Federico Condello, “Il Manifesto”, 4 maggio 2016
Gradi di istruzione. Il liceo classico è al centro di un dibattito accanito. Spesso la premessa di detrattori e difensori è sbagliata: quell’indirizzo non serve a formare grecisti né studenti snob. È un esercizio del pensiero
«Ho fatto il classico». La frase meriterebbe una voce in un’appendice al Dizionario dei luoghi comuni flaubertiano. Un ingegnere a disagio la userà per garantire che, nonostante tutto, qualcosa sa ancora; un neodiplomato la premetterà alla domanda: «posso superare il test di Medicina?»; e un critico del liceo classico la sfodererà preferibilmente per dimostrare di non avere pregiudizi personali.
Quest’ultimo è oggi l’uso più frequente. La discussione sulla crisi del liceo classico è accesa, e il 28 e 29 aprile ha avuto una tappa importante al Politecnico di Milano, in un convegno atteso – nei licei non si è parlato d’altro per mesi – promosso dalla Direzione generale per gli ordinamenti scolastici del Miur. Evento tutto mediatico e un po’ enfatico, ma da non trascurare, visto che si attende una riforma della seconda prova.
Lingua contro cultura
Proprio di qui è partito il dibattito, un anno fa, quando un classicista di fama come Maurizio Bettini propose dalle pagine di Repubblica di intervenire sull’esame di Stato, contro le «dannose traduzioni dal greco e dal latino». Così il titolo, urlante; ma Bettini era cauto e forniva consigli pratici, non nuovi, ora ragionevoli (si tragga la prova da autori davvero studiati a scuola; si diano informazioni di contesto), ora più dubbi (si aggiungano quesiti di carattere disciplinare e interdisciplinare: quanti e di che sorta?).
Il dibattito si è presto radicalizzato, e non per caso: la «lingua» contro la «cultura», con la «cultura» ridotta peraltro ad antropologia del mondo antico, specialità accademica che molti dei riformatori ma sarà un caso professano ex cathedra. Fino al proclama di Luigi Berlinguer, vero nume del convegno milanese: «il liceo classico non è solo le lingue antiche e non è prevalentemente le lingue antiche». Come a dire: il liceo classico è in crisi (d’iscrizioni, innanzitutto: anche se ora ci sono segni di ripresa) e la crisi si risolve eliminando quel che ne fa un liceo classico. È un’idea: come insegna Poe, per vincere il terrore del baratro si può decidere di buttarcisi dentro. E pazienza per chi, affezionato al principio di non contraddizione, suggerisce semmai di rafforzare le materie scientifiche.
Non solo al museo
Di fronte alla radicalizzazione del dibattito, i riformatori si producono in acrobatici distinguo e denunciano il fraintendimento. Si impegnino a essere più chiari, allora, perché a Milano ci si è affidati a slogan populistici come due fra mille «studiando l’aoristo non abbiamo rispetto del mondo classico» (Berlinguer) o «chi esce dal liceo classico deve avere i mezzi per andare in un museo, non sapere a memoria i verbi irregolari» (Bettini). Andare in un museo? Scopo ben poco ambizioso, che denuncia una visione snobistica dell’istruzione classica. Non meno allarmante il continuo richiamo al presunto dovere dei docenti d’oggi: rendere «interessante» il classico, mostrarne gli «aspetti inconsueti», «non far soffrire i ragazzi». Speriamo che i docenti liceali non debbano scegliere fra la taccia di sadici e il ruolo, umiliante, di intrattenitori dell’alta borghesia. Siamo qui agli antipodi dell’elogio reso da Gramsci all’asprezza benefica degli studi classici, al «conformismo dinamico» che, proprio perché duro, a suo tempo emancipa. Una professoressa liceale indignata ha detto che «gli ascensori sociali non funzionano ad acqua di rose».
Chiariamo un punto, allora: i docenti liceali non mirano a formare buoni visitatori di musei. Non mirano a formare classicisti dilettanti né di professione. Se si sbaglia la premessa, il dibattito è viziato. Molto saggia, la direttrice generale Carmela Palumbo ha dichiarato che «un convegno non è il luogo in cui discutere di revisioni ordinamentali». Servono più dati e meno slogan. Più franchezza e meno populismo. Il liceo classico forma studenti che per un quarto si iscrivono a Lettere; proprio le statistiche del Politecnico milanese mostrano che essi ottengono risultati egregi anche nei corsi di studio più lontani dal loro iter liceale. I dati di un mega-ateneo, l’università di Bologna, lo confermano: chi esce dal classico è in cima alle statistiche per rendimento e per scarsità d’abbandoni. Il Miur farà un’ottima cosa se fornirà dati di sistema su cui ragionare seriamente e si turerà le orecchie, per ora, di fronte a consigli unilaterali.
Remix di censo
Intanto, mentre la pedagogia va a braccetto con l’aziendalismo, molti osservano che la traduzione dalle lingue morte cioè la capacità di ricostruire contesti assenti a partire da un testo nudo e spesso ostico funziona ottimamente per conseguire i tanto decantati soft skills. E a Berlinguer che dichiara di voler andare «controcorrente» in Europa difendendo il classico (abbiamo visto come) è facile replicare che l’intero mondo anglofono riscopre massicciamente greco e latino e lascia a noi, esterofili di provincia, il privilegio di liquidarli.
Ma questo è ancora stare sulla difensiva. Il più recente rapporto del consorzio interuniversitario AlmaLaurea, che oggi monitora il 91% dei laureati italiani, tratteggia un quadro che fa urlare chi ha a cuore l’articolo 34 della Costituzione. Il presidente del consorzio – che è un latinista, Ivano Dionigi – lo ha presentato a Napoli proprio mentre a Milano si discorreva di visite ai musei; e lo ha sintetizzato così: «l’università non rimescola più le classi sociali, e la giustizia è la parola esiliata da rimpatriare». Del resto, da anni i sociologi analizzano il «3+2» di Berlinguer, e oltre a sancirne il fallimento nel suo primo scopo incrementare i laureati – offrono materia ulteriore di riflessione: i licei, e il classico ancora spicca, hanno un ruolo cruciale nel ridurre le disparità dipendenti dal censo.
In tale quadro sentiremo il solito, demenziale paralogismo: l’istruzione, in Italia, è sempre più d’élite; il liceo classico è la scuola più elitaria; ergo, chiudiamolo. In alternativa, rendiamolo più facile, più «interessante». Un dibattito frivolo finché non si parlerà di concreti investimenti e di revisione organizzativa profonda, che ci faccia capire quanto è sbagliato continuare a ragionare per alternative (latino e greco vs inglese e informatica) piuttosto che per somme.
Peraltro, chi «ha fatto il classico» dovrebbe aver letto testi politici piuttosto brutali e aver imparato almeno una cosa: il rapporto élites-masse non è faccenda semplice, e dissipare un patrimonio culturale d’élite non è fare il bene delle masse.