Francesco Merlo, “La Repubblica”, 23 maggio 2015
SOLO ora che non c’è, sappiamo che c’era e dov’era. Purtroppo solo ora che l’abbiamo persa, Palmira è per noi geografia che si fa storia: Palmira come Waterloo e come Danzica, come Sarajevo e come Dallas, come le Twin Towers e come Mostar, luoghi che segnano il tempo più degli anni, illuminano l’epoca più della filosofia. Dunque solo ora che comincia il “dopo Palmira” scopriamo che nella Palmira di prima c’era un pezzo della nostra identità. Innanzitutto nelle palme, nei tronchi alti e snelli che si piegarono per fare ombra a Maometto bambino e nelle foglie larghe ed aggraziate che si intrecciarono come un arco di trionfo al passaggio di Gesù.
Ebbene, da oggi il bellissimo nome di Palmira non parlerà più di quelle palme. Racconterà invece la guerra islamica all’Occidente, evocherà il terrorismo che si è fatto esercito e che si sta facendo Stato. Molto più delle date che si dimenticano e si confondono tra loro sono infatti i luoghi che riassumono la storia senza bisogno di aggiungere altro.
TIENANMEN per esempio, e piazza Fontana, nomi di isole come Sant’Elena ma anche Ustica e le Falklands, paesini come Lockerbie o come Salò. Forse la storia non è quella filosofia che ci insegnava Benedetto Croce, forse è geografia in cammino: Lepanto, Weimar, la Baia dei porci … E da oggi anche Palmira.
Ma sono quelli dell’Is che hanno ritrovato Palmira prima di noi. Eppure loro non distinguono tra le archeologie, vogliono distruggere con la dinamite e con i picconi tutto ciò che resta delle civiltà, non solo preislamiche. Si accaniscono infatti su colonne e statue ma anche sulle antiche moschee perché vorrebbero cancellare l’intera storia prima della Rivelazione, e dunque — se potessero — le Piramidi e persino la casa del profeta. Insomma combattono l’idea stessa di storia antica senza sapere che è un concetto romano anche la devastazione fisica e simbolica che non ha rimedio: la “tabula rasa”.
Palmira e Palmina e Palma sono anche i nomi di grazia e di delicatezza che hanno le ragazze italiane con gli occhi e i capelli neri, nomi di Terra Santa e di carovana. E Palmiro è il nome che l’ex seminarista Antonio Togliatti mise al figlio per ringraziare Dio che l’aveva fatto nascere nella domenica delle palme. Anche lui non sapeva nulla della città delle palme che ci mette i brividi solo adesso che ce l’hanno rubata perché, prima, la gran parte di noi, proprio come Antonio Togliatti, non la conosceva nemmeno.
E avevamo dimenticato che viene dalla città delle palme anche l’esotismo con cui i romani decorarono i mosaici nelle loro ville, come a Piazza Armerina per esempio. E sono palme colorate dai bizantini gli alberi della vita della Cappella Palatina di Palermo, alberi che nel Mediterraneo tengono testa agli ulivi. Le palme sono gli alberi della lussuria che in Asterix e Cleopatra sbucano improvvisamente dalla sabbia, alberi del sole ma anche delle oasi d’acqua, piante robustissime che neppure il punteruolo rosso riesce ad abbattere. E ci sono le palme nane, a cespuglio, quelle altissime che danzano nelle tempeste, tutte danno legno debole e dolce per ricoprire le capanne, foglie per i soffitti, palmeti per i datteri e paesaggi per le nostre sconfitte come sapevano i soldati italiani aspettando gli inglesi nell’oasi di Giarabub: “inchiodata sul palmeto / veglia immobile la luna”.
E però a Palmira i soldati dell’Is hanno trovato l’icona che noi avevamo perduto. Noi infatti dimentichiamo la bellezza, qualche volta la rinchiudiamo nei musei, in genere non ce occupiamo. Loro invece la distruggono. E noi scopriamo e rimpiangiamo le nostre pietre solo quando loro le riducono in polvere. E infatti anche le decapitazioni e i massacri, che sono ormai immagini di ordinaria ferocia che loro stessi divulgano, neppure ci sorprenderebbero se non fossero ambientate a Palmira. È la scenografia che ci mette una gran paura addosso. Eravamo abituati a vedere i macelli consumati negli scannatoi, in luoghi senza storia, nell’aridità dei deserti, nel degrado delle periferie, tra mura sbrecciate e piazzette di polvere e sporcizia. A Palmira invece le teste rotolano in un contesto di assoluta bellezza. È una novità che neppure Sade aveva immaginato. Le atrocità naziste, di regola, non venivano commesse sotto i monumenti ma in remoti boschetti, in appartamenti fuori mano, Birkenau vuol dire “bosco di betulle”, e la polizia stalinista torturava nei gulag inaccessibili della Siberia dove anche lo sputo gelava in aria. Mai gli assassini divulgavano immagini, tutti si fingevano buoni perché avevano la coscienza del misfatto, nascondevano la storia cancellando la geografia nel recondito e nell’indefinito. A Palmira invece il delitto è al quadrato: sacrilegio, profanazione, bestemmia di qualsiasi Dio. Sembra il mondo di Hieronymus Bosch, carne, scheletri e mostruosità nella luce accecante del giardino delle delizie.