Il cinismo di Cicerone

Presentò Verre come il simbolo del male per accelerare la sua carriera politica
Paolo Mieli, “Corriere della Sera”, 2 febbraio 2016

Per un singolare caso Cicerone e Verre morirono entrambi alla fine del 43 avanti Cristo, a pochi giorni uno dall’altro. Erano trascorsi molti anni dal celebre processo del 70 che li aveva fatti incontrare, uno nei panni dell’incalzante accusatore, l’altro in quelli del grande imputato. Ventisette anni dopo, Marco Tullio Cicerone, l’uomo che aveva puntato l’indice contro il politico corrotto, fu raggiunto, nel terribile clima delle proscrizioni che si instaurò dopo l’assassinio di Cesare, dagli sgherri di Ottaviano, Antonio e Lepido mentre stava fuggendo dalla sua villa di Formia e venne decapitato sul posto. Gaio Verre, ex propretore di Roma in Sicilia, invece, sempre su ordine di Antonio, fu trucidato a Marsiglia, dove aveva trovato riparo dopo essere stato condannato al termine del celebre dibattimento in cui si era trovato al cospetto di Cicerone. Secondo Lattanzio, Verre, poco prima di morire, ebbe la soddisfazione di venire a conoscenza del «selvaggio assassinio del suo accusatore». E poté gioirne.
Da più di duemila anni le Verrine, cioè le orazioni con cui Cicerone riuscì a inchiodare il propretore alle sue malversazioni in Sicilia sono state presentate — anche o soprattutto per la qualità di scrittura — come un modello in tutte le storie della letteratura latina. Da quel 70 a.C. mai si è avuta una denuncia per casi di corruzione in cui l’accusatore non abbia provato a riprodurne ritmo, concatenazione di argomenti e stile incalzante.
Da duemila anni è stato quasi automatico che chi si accingeva a fare insinuazioni circa la moralità di qualche uomo politico iniziasse con il definirlo «novello Verre». Lo ha fatto l’autore dei Viaggi di Gulliver, Jonathan Swift, allorché sulle pagine di «The Examiner» fece a pezzi Thomas Wharton, già Lord Luogotenente d’Irlanda. E anche il filosofo Edmund Burke, quando chiese (senza successo) l’impeachment di Warren Hastings, ex governatore generale del Bengala. A rendere celeberrimo il procedimento giudiziario in cui Cicerone assunse il ruolo del mattatore, fu la circostanza che il dibattimento si svolse di fronte a un gran numero di spettatori: come ha osservato Emanuele Narducci in Processi ai politici nella Roma antica (Laterza) «il processo spettacolo è un’invenzione dei Romani»; e quello contro Verre fu, appunto, un processo spettacolo.
L’imputato fu descritto come un maiale incapace di porre dei limiti alla propria voracità. E sulla sistematica degradazione di Verre ad animale ha scritto cose assai acute Domenico Palumbo in Il porco espiatorio delle Verrine di Cicerone (Transeuropa Edizioni). Ma adesso Luca Fezzi in uno straordinario libro dedicato alla vicenda — Il corrotto. Un’indagine di Marco Tullio Cicerone, che sta per essere pubblicato da Laterza — cambia registro e, in merito a quella vicenda, esprime espliciti «dubbi sull’affidabilità della versione ciceroniana». Elevando Verre a «paradigma del male» e intendendo colpire in lui il sistema di Silla, che a quel punto era già andato in frantumi, l’arpinate (Cicerone era nato ad Arpino) riuscì a porre le fondamenta della propria carriera politica. Non senza qualche punta di cinismo. Talché su Cicerone torna qui il giudizio «politico» che ne diede Theodor Mommsen nella Storia di Roma antica (Sansoni): «Come uomo di Stato, senza perspicacia, senza opinioni e senza fini, egli ha successivamente figurato come democratico, come aristocratico e come strumento dei monarchi, e non è mai stato altro che un egoista di vista corta». Quanto alla fattispecie del processo a Verre, scrive Fezzi, «nella ricostruzione ciceroniana della “carriera criminale” dell’imputato, molto, a ben vedere, potrebbe essere messo in discussione». E per quel che riguarda l’operato di Verre in Sicilia, insiste Fezzi, «l’impressione — in noi molto forte — è che l’indagine ciceroniana propriamente intesa abbia presto ceduto il passo all’organizzazione e, forse, alla manipolazione delle prove».
