Ellade addio: la fine di un amore nato dai sogni di Goethe e Schiller

Maurizio Bettini, “La Repubblica”,  16 luglio 2015

I media e l’opinione pubblica di Berlino e dintorni adesso descrivono il popolo greco come “levantino”, infido e fannullone. Siamo lontani dalla passione coltivata dai grandi artisti del passato: segno che le cosiddette “radici culturali” mutano continuamente

Durante le innumerevoli fasi della crisi greca, si è assistito a un proliferare di citazioni, rimandi, allusioni all’antica Ellade. In Italia la Grecia è stata più volte ricordata come la patria della democrazia, dunque come una terra a cui l’Europa deve troppo per poterla umiliare: pur se la democrazia ateniese, per la verità, non si sarebbe mai sognata di proporre un referendum come quello indetto dal premier Tsipras. Da quando in qua, avrebbero detto gli ateniesi, anche le donne decidono sulle cose degli uomini? Queste cose succedono solo nelle commedie di Aristofane. Qualcuno poi ha evocato il sacrificio di Leonida, e la vittoria di Maratona, quasi fossero il baluardo che difese l’Europa dalla dominazione orientale: che cosa sarebbe oggi di noi, se quella volta i Greci non avessero fermato i Persiani? Magari dimenticando che, solo 150 anni dopo, furono i Greci, guidati da Alessandro, a invadere a loro volta l’impero persiano — e certo non lo fecero per esportare la democrazia. Oltre all’Italia anche la Francia si è scoperta filellena. In uno dei tanti momenti in cui pareva che l’accordo fosse stato raggiunto, Manuel Valls ha twittato in greco «l’Europa è la Grecia!», mentre il ministro Emmanuel Macron, parlando di economia, non esitava a citare Aristotele. Facile concludere che il tema delle “radici culturali”, in questo caso quelle elleniche, ha giocato un ruolo importante nel dibattito nato attorno alla crisi greca. Questo almeno in Italia e in Francia. Ma in Germania? 

Al contrario di altri paesi, i tedeschi non si sono dimostrati particolarmente filelleni. A cominciare dalla copertina della rivista Focus, che recava un’Afrodite di Milo in vesti di accattona, per finire con la proposta, subito ripresa dalla Bild, di vendere le isole dell’Egeo per ripagare il debito. I greci dovranno pur rinunziare a qualcosa, e pazienza per la schiuma da cui nacque la dea. Si sa, la comunicazione si fonda su uno scambio di immagini, più spesso di stereotipi: e se in alcuni paesi, come Italia e Francia, i greci hanno spesso assunto le luminose sembianze di Pericle, in altri esibiscono piuttosto volti astuti e sottili, “levantini”. Per i tedeschi sembra contare molto di più il “debito” che la Grecia ha con loro (pur se non solo con loro), che non il “debito” che essi hanno verso la cultura ellenica. Un cambio di prospettiva davvero rimarchevole.
Se infatti c’è stato un paese che, nel passato, si è mostrato filelleno, questo è proprio la Germania. Non solo perché la poesia e la filosofia tedesca sono state influenzate dai greci molto più di quanto sia avvenuto altrove, ma perché per decenni i tedeschi si sono presentati al mondo come i “veri Greci”, gli unici degni eredi di Omero, di Pindaro e di Platone. Se Schiller vedeva nella Germania «la nuova Grecia del futuro», Goethe aveva addirittura immaginato un incontro fra Faust ed Elena — la donna più bella del mondo — in un’Arcadia favolosa: da questa travolgente passione venne concepito un figlio, Euforione, in cui si fondevano lo spirito ellenico e quello nordico. Quanto a Hölderlin, la sua nostalgia per la Grecia fu tale che nel 1802 tentò di raggiungerla a piedi dalla Germania: e quando il suo viaggio terminò, nelle Alpi Svizzere, perché fu aggredito lungo la strada, egli rinunziò a proseguire perché interpretò quell’incidente come un segno inviatogli da Apollo.
Ma anche senza andare così indietro nel tempo, il filellenismo diffuso fra i tedeschi emerge ancora da una vignetta di Kostas Mitropoulos risalente ai primi anni Ottanta. Vi si vede un curioso personaggio in abito di guerriero greco, e di fronte a lui un uomo piccolo, bruno, con i baffetti e un berrettino sulla testa. La scena è manifestamente ambientata in una stazione ferroviaria greca. Dunque il guerriero si rivolge all’altro con queste parole: «Andra moi ennepe Mousa… », citando cioè il primo verso dell’Odissea: e l’ometto bruno commenta «Ah, costui deve essere un tedesco! ». Il problema è che non c’è nulla di così presente, anzi così acutamente contemporaneo, come le cosiddette “radici culturali”. Le quali invece di rimandare saldamente al passato, come il loro “radicamento” sembra suggerire, tutto al contrario mutano, si rivoltano, scompaiono a seconda delle opportunità del momento. In piena crisi greca lo storico Martin Schulze Wessel ha sottolineato l’importanza delle «radici religiose ortodosse » della Grecia, dunque più vicina alla Russia che non al resto dell’Europa. Bisanzio ha preso il posto di Atene. Quanto alle “radici cristiane dell’Europa”, richiamo che a dispetto delle polemiche non fu introdotto nel preambolo della costituzione europea, fra i non molti paesi che ne fanno effettivamente menzione nella propria carta, c’è l’Ungheria: quella che ha blindato i propri confini col filo spinato per impedire l’accesso ai migranti musulmani. Il fatto è che le “radici culturali” non sono solo mutevoli, ma anche molto plasmabili. Probabilmente Orban ha voluto evocare quelle, cristiane, d’Ungheria, non per esaltare il motto «amerai il prossimo tuo come te stesso», ma piuttosto il comandamento che recita «non avrai altro Dio all’infuori di me». Salvare la Grecia è necessario per rispettare prima di tutto i diritti umani, non solo le nostre “radici”.

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