Silvia Ronchey, “La Repubblica”, 31 maggio 2015
C’È chi dice che la parola eroe, in greco heros, abbia a che fare con la radice di eros, in greco amore. Degli dèi anzitutto: «Muore giovane chi è amato dagli dei», secondo un verso di Menandro reso celebre da Leopardi, che lo mise in exergo a Amore e morte. In effetti gli eroi muoiono giovani, o comunque prima del tempo. Ettore, Patroclo, Pallante, Lauso, Mezenzio. James Dean, Charlie Parker, Jim Morrison, Kurt Cobain, River Phoenix. Guerrieri coraggiosi, arcieri dalla mira infallibile, attori sul palcoscenico del mito degli antichi e dei moderni, la morte precoce è l’essenza del loro eroismo. Prima della forza bellica, dei poteri e delle abilità che li portano a compiere gesta straordinarie, è eroica la loro capacità di cogliere la vita in controtempo; di prevenire l’agguato della morte; di anticipare la fine di una vicenda perfetta, di un idillio col mondo e le sue forze. L’eroe coglie la morte con il tempismo con cui l’amante sapiente tronca una perfetta storia d’amore: senza lasciare ricordo di imperfezione o decadimento, ma solo sorpresa e rimpianto.
Troppo bello per essere vivo: questo si può dire sempre dell’eroe. Ma l’eroe è bello come un vaso zen: è fallato, ha un’imperfezione congenita, un’impercettibile incrinatura che fa riconoscere subito in lui l’affinità con la morte. Che sia il tallone di Achille o lo spleen, il marchio somatico di un’indole depressa, ogni eroe ha in sé, visibile nel corpo, leggibile nel carattere ancora prima che nell’interpretazione postuma del destino terreno, l’inizio della fine, l’indizio della morte. È per eccellenza infelice: nel mondo greco è sottomesso al volere degli dèi, a un karma cui si adegua con feroce e malinconica vitalità. È bello e buono, kalòs kai agathòs: coniuga la bellezza fisica all’agathìa aristocratica, l’audacia con la fedeltà ai vincoli di un’origine ibrida, spesso semidivina. Sospeso tra il sovramondo degli dèi e il mondo infero verso cui si affretta, il suo temporaneo passaggio nell’umanità si traduce in uno scambio simbolico: sopprimendo l’istante, lo consegna all’eternità; introduce nella precarietà dell’esisten- za il desiderio della bellezza; suggerisce quello che James Hillman chiamava l’istinto dell’anima al suicidio; rivela che è la morte, alla fine, la vera impresa che l’eroe compie, che l’impresa eroica per eccellenza è il morire — l’impresa di tutti noi.
Nell’epica greca e latina che ha messo in scena i nostri primi eroi la morte dell’eroe è quasi più importante del valore che ha la sua vita, dell’obiettivo che ha raggiunto. Nell’Iliade come nell’Eneide ogni volta che un eroe muore la narrazione improvvisamente dimentica la ragione profonda della guerra, il conflitto si addensa intorno alle sue spoglie: il suo corpo e la sua armatura diventano per centinaia e centinaia di versi il più vero e urgente motivo di combattimento. Se la morte dell’eroe non è ritualmente allestita, se il guerriero caduto non è sepolto o cremato secondo il rito, la sua anima sarà tormentata e non potrà entrare nell’Ade; sarà un vampiro, un non morto, una vaga ombra; la collettività non potrà usare il suo sacrificio. Perché tra l’eroe e il suo popolo, il suo pubblico, la sua audience millenaria, oltre che uno scambio simbolico c’è un’identificazione sacrificale. L’eroe muore per noi e così facendo sconfigge la morte, come Cristo, nell’inno pasquale bizantino che ancora la liturgia ortodossa esegue spargendo eroiche foglie di alloro, “con la sua morte calpesta la morte”. Dopo questo sacrificio, con le parole di Giovanni Crisostomo, «noi, è vero, moriamo ancora come prima ma non rimaniamo nella morte, e questo non è più morire».
In realtà la morte eroica tradizionale è solo una delle varie possibilità di metamorfosi. Non c’è mai il nulla alla fine della storia, ma sempre qualcos’altro che la psiche accoglie. Il mito si rinnova sempre, fuori ma soprattutto dentro di noi. L’idillio interrotto, il corpo trafitto, il sipario abbassato, lo spegnersi della musica sono immagini mitiche che parlano all’anima di se stessa. Gli eroi che muoiono sono forme archetipiche nelle quali riconoscersi: infondono il coraggio quotidiano di non arrendersi alla morte.