La carriera politica di Verre era iniziata nell’85 a.C. e la prima accusa per peculato la dovette affrontare (uscendone illeso) già nell’84. Era stato poi, tra l’83 e l’82, seguace di Silla al pari di Gneo Cornelio Dolabella, come lui accusato di concussione e condannato all’esilio, dove avrebbe trovato la morte. Verre invece riuscì a salvarsi, tradendo personaggi più importanti di lui. Quello di Silla è un tema importante agli effetti del nostro discorso dal momento che il 70, l’anno del processo, fu quello che vide il crollo definitivo dell’«ordine» da lui imposto dodici anni prima, con le efferate liste di proscrizione volte a consolidare il potere conquistato dopo che ebbe sconfitto Mitridate VI, re del Ponto. Nel 70 erano trascorsi otto anni da quando Silla era morto: Verre apparteneva al ceto sillano soccombente, faceva parte di un sistema che dal 71 (e forse da prima) dava già vistosi segni di cedimento. Cicerone fu colui che, tramite quel celebre processo, per conto degli emergenti — che guardavano ai consoli Marco Licinio Crasso e Gneo Pompeo Magno — procedette al definitivo «smantellamento» di un «regime» ormai già defunto .
L’ incarico di Verre in Sicilia doveva durare per un solo anno, il 73. Ma l’uomo che avrebbe dovuto subentrargli, l’ex pretore Quinto Arrio, era stato impegnato a fronteggiare la rivolta degli schiavi capeggiata da Spartaco, e così il mandato siciliano a Verre fu rinnovato dal Senato romano per ben due volte. Forse anche a compensarlo per aver «reso sicuri i litorali prossimi alla penisola», impedendo lo sbarco — in una Sicilia dall’inquietante «passato di rivolte servili» — degli schiavi spinti a sud dalle armate di Crasso. Verre si era poi dedicato con abnegazione alla riscossione della principale «decima», quella relativa ai cereali (grano e orzo), «in gran parte destinata, si pensa, agli eserciti romani» (l’isola era consacrata a Cerere e a Libera e si riteneva che proprio su quella terra, più precisamente nei pressi di Enna, l’umanità avesse iniziato a coltivare i cereali). La Sicilia aveva un ruolo fondamentale nell’approvvigionamento di Roma, tant’è che già nel 184 Marco Porcio Catone l’aveva definita «granaio della repubblica e nutrice della plebe romana». E come agì Verre? Da tempo gli storici sono concordi nell’affermare, pur con differenti notazioni, che il propretore assolse al suo compito con puntualità ed efficacia. E, argomenta Fezzi, fu anche un grande innovatore. Ma allora perché quelle accuse? Fu forse Verre l’unico uomo politico del suo tempo che approfittò del proprio incarico per arricchirsi?
No. Anzi, in provincia si andava proprio per rubare. Era considerato «quasi lecito» l’arricchirsi «onestamente» come lo stesso Cicerone aveva fatto nel biennio 51-50 ai tempi in cui si era dedicato al governo della Cilicia. Questa circostanza, scrive Fezzi, «doveva essere nota a tutti» e sarebbe stata anche accettata, se solo Verre non avesse «oltrepassato i limiti della decenza». Il politico, «una volta copertosi di debiti poteva rifarsi con un incarico in provincia o, addirittura, con il governo della stessa». A quel punto «il diretto interessato e i suoi creditori dovevano augurarsi che le probabili appropriazioni illecite restassero impunite». Nel caso di Verre, ciò non avvenne e fu per qualche suo eccesso, ma soprattutto per ragioni squisitamente politiche. Quelle, di cui si è detto, attinenti all’abbattimento dell’ordine sillano e al cambio di regime.
Una volta condannato, Verre lasciò la Sicilia di nascosto. Ma quando si ebbe notizia della sua «fuga», ci fu un finimondo. Si era appena imbarcato e «in varie città si verificarono tumulti spontanei ed episodi che a noi moderni ricordano ben collaudati scenari di fine regime»; le statue dedicategli nel triennio — secondo una prassi che può essere considerata di dubbio gusto ma a quei tempi consolidata — «furono abbattute o rimosse, lasciando spesso, a voluta testimonianza, ormai vuoti piedistalli iscritti» .
