Costantino Kavafis (1863 – 1933), La scadenza di Nerone
Non si turbò Nerone, nell’udire
il vaticinio delfico:
“Dei settantatré anni abbia paura”.
Aveva tempo ancora di godere.
Ha trent’anni. Assai lunga
è la scadenza che concede il dio,
per angosciarsi dei rischi futuri.
Ora ritornerà a Roma, un poco stanco,
divinamente stanco di quel viaggio,
che fu tutto giornate di piacere,
nei giardini, ai teatri, nei ginnasi…
Sere delle città d’Acaia… oh gusto,
gusto dei corpi nudi, innanzi tutto…
Così Nerone. Nella Spagna, Galba
segretamente aduna le sue truppe
e le tempra, il vegliardo d’anni settantatré.
da Costantino Kavafis, La memoria e la passione, a cura di Filippomaria Pontani, in “Corriere della Sera – Un secolo di poesia”, a cura di Nicola Crocetti
Montale e Kavafis
L’ispirazione proviene da un testo del poeta alessandrino, ma di lingua neogreca, Costantino Kavafis (1863-1933), La scadenza di Nerone, come si evince combinando assieme il titolo e l’apparizione dell’imperatore romano al primo verso. Il componimento racconta di una visita di Nerone all’oracolo di Delfi, dove all’imperatore viene suggerito di guardarsi dai settantatré anni. Nerone non se ne preoccupa: al momento è ancora soltanto trentenne. Intanto — condude Kavafis nella sua poesia — prepara le sue truppe Galba, «d’anni settantatré». Il modello del poeta neogreco è ben presente a Montale: la sua lirica più famosa, I Barbari, è stata tradotta da Montale nel 1946 (vedi Quaderno di traduzioni); ne ripropone una versione nella prosa Un poeta greco (1962), poi raccolta in Fuori di casa, dopo che ebbe citato quella stessa poesia di Kavafis già in un altro articolo del 1955 (Un poeta alessandrino, Secondo mestiere). La prima parte di questa poesia del Quaderno rappresenta, attraverso immagini tipiche della mitologia pagana, il pericolo che incombe sull’imperatore Nerone addormentato. Nella seconda parte s’instaura un paragone tra la figura storica di Nerone e il poeta stesso che vive nella modernità tecnologica (vv. 9-10), perché anche il poeta è in preda a un pericolo che coscientemente avverte, non giacendo infatti addormentato ma essendo «desto già da un pezzo» (v. 13): è un rumore di piccoli passi sul pavimento, «microscopici»; si riveleranno essere «lo zampettìo di un topolino». Il ribaltamento ironico è evidente rispetto all’ipotesto neogreco: il poeta montaliano accoglie con stato di rassegnazione questa innocua minaccia al suo altrettanto piccolo regno “esistenziale”. Un tale nefasto annuncio, al contrario delle «Erinni» che incombevano sull’imperatore romano, non può comportare grandi stravolgimenti per quella consapevolezza della vita incapsulata dal poeta nella sua serena attesa: «sovrano di nulla, neppure di me stesso», «non mi attendo ulteriori orrori / oltre i già conosciuti […] Nulla mi turba».
Eugenio Montale, Leggendo Kavafis (17 febbraio 1975)
Nerone dorme placido nella sua
traboccante bellezza
i suoi piccoli lari che hanno udito
le voci delle Erinni lasciano il focolare
in grande confusione. Come e quando
si desterà? Così disse il Poeta.
Io, sovrano di nulla, neppure di me stesso,
senza il tepore di odorosi legni
e lambito dal gelo di un aggeggio a gasolio,
io pure ascolto suoni tictaccanti
di zoccoli e di piedi, ma microscopici.
Non mi sveglio, ero desto già da un pezzo
e non mi attendo ulteriori orrori
oltre i già conosciuti.
Neppure posso imporre a qualche famulo
di tagliarsi le vene. Nulla mi turba. Ho udito
lo zampettìo di un topolino. Trappole
non ne ho mai possedute.