Eva Cantarella, Il gusto e gli eccessi ai tempi di Pompei, dove nacque il cibo come fenomeno sociale, “Corriere della Sera”, 8 marzo 2015
Come tutte le conoscenze storiche, anche quelle sull’assunzione del cibo aiutano a comprendere sia la nostra cultura, sia quella degli «altri»: tutti quelli che sono (e sono stati) «diversi» da noi. A dimostrarlo, le pratiche alimentari e la regolamentazione sociale delle cene (convivia) nell’antica Roma.
Per alcuni secoli i pasti dei romani furono molto frugali. Le risorse economiche erano modeste, i valori sociali erano l’austerità e la sobrietà: la colazione mattutina (ientaculum) consisteva in una tazza di latte o di acqua, pane con miele o frutta secca… Meno austero ma ugualmente modesto il pranzo meridiano (prandium: un veloce spuntino, spesso solo gli avanzi della sera precedente.
E ugualmente modesto (anche se meno del prandium) il pasto principale, la cena (cena), consumata nel pomeriggio in famiglia, spesso accanto al focolare, a volte integrata da uno spuntino notturno (vesperna o merenda).
Ma con il tempo da un canto l’economia crebbe, dall’altro i romani impararono ad apprezzare le piacevolezze della vita: «Graecia capta ferum victorem cepit», scrive come ben noto Orazio. Accanto al piacere dei bagni nelle terme i romani avevano appreso dai greci quello della buona cucina: caviale importato dal Mar Nero, pesce, crostacei e ostriche di cui erano abilissimi allevatori, buon vino importato dalla Grecia.
Il pasto serale divenne un momento importante della socialità: vi si incontravano gli amici, si stringevano nuove conoscenze, si concludevano affari e alleanze politiche, spesso legate a scambi matrimoniali. Il cibo veniva servito in una sala (il triclinium), dove ci si sdraiava alla greca. A differenza di quanto accadeva in Grecia, però, potevano parteciparvi anche le donne: o meglio, anche le donne «per bene», intendendo per tali quelle che non vi partecipavano per mestiere (etere, danzatrici, musiciste).
Sempre a differenza che in Grecia, l’enfasi non era posta sul vino (anche se molto apprezzato) bensì sul cibo. A dimostrarlo basta ricordare l’abitudine di liberare lo stomaco, tra un piatto e l’altro, ficcandosi due dita in gola.
Ma al di là di pratiche come questa, per noi non esattamente eleganti, i romani erano diventati dei raffinati gourmet. I primi grandi chef dell’antichità erano stati greci (più precisamente siciliani), ma questo non toglie che a Roma ne esistessero di veramente eccellenti, come il celeberrimo Marco Gavio Apicio, nato circa il 25 d.C. sotto Tiberio, sotto il cui nome è giunto a noi un manuale di cucina intitolato «De re coquinaria». Infine, un’ultima considerazione: a Roma, le cene non avevano la connotazione religiosa che caratterizzava i simposi greci, sempre preceduti, tra l’altro, da un sacrificio agli dèi. Ma avevano una funzione sociale che le avvicina, più che alla Grecia, a noi e alle odierne cene e buffet intesi ad allargare le conoscenze, concludere affari e stringere accordi politici. Nonché, spesso, a esibire il proprio status sociale.
Cosa, questa, che come in tutti i tempi faceva sì che alcuni, che non conoscevano le buone maniere, esagerassero (ed esagerino) cadendo nel cattivo gusto e a volte nel ridicolo. Come accade in una celebre opera letteraria, al famoso Trimalcione, che nel Satyricon di Petronio offre cene proverbiali, nella sua casa tanto sfarzosa quanto volgare. Tra una portata e l’altra descrive orgoglioso e vanesio le sue ville, il danaro che possiede, la ricchezza delle sue terre.
È l’immagine feroce del nuovo ricco che esibisce un benessere troppo rapidamente acquisito e molto mal digerito.
E per concludere qualche parola sull’abbigliamento: a Roma si cenava scalzi. Gli uomini non indossavano la pesante toga, ma un abito più comodo e leggero (synthesis o vestis cenatoria). E a volte (cosa, questa, del tutto inaspettata) indossavano abiti femminili.
Come leggiamo, infatti, nel Corpus Iuris Civilis di Giustiniano, di un senatore che aveva destinato a una certa persona, per testamento, le vesti muliebri di sua proprietà. Ma siccome il senatore amava cenare vestito da donna, nacque un problema: intendeva forse alludere a quelle con cui usava cenare?
I giuristi interpellati non mostrarono alcuna sorpresa (a Roma il «cross dressing» non era un problema). Come dice l’incipit di un celebre romanzo di Hartley, L’età incerta, è proprio vero che «il passato è una terra straniera: fanno le cose in un altro modo, lì».
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