A Taormina «si volle che la base di un monumento restasse a memoria della distruzione». A Tindari, la statua equestre fu lasciata senza cavaliere e una, eretta su un piedistallo che la faceva più alta di tutte le altre, fu abbattuta. A Lentini, «luogo pur povero di monumenti», stessa sorte «per l’unica scultura che lo rappresentava». Neppure a Siracusa, sede del governatore, «la folla sentì ragioni: furono mandate in frantumi le statue collocate nel luogo più frequentato e sacro, all’ingresso e nel vestibolo del tempio di Serapide». A Centuripe, la distruzione delle statue di Verre fu data addirittura in appalto.
Chi difese Verre? Quinto Ortensio Ortalo fu il suo straordinario difensore. Provò a scansare Cicerone e ad avere come avversario Quinto Cecilio Nigro, «accusatore tanto debole da rendere superflua persino la corruzione della giuria» (Nigro, temevano i siciliani, «più che produrre documenti, si sarebbe impegnato a farli sparire»). Ma Ortalo non riuscì nell’intento. Allora puntò su tattiche dilatorie: il processo non doveva chiudersi tra maggio e luglio del 70, dal momento che in agosto sarebbero iniziati i ludi votivi di Pompeo, ai quali sarebbero seguiti i ludi romani, poi quelli per la vittoria di Silla e infine i ludi plebei. E ogni volta il dibattimento sarebbe stato interrotto per poi riprendere e interrompersi di nuovo: così avanti all’infinito. Ma fallì anche quella volta. Poi, in ogni caso, Ortalo seppe duellare con Cicerone abilmente. Gravava però anche su di lui l’appartenenza al vecchio mondo di Silla.
Prima dell’inizio del processo, Cicerone fece un viaggio di ricognizione in Sicilia, nel corso del quale percorse seicento chilometri e si dedicò ad una raccolta diretta delle prove (nelle Verrine sono menzionati ben quarantotto centri siciliani da lui visitati). Le città, ad eccezione di Messina, collaborarono con lui. Preziose informazioni furono fornite da Cleomene ed Escrione due personalità di Siracusa costrette a condividere con Verre anche le proprie mogli, la bellissima Nice e Pipa (o Pipera). Tra coloro che lo tradirono, Diodoro di Malta, che era riuscito a fuggire dalla Sicilia portando con se il vasellame su cui Verre aveva puntato una ostinata attenzione. E il nobile Stenio di Terme, che aveva dato ospitalità al governatore e ne era stato ripagato con il furto di vasi di bronzo, quadri e argenti. Fin qui Stenio non aveva protestato, ma quando Verre pretese di portare via con sé altre statue bronzee, quelle che ornavano la città, si mise di traverso. Verre reagì con stizza, lasciò la sua casa e si trasferì da un altro nobile, Agatino: lì «nel giro di una sola notte» divenne anche l’amante di sua figlia, sposata (della quale, si giustificò, «aveva già sentito parlare»).
Questo suo debole per le belle donne lo aveva già manifestato prima di trasferirsi in Sicilia. Nel corso di una importante missione diplomatica presso sovrani alleati di Roma, aveva fatto sosta a Lampsaco sull’Ellesponto, ospite di un certo Gianitore. Di lì aveva mandato un suo scagnozzo, Rubrio, da un personaggio tra i più in vista della città, Filodamo, affinché gli cedesse la sua «virtuosa figlia». Al rifiuto di Filodamo, Rubrio aveva reagito con la forza e la storia sarebbe finita molto male, se una folla inferocita non avesse costretto l’uomo di Verre a soprassedere.
Queste però non erano «prove» che potevano esser fatte valere in un processo come quello del 70. I conti, dunque, non tornano. Ma sarebbe sbagliato, scrive Fezzi, «ridurre l’intera vicenda a un complotto, magari in chiave “popolare” ai danni del governatore “ottimate” della Sicilia». Allo stesso tempo, «se è vero che in un accusatore non si può certo pretendere l’equilibrio di un giudice, sembra altrettanto evidente che le imputazioni che affollano le Verrine non possano essere state manipolate nella loro interezza». In ogni caso furono altre ragioni a decidere la sorte di Verre. Ragioni politiche. Tant’è che, ad un accurato esame storico, di quel processo, sotto il profilo giuridico, resta in piedi poco. Molto poco.

