiamano.
Qui quanti un duro amore consunse in crudele disfarsi
strade appartate nascondono, e, intorno, protegge di mirti
una selva; le pene nemmeno in morte li lasciano.
È in questi luoghi che scorge Fedra e Procri e Erifìle
mesta, che mostra le piaghe inferte dal figlio crudele,
ed Evadne e Pasìfae; ad esse vanno compagne
Laodamìa e, giovinetto un tempo, Cèneo, ora femmina
e nell’antica figura per fato di nuovo mutato[1].
E la fenicia Didone, di fresca ferita, fra loro
nella gran selva vagava; e, come l’eroe dei Troiani
si trovò a lei vicino e lei riconobbe fra le ombre
scura, quale chi al primo iniziare del mese la luna
o vede sorgere o crede di aver fra le nubi intravista,
non trattenne le lacrime e con dolce amore le disse:
«Vera, o infelice Didone, era a me dunque giunta la voce
che tu eri morta, seguendo la sorte estrema col ferro?
Ahi, della morte ti fui causa io? Per le stelle, lo giuro,
per i sùperi e se una lealtà vale in fondo alla terra,
contro mia voglia, regina, dal tuo lido ho preso congedo.
Ma me i comandi divini, che ora qui a andare fra le ombre,
per luoghi squallidi e putridi e notte profonda mi forzano,
hanno spinto coi loro decreti; né avrei mai creduto
che ti avrei dato, partendo, un simile grande dolore.
Ferma il tuo passo, e non ti sottrarre al mio sguardo! Chi fuggi?
Questa è per fato l’ultima volta che posso parlarti».
Con tali detti Enea quell’animo ardente e dal torvo
sguardo voleva lenire, e lacrime intanto versava.
Lei, altrove rivolta, gli occhi fissava giù a terra,
né si smuoveva nel volto al discorso intrapreso più che se
fosse una statua di dura pietra o di roccia marpèsia[2].
E infine se ne andò via, e piegò, rifugiandosi, ostile
nell’umbrifero bosco, dove lo sposo di un tempo
alle sue cure risponde, Sichèo, e ne ricambia l’amore.
Non di meno Enea, percosso da quel caso avverso [3],
lei, che va via, con le lacrime segue, lontano, e commisera.

Wenceslas Hollar, Aeneas and Dido in the underworld

[1] 445-49. I versi in questione presentano una sorta di catalogo di celebri donne che in vario modo furono vittime dell’amore: Fedra, sposa di Tèseo, si innamorò del figliastro Ippolito e, dopo averne provocato la morte per vendicarsi di essere stata respinta da lui, si uccise (cfr. anche VII 761 sgg. con relative note); Procri seguì per gelosia il marito Cèfalo durante una battuta di caccia ed egli la uccise involontariamente, avendola scambiata per una preda; Erifìle, sedotta con un monile da Polinìce, che guidava la guerra dei Sette contro Tebe, causò la morte del marito Anfiarào e fu uccisa per vendetta dal figlio Alcmèone; Evàdne, moglie di Capanèo, un altro dei sette re alleati nella guerra contro Tebe, si gettò sul rogo del marito, fulminato da Giove durante l’assedio della città; di Pasìfae (sulla quale si veda la nota ai vv. 23-27), non è noto in che modo morì, e una possibile fine violenta che la accomuni alle altre eroine è attestata solo da questo cenno di Virgilio; Laodamìa, sposa di Protesilào, il primo dei Greci a cadere all’arrivo a Troia, ottenne dagli dèi di incontrarlo nuovamente per breve tempo, e in seguito si uccise per seguirlo. Infine, il problematico caso di Cèneo (cfr. Paratore, in Virgilio, Eneide, a cura di Ettore Paratore, traduzione di Luca Canali, Mondadori-Fondazione Lorenzo Valla, 6 voll., Milano 1978-1983, ad locum): si sarebbe trattato originariamente di una ragazza di nome Caenis amata da Nettuno, che ottenne dal dio di essere trasformata in un uomo invulnerabile; secondo il mito, avrebbe incontrato tuttavia la morte durante la lotta con i Centàuri, e Virgilio è il solo a precisare che negli inferi avrebbe conosciuto una retrometamorfosi, tornando donna; è incerta la precisa ragione per cui figuri fra le altre eroine legate a patetiche storie d’amore (forse Virgilio attingeva a una fonte ellenistica di cui non siamo a conoscenza: cfr. Tristano Gargiulo, s.v. Ceneo, in Enciclopedia Virgiliana I, 1984, p. 728). Tra le donne elencate da Virgilio, Fedra, Procri ed Erifìle potrebbero essere state tratte dal catalogo delle eroine incontrate da Ulisse durante la cosiddetta Nékyia di Od. XI 225-327.

[2] 470-71. La roccia marpèsia è il marmo di Paro, per via del monte Marpessus a Paro (la traduzione sviluppa l’immagine della statua, evocata dallo stare in piedi fissa, espresso da stare: cfr. Buc. VII 32. È degno di nota che il verso 469 sia quasi per intero identico a quello che fissa in analoga postura la statua di Pàllade, ostile ai Troiani, in I 482).

[3] VI 475. Il casus iniquus è con ogni probabilità l’immeritata sorte sventurata di Didone; ma l’espressione è ambigua (P. Vergili Maronis Aeneidos Liber Liber Sextus, edited with a Commentary by Roland G. Austin, Clarendon Press, Oxford 1977, ad locum) e può abbracciare anche la circostanza amara e sfavorevole occorsa a Enea in questo incontro, come qualcuno ha preferito intendere (Wagner: cfr. The Works of Virgil,  with a Commentary by John Conington, 3 voll., vol. III, revised by Henry Nettleship, Bell, London 18844ad locum). L’incontro di Enea con l’ombra sdegnata di Didone è notoriamente esemplato su quello di Odisseo con l’ombra sdegnata di Aiace in Od. XI 542 sgg. Adam Parry, The Two Voices of Virgil’s Aeneid, in «Arion» 2, 1963, pp. 266-80 (ora in Philip Russell Hardie, a cura di, Virgil. Critical Assessments of Classical Authors, 4 voll., Routledge, London-New York 1999, vol. III, pp. 49-64: 61) ha sottolineato come, nel caso della vicenda d’amore fra Enea e Didone, Virgilio abbia conferito alla donna una nobile statura eroica che in quel frangente Enea invece perde, e su questo incontro ha scritto «Virgil strengthens the emotions this scene creates in us by recalling the one scene in the Odissey where Odysseus meets a hero greater than himself, and is put to shame by his silence».

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