Mario Citroni, “il manifesto – Alias”, 9 luglio 2017
Bimillenario ovidiano . L’intrinseca figuratività della maniera ovidiana nel saggio «Narciso e Pigmalione» di Gianpiero Rosati, Edizioni della Normale
Va salutata con molta soddisfazione la scelta delle Edizioni della Normale di ridare vita a un libro importante e ormai introvabile: Gianpiero Rosati, Narciso e Pigmalione Illusione e spettacolo nelle Metamorfosi di Ovidio (pp. 177). Il saggio, agile e brillante (alla sua prima uscita, da Sansoni, nel 1983, fu finalista al Premio Viareggio), muove da una raffinata analisi di due celebri episodi delle Metamorfosi per farne discendere un’interpretazione generale del poema e della poetica che lo sostiene. Un’interpretazione che conserva oggi tutta la sua validità, e anzi si propone con l’ulteriore forza che le deriva dal fatto di essere divenuta nel frattempo un punto di riferimento negli studi ovidiani: critici italiani e stranieri di orientamenti diversi continuano a confrontarsi con questo saggio di Rosati e a sviluppare, in direzioni anche in parte diverse, linee interpretative in esso tracciate. Una sintetica serie di indicazioni su tali percorsi negli studi più recenti la offre Rosati stesso nella nuova prefazione che apre il volume.
Quando il saggio apparve la prima volta, su Ovidio ancora gravava il pregiudizio postromantico di superficialità disimpegnata, di virtuosismo godibile ma un po’ futile. Rosati è stato tra i primi a cercare significati profondi e attuali entro questo presunto disimpegno. Il suo saggio si è posto così, con pochi altri, alle soglie di quella spettacolare ripresa di interesse per Ovidio che sarebbe poi presto seguita, che ancora continua anche fuori degli ambiti specialistici, e che ha fatto parlare di questi decenni, in campo letterario, come di una nuova aetas Ovidiana.
Il tema dominante
In quanto grande repertorio di miti, le Metamorfosi suscitavano interesse per gli approcci all’antico di tipo antropologico o di tipo psicoanalitico. Un tratto particolarmente originale di Rosati è la dimostrazione che nella scrittura ovidiana dei miti di Narciso e di Pigmalione il tema dominante non è quello erotico, non è la deviazione dell’oggetto del desiderio, come era parso a larga parte della ricezione successiva: ai padri della Chiesa, a diversi successivi moralismi e soprattutto, appunto, alla psicoanalisi. Questo elemento è, certo, presente ma più importa a Ovidio il tema dell’illusione, che il poeta esalta anche attraverso il legame, non prima attestato, dell’inganno visivo di cui Narciso è vittima per opera della sua immagine con l’inganno acustico di cui egli è vittima per opera della ninfa Eco. In Ovidio, Narciso non ama se stesso ma il giovane che vede nello stagno credendolo altro da sé: quando scopre che quel giovane è la propria immagine, muore per la sofferenza dell’illusione frustrata. Pigmalione sa che la statua è solo una statua, l’ha creata lui: ma tale è la potenza illusionistica dell’arte, che è spinto a desiderarla perché appare donna viva e non statua. Dalla dimostrazione convincente, e coinvolgente, della centralità del tema dell’illusione, del tema degli incerti limiti tra realtà e immagine di essa in Narciso e in Pigmalione, Rosati ricava la valenza meta-poetica dei due miti, come emblemi delle intenzioni di un poema dedicato appunto alla universale ingannevole mutevolezza delle forme e del loro apparire. Narciso attribuisce realtà autonoma a suoni (la voce di Eco) o immagini (la propria) create da un mero gioco di riflessi. Pigmalione crea un’immagine ideale con arte così perfetta da apparire natura, ma che solo grazie al miracolo della metamorfosi sarà natura. Così il poeta crea, nelle Metamorfosi, un mondo di immagini improbabili, cercando di illudere il lettore della loro realtà e al tempo stesso suggerendogli, con complici cenni di intesa e suggestioni ironiche, la consapevolezza che si tratta solo di un gioco di illusioni. In tal modo Ovidio ci propone di vedere il mondo come governato da una legge segreta di mutevolezza, in cui ciò che sembra reale e definitivo rivela improvvisamente la sua natura transitoria, o si rivela come inganno, travestimento, identità camuffata, equivoco fatale.