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Passeggiate tra le leggende dell’Appia

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Mappe. Un’app sulla Regina Viarum, commissionata dalla Soprintendenza archeologica di Roma, che è molto più di un’audio-guida. Per camminare tra la storia, racconti letterari e cinematografici

Federico Gurgone, “il manifesto”,  30 gennaio 2016

Nel corso delle ricognizioni del 1999, quando fervevano i lavori per l’imminente Giubileo, al quarto miglio della Regina Viarum furono scoperti due tubi di piombo, interrati con cura presso il Sepolcro Dorico. La data incisa sul metallo, 30 settembre 1929, tolse all’istante ogni dubbio circa il contenuto. Problemi sempiterni e contemporanei, non storia antica: una sfortunata corrispondenza amorosa. «L’amante infelice avrebbe bruciato le sue lettere, se avesse voluto semplicemente distruggerle», assicura Rita Paris, direttrice dei monumenti archeologici della via Appia, quasi giustificandosi per la sua curiosità di studiosa. «I plichi erano sigillati ad arte, per evitare che gli agenti atmosferici ne compromettessero il messaggio».
L’Appia, al di là di se stessa, è una fucina di incanti mitopoietici: dalle origini del cristianesimo, all’epoca d’oro del cinema romano. Senza dimenticare le Olimpiadi del 1960, le verità e i miti del Medioevo. E le storie d’amore. Private e anonime. Nel 1929, la prima consolare non era stata ancora aggredita dai gangster, coloro che le avrebbero tolto perfino la voce. «Immagino l’incedere sofferente di un uomo solo, che proprio qui pensò di affidare il suo testamento emotivo all’eternità del connubio tra natura e cultura che lo circondava, sperando di pacificarsi con i suoi tormenti».
Vennero però anni scuri. Il fascismo, la guerra e il boom economico, con la morte delle lucciole e l’abusivismo rampante. Sotto i fanali, l’oscurità. È la rabbiosa volontà di recuperare una relazione affettiva con un luogo massacrato che ha spinto la Soprintendenza Archeologica di Roma a commissionare un’applicazione che declini lo spirito ferito della strada attraverso parole, musica e suoni: Verba, disponibile gratuitamente anche in inglese su smartphone e tablet, con i sistemi operativi Android, Apple e Windows.
I 70 testi, dalla durata media di cinque minuti e accompagnati da una colonna sonora composta da Gianfranco Plenizio, sono pensati per soddisfare le multiformi esigenze del pubblico. Alcuni sono racconti basati su fonti storiche, altri testi divulgativi scritti da giornalisti e rigorose schede descrittive redatte da archeologi. «Il Gps del dispositivo mobile localizza il viandante e consente l’avvio automatico in streaming dei file audio in un raggio di 50 metri dai punti di interesse, dislocati lungo 3 chilometri», spiega Monica Cola, una delle tre ideatrici del progetto.
Il visitatore si viene così a trovare immerso in una realtà aumentata, nella quale può camminare svincolato dalla staticità delle classiche audio-guide. Ha la possibilità di registrare messaggi audio, in forma pubblica o anonima. «Un altro utente potrà ascoltarli quando passerà nello stesso spazio geo-referenziato», aggiunge il linguista Tullio De Mauro, che ha seguito dall’esterno l’evolversi del concept. «La tipologia testuale scelta deve facilitare nel destinatario la voglia di capire. Qui i testi, che possono essere anche interrogati e contraddetti, sono chiari e accattivanti».
Verba è un social network che produce cultura dal basso: secondo Rita Paris, «il vero sviluppatore è una collettività che vuole ancorare a un luogo preciso i propri sentimenti». Una testa di ponte per riprendere il filo di un dialogo soggettivo con le antichità, quindi, come desiderò l’ignoto innamorato dei tubi di piombo.
