Ho visto Il primo re, il film che Matteo Rovere ha dedicato a Romolo e Remo. E ho pensato al mito.
Cioè a quel tipo di storia che non viene raccontata una volta per sempre, ma muta e si rinnova da una versione all’altra. Però, a ogni variante il mito viene rielaborato secondo le categorie e i gusti della cultura che lo accoglie: la Medea di Euripide non è certo quella di Pasolini. Che ne è dunque dei gemelli nell’ultima versione del loro mito? A quali categorie si conformano? Prima di tutto, direi, alla fascinazione nordica cui la nostra cultura va soggetta quando immagina il primitivo.
Nelle loro peregrinazioni Romolo e Remo attraversano un Lazio irlandese, o finnico, dove non smette mai di piovere e dove una palude segue l’altra.
Si aggiungano gli scoppi di urla selvagge, le maschere d’orso (quelle che indossavano i famigerati berserkr del settentrione), l’ambientazione boschiva, le interminabili lotte nel fango. Primitivo uguale nordico, è lo spirito dei tempi.
Mi veniva in mente la teoria (talora accreditata anche in tv) secondo cui l’Odissea sarebbe stata originariamente ambientata nel Baltico. Anche il personaggio della Vestale — col suo volto fuligginoso, il suo gusto per il sangue di cui si cosparge — somiglia più a una strega del Macbeth che non a una “vergine pura” di romana memoria. Anzi, assomiglia a una profetessa vichinga, così come i proto-Romani di Rovere rassomigliano agli ispidi e selvaggi guerrieri della serie televisiva Vikings. Al di là dei corpi mutilati e smembrati, della violenza parossistica cara a Hollywood, il film ha anche molti meriti, specificamente cinematografici, lo si è detto, ed è fuor di dubbio originale. Basta pensare che i dialoghi non solo sono in latino, ma qualche linguista li ha perfino dotati di desinenze arcaiche e forme indoeuropee. A dispetto di tanta cura erudita per il Lazio delle origini, però, di autentici costumi romani in questo Romolo e Remo non c’è traccia.
Come quando il compianto funebre per i guerrieri morti viene accompagnato da una danza quasi Sioux e da un flebile coro di bambini. Cosa si sarebbe potuto fare con la lamentazione antica! Bastava aver letto Ernesto de Martino.
Se per rendere “altri” Romolo e Remo, come meritatamente voleva, un regista come Rovere avesse attinto non alle fantasie nordiche, ma alla vera “alterità” della cultura romana arcaica (e giuro che ce n’è a bizzeffe) l’effetto sarebbe stato straordinario. La cosa che più mi ha colpito, comunque, è un’altra: alla fin fine questa Roma di Rovere nasce cattiva.
Non è la Roma dell’asylum, aperta ad accogliere ogni disperato, come recita il mito romano, ma è una Roma ostile, chiusa. Altro segno dei tempi?
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