La forma si fa contenuto
L’ultimo capitolo sperimenta questa chiave di lettura attraverso l’intero poema con analisi a campione su passi che verificano sia gli aspetti che abbiamo qui riassunti, sia altri che non ho qui lo spazio per esporre. Segnalo solo le raffinate analisi stilistiche che mostrano come in Ovidio la forma linguistica a volte sappia mimare il contenuto fino al punto di identificarsi con esso, «di farsi essa stessa contenuto» (p. 38): caso emblematico, gli effetti di specularità linguistica che accompagnano gli episodi di Eco e Narciso. Molta evidenza ha in tutto il saggio il tema della visualità: le vicende di metamorfosi sono sottoposte allo sguardo del lettore come uno spettacolo, stupefacente e ammaliante. Il lettore è indotto, sia da frequenti richiami all’atto del vedere, sia dalla tecnica stessa della rappresentazione, a sovrapporre la dimensione verbale con quella della visione, e questa a sua volta è visione di immagini in cui l’illusione di realtà propria della poetica figurativa classica si incontra, con effetti di grande suggestione, con l’ovvia irrealtà empirica delle scene di metamorfosi. L’immenso ruolo avuto dalle Metamorfosi come fonte di temi e immagini per le arti figurative antiche e moderne, e a sua volta la probabile (ma raramente dimostrabile) dipendenza di molta della immaginazione ovidiana da rappresentazioni figurative, vengono da Rosati connessi a una intrinseca ‘figuratività’ della maniera ovidiana di rappresentare personaggi, azioni, scene e paesaggi.
Questo è uno dei temi del libro che ha avuto maggiore influenza sugli studi successivi. Rosati lo connette a una tendenza profonda della sensibilità del tempo verso l’estetizzazione, il compiacimento ‘narcisistico’ per l’elaborazione artistica. Una visione appunto estetizzante che investe anche la percezione della realtà naturale, considerata attraverso il filtro dell’arte. Rosati identifica, nell’episodio di Pigmalione e in altri luoghi ovidiani, il concetto per cui l’arte, con la sua opera di raffinazione e idealizzazione, che esclude l’accidentalità del dato naturale, diventa modello di perfezione per la natura, capovolgendo la dominante concezione antica, e non solo antica, secondo cui l’arte è imitazione, sempre imperfetta, della natura. Rosati segnala gli importanti sviluppi che questa idea avrà nella letteratura, ma anche, tipicamente, nell’architettura dei giardini, e nella generale visione della realtà in età flavia.
L’elemento meraviglioso era presente nei miti, e dunque nella tradizione epica: in Omero, nell’Eneide. Ma nell’epica latina era marginalizzato rispetto a istanze generalmente umane, e anche storiche e senz’altro politiche. Orazio nell’Ars poetica rifiuta il meraviglioso. Proprio la metamorfosi gli appare il culmine dell’irrealtà, impossibile perciò da porre sulle scene, davanti allo spettatore, che reagirebbe con disgusto. Vitruvio, negli stessi anni, esprime sdegno per le raffigurazioni pittoriche di mostri in base a un’esigenza di naturalità e realismo analoga a quella di Orazio: ma così attesta l’esistenza di una tendenza opposta, impaziente di un’arte standardizzata sui modelli ‘naturali’. Ovidio ha il coraggio di fare ciò che Orazio vietava: ‘mette in scena’, con la potenza del suo illusionismo, tutto un universo di metamorfosi. Contrastando la tendenza naturalistica dominante, dando spazio alle istanze che Vitruvio e Orazio combattono, ha il coraggio di dedicare un intero vasto poema alla messa in scena di un mondo surreale di presenze ingannevoli, di identità incerte e fluttuanti, che induce ad ogni passo il lettore a mettere in dubbio la fondatezza del presunto ‘reale’ con cui si confronta quotidianamente. Una scelta di grande audacia, una sfida che non per caso ha nuovamente affascinato la coscienza novecentesca e postmoderna, e di cui Rosati dimostra la piena consapevolezza da parte dell’autore.