«Se a Fontana di Trevi i turisti lanciano una moneta, sull’Appia possono ora lasciare la propria promessa di tornare con la speranza di poterla un giorno riascoltare», dice l’archeologa.
Passeggiare nel verde con gli auricolari nelle orecchie e i piedi liberi di andare diventa una scorciatoia per ripassare le vicende della creatura di Appio Claudio.
È l’attore Giuseppe Cederna a leggere uno dei più furenti articoli del padre Antonio, con il quale l’incuria dello Stato nei confronti del suo patrimonio fu denunciata sul Mondo, l’8 settembre del 1953. Cederna scrisse che bisognava salvare l’Appia dai gangster perché per due millenni «gli uomini di talento di tutto il mondo l’avevano amata».
Sfortunati coloro che smarriscono la capacità di coltivare la memoria di epiche intrise di umanesimo. Come quella nata nella piana di Maratona. La ricordano le voci di Sergio Zavoli e Carlo Paris, che raccontano l’impresa compiuta da Abebe Bikila, figlio di pastori e pettorale numero 11, il 25 agosto del 1960. Corse scalzo, perché della via regina aveva bisogno di sentire tutta la durezza. E quando la percepì, all’altezza della tomba di Cecilia Metella, chilometro trentacinquesimo, aumentò l’andatura. A Porta San Sebastiano restò solo. Vinse sotto l’Arco di Costantino.
La diritta Appia riassume la tortuosa via all’identità dell’Italia: dalla lotta per le investiture che concorse a frammentarla, narrata attraverso quel Bonifacio VIII che ebbe il suo Castrum Caetani presso Capo di Bove, alla Quinta Armata del generale Clark, che da qui entrò a Roma il 5 giugno del 1944.
Con la Repubblica arrivarono gli anni della ricostruzione, manna piovuta dal cielo per i palazzinari. La prima autostrada della storia, presso la quale Carlo Ponti abitava in una villa con la camera da pranzo scavata in un sepolcro, fu tagliata dal Gra nel 1951. Nel 1965, dopo fiumi di inchiostro di Cederna, il Piano Regolatore Generale destinò 2517 ettari dell’Appia a parco pubblico. «Ma il complesso di Capo di Bove è stato acquisito solo nel 2002», spiega Rita Paris. Costruito sopra una cisterna romana, nascondeva una piscina nel cortile interno, dove affacciano gli uffici della Soprintendenza e l’archivio di Antonio Cederna, reso pubblico dalla famiglia.
«Santa Maria Nova, infine, fu rilevata nel 2006», continua Paris. «All’area appartiene il casale che la leggenda vuole infestato dal fantasma di Tulliola, rievocato dalla voce di Christian Iansante, doppiatore di Johnny Depp e Bradley Cooper». La salma di Tulliola, presunta figlia di Cicerone, fu trovata intatta in un sarcofago nel 1485 e si dissolse pochi giorni dopo per il contatto con l’aria. Tornò fantasma nel 1968 e spaventò gli ospiti della villa, da Brigitte Bardot a Grace Kelly, fino a renderla indesiderabile.
«Verba è una delle tante strategie pensate per estendere la fruibilità del nostro patrimonio», conclude Paris. «Non ha senso separare la tutela dalla valorizzazione, lasciando credere che un esperto di cultura non sia in grado di comunicare adeguatamente con l’esterno, come adombrato dalla riforma in corso».
Raccontare per riaffermare una cultura di cui se ne percepisce la vita solo nelle crisi più nere, quando verrebbe da pensare all’epitaffio de La Ricotta, girato sull’Appia da Pasolini. Il ladrone buono muore di indigestione sulla croce, durante la rappresentazione di una passione vivente. «Crepare: non aveva altro modo di ricordarci che anche lui era vivo», commenta Orson Welles, con la voce di Giorgio Bassani.
Raccontare. Perché mai più si ripeta la proskýnesis della cultura umanistica, messa in scena dallo Stato sul colle del senato e del popolo romano.

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Il gesto a noi noto come «saluto romano»

I Cesari non c’entrano. Lo inventò il cinema (ed è finito su Star Trek)
Livia Capponi, “Corriere della Sera – La Lettura”, 17 gennaio 2016

Il gesto a noi noto come «saluto romano», con il braccio destro teso alzato a circa 135 gradi dal corpo, e con le dita della mano unite, adottato dal regime fascista e poi dal nazismo, si presentava esplicitamente come un revival dell’eredità di Roma. Ma esisteva davvero quel gesto specifico di saluto nel mondo antico? La più comune forma di saluto nella Grecia classica era una semplice stretta di mano. A Roma i legionari battevano il palmo o il pugno sul petto, come è stato efficacemente rievocato dal cinema. I gladiatori si afferravano l’avambraccio destro al di sopra del polso. Sorprendentemente, esisteva anche un saluto militare simile a quello odierno, che a torto si credeva un’invenzione medievale.
I soldati romani, i barbari e gli imperatori raffigurati a Roma, sugli archi di Tito e di Costantino e sui fregi di argomento storico delle colonne di Traiano e di Marco Aurelio, si sbracciano in svariati gesti, il cui preciso significato non è sempre chiaro. In molti casi, sia i soldati che l’imperatore salutano alzando la mano aperta, come faremmo noi. Altre volte, l’imperatore alza leggermente anche il braccio, ma, come notano Andrea Giardina e André Vauchez nel libro Il mito di Roma (Laterza, 2008), è un gesto che spesso accompagna un augurio o un discorso rivolto ai legionari, con il palmo della mano verticale e le dita aperte.
Il grande fregio storico che avvolge a spirale, come la pellicola di un film, la colonna Traiana, innalzata per celebrare la conquista della Dacia da parte di Traiano fra il 101 e il 106 d.C., e studiato da Filippo Coarelli in La colonna Traiana (Colombo, 1999), mostra diverse scene di incontro fra l’imperatore, i soldati e i barbari. Nel fregio 65, l’imperatore a cavallo è salutato da alcuni barbari con le braccia stese o piegate in segno di sottomissione. Nel fregio 103, Traiano riceve una delegazione nemica: un Dace leva il braccio verso l’imperatore in segno di supplica. Nel fregio 75, Traiano arriva a un forte romano in Dacia, e viene salutato da un gruppo di legionari e ufficiali romani; il saluto non è sempre uguale ma con il braccio più o meno piegato, mai teso.
Nella monetazione e nella scultura romana ci sono molte scene di arringa, acclamazione, arrivo e partenza, dove il braccio alzato può esprimere benedizione, saluto o potere, e il più delle volte non è ricambiato. Un famoso esempio è l’Augusto di Prima Porta, raffigurato come un generale vittorioso che si rivolge alla folla, il braccio leggermente piegato in un movimento nobile e controllato, il corpo per niente sull’attenti ma, al contrario, bilanciato da una torsione contrapposta delle gambe divaricate e flesse, secondo i canoni derivati dalla Grecia classica. La celebre statua bronzea nota come l’Arringatore, dedicata al notabile etrusco Aulo Metello alla fine del II secolo a.C. e oggi a Firenze, presenta lo stesso gesto del braccio appena piegato con la mano alzata, nell’atto di chi chiede solennemente l’attenzione del pubblico prima di cominciare a parlare.
Secondo il libro di Martin M. Winkler The Roman Salute. Cinema, History, Ideology (Ohio state university press, 2009), l’archeologia, come pure tutta la letteratura latina, non ci mostra una sola immagine chiara del gesto specifico adottato dal fascismo. Winkler sostiene che il saluto romano fu associato all’antica Roma retrospettivamente e in tempi moderni. Un passaggio cruciale fu il dipinto di Jacques-Louis David Il giuramento degli Orazi, realizzato nel 1784 e oggi al Louvre. Manifesto del Neoclassicismo, l’opera trae spunto da una leggenda romana, di cui parla Tito Livio, secondo cui, durante il regno di Tullo Ostilio (672-640 a.C.) per decidere l’esito della guerra tra Roma e Alba Longa, tre fratelli romani, gli Orazi, sfidarono a duello tre fratelli di Alba, i Curiazi. Dei Curiazi non sopravvisse nessuno, mentre uno degli Orazi riuscì a ritornare, decretando la vittoria dei Romani. La scena rappresenta il padre degli Orazi nell’atto di dare loro le spade, che innalza in un gesto di augurio.


Il gesto dei tre fratelli non è un saluto ma un giuramento di fedeltà a Roma, fatto in due casi con il braccio sinistro. L’atteggiamento dei corpi e i colori delle vesti simboleggiano i valori di libertà, uguaglianza e fraternità della Francia rivoluzionaria. Tuttavia, il dipinto può essere considerato un punto di svolta nel graduale processo che vide la reinvenzione del gesto, progressivamente percepito come un saluto più che un giuramento.
Un altro probabile precedente fu il saluto a braccio alzato alla bandiera, o Pledge of Allegiance, creato da Francis Bellamy nel 1892 e adottato nelle scuole degli Stati Uniti fino agli anni Trenta, e poi copiato dal fascismo. La controversa associazione, come ha messo in luce il ricercatore statunitense Rex Curry, ha poi fatto sì che il gesto fosse sostituito dalla mano sul cuore, per volere di Franklin Delano Roosevelt.


Ma a riportare davvero in vita i Romani per un pubblico di massa fu il cinema del primo Novecento, che reinventò i gesti, oltre che i costumi, degli antichi, prendendo spunto dal repertorio di convenzioni fissato dal teatro preesistente. Il film Cabiria di Giovanni Pastrone (1914), il più grande kolossal del cinema muto italiano, che vantava Gabriele d’Annunzio come sceneggiatore e autore delle didascalie, consacra il gesto come simbolo della romanità: difatti in chiave politica viene usato per la prima volta dai legionari fiumani dello stesso d’Annunzio nel 1919. In Scipione l’Africano di Carmine Gallone (1937) il saluto ricorre ossessivamente a richiamare l’associazione romanità-fascismo. Il successivo cinema del dopoguerra ha ormai interiorizzato questa visione di Roma, e la popolarità dei grandi kolossal hollywoodiani di argomento religioso conferisce ulteriore credibilità ai dettagli in essi contenuti. Ben-Hur di William Wyler (1959) e Quo Vadis di Mervyn LeRoy (1951) fanno esplicito riferimento a Roma come metafora del fascismo, e agli Ebrei e ai Cristiani come simbolo della libertà degli Stati Uniti. Il saluto romano di Peter Ustinov nei panni di Nerone scimmiotta mostruosamente bene i grandi dittatori. Nei film più recenti, fino alla televisione di Star Trek, il saluto romano non è più esplicitamente associato al fascismo o al nazismo ma è comunque usato per evocare regimi autoritari.
L’assenza di prove inconfutabili sull’esistenza del saluto romano nel mondo antico è l’esempio di come una narrazione potente sia in grado di produrre una storia irreale e di farla accettare come una verità storica dal grande pubblico, incapace o disinteressato a cogliere il paradosso. Mistificare un fatto inventato spacciandolo come realmente accaduto, o riempire il passato di contenuti attuali, d’altra parte, è un vecchio trucco narrativo, quello, sì, utilizzato fin dai tempi dei Romani.

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Cesare, eroe della “Commedia”

Carlo Ossola, “Il Sole 24 Ore – Domenica”, 17 gennaio 2016

Nel poema la storia di Roma è concepita unitariamente: la fase repubblicana prepara l’impero, completando il disegno divino. Uno studio di Luciano Canfora sulla biblioteca latina del poeta

«I’ vidi Eletra con molti compagni, / tra ’ quai conobbi Ettòr ed Enea, / Cesare armato con li occhi grifagni» (Inf., IV, 121-123): occhi grifagni poiché – come vuole il Buti e ricorda Luciano Canfora – sono «alla guatatura spaventevole ad altrui». Non tanto dunque occhi «rossi come fuoco» (secondo il Tesoro di Brunetto Latini), ma piuttosto di «aspectus terribilis» (Bambaglioli). E qui Canfora convoca un altro scenario, non quello del «nobile castello» dei «savi» della classicità, bensì quello manzoniano dei bravi che attendono Renzo sulla soglia dell’osteria: «Quando Renzo e i due compagni giunsero all’osteria, vi trovaron quel tale già piantato in sentinella, che ingombrava mezzo il vano della porta, appoggiata con la schiena a uno stipite, con le braccia incrociate sul petto; e guardava e riguardava, a destra e a sinistra, facendo lampeggiare ora il bianco, ora il nero di due occhi grifagni» (I promessi sposi, cap. VII). Il ricordo dantesco in Manzoni, ricondotto dallo sguardo del grande stratega al ceffo della plebaglia del malaffare, potrebbe ricalcare l’intento di piegare i potenti tutti – come il Napoleone del Cinque maggio – al «disonor del Golgota»; ma è da notare, come è stato proposto, che allorquando egli deve mettere in scena il fulmineo agire di quel grande («Dall’Alpi alle Piramidi…»), altro non possa fare che ricorrere (e questa volta su un registro ben alto) al Cesare di Dante: «Maria corse con fretta a la montagna; / e Cesare, per soggiogare Ilerda, / punse Marsilia e poi corse in Ispagna» (Purg., XVIII, 100-102).
Ben più di Manzoni, è Dante qui a collocare il modello di Cesare accanto a quello di Maria che s’affretta presso Elisabetta: come se quella “ansia di compimento” fosse propria della salvezza temporale e di quella eterna, congiunte ab origine in uno stesso disegno provvidenziale, secondo il testo del Convivio: «E però che ne la sua venuta nel mondo, non solamente lo cielo, ma la terra convenia essere in ottima disposizione; e la ottima disposizione de la terra sia quando ella è monarchia, cioè tutta ad uno principe, come detto è di sopra; ordinato fu per lo divino provedimento quello popolo e quella cittade che ciò dovea compiere, cioè la gloriosa Roma» (IV, V, 4).
Il mito di Cesare, nella Commedia, è tutt’uno con l’unità armonica della venuta salvifica, che fu al tempo del Cristo e che ora non si può che compiangere: «Vieni a veder la tua Roma che piagne / vedova e sola, e dì e notte chiama: / “Cesare mio, perché non m’accompagne?”» (Purg., VI, 112-114). L’interrogazione finale ricapitola del resto la visione politica che Dante enuncia nitidamente poche terzine sopra: «Ahi gente che dovresti esser devota, / e lasciar seder Cesare in la sella, / se beni intendi ciò che Dio ti nota» (Purg., VI, 91-93). Qui Dante si riferisce certo a Matteo, 22, 21: «Reddite ergo quae sunt Caesaris, Caesari; et quae sunt Dei, Deo»; ma c’è di più: e cioè che la translatio fidei da Gerusalemme a Roma fu fatta per armonizzare e non per sovrapporre o perché la nuova Gerusalemme dovesse assorbire l’antica Roma. Ecco perché il modello e il mito di Cesare (eponimo ora di quello dell’Impero) attraversa tutta la Commedia e si suggella nei celebri versi del Paradiso: «Poi, presso al tempo che tutto ’l ciel volle / redur lo mondo a suo modo sereno, / Cesare per voler di Roma il tolle» (Par., VI, 55-57). È l’inizio dell’epico prorompere della storia e delle vittorie di Cesare (Par., VI, 55-81), ricapitolazione mirabile di molte imprese e di una vita che ancora sarà modello al Napoleone del Manzoni: «Da indi scese folgorando a Iuba». Il Buti, nel suo commento, insiste giustamente su quel momento, su quel «redur lo mondo a suo modo sereno»: «ma notantemente dice tutto ’l Cielo: imperò che, a mutare lo reggimento del tutto, conveniano correre tutte le cagioni insieme; e dice: a suo modo sereno, perchè lo cielo è retto e governato da uno signore, e così volse lo cielo redur lo mondo che in tutto ’l mondo fusse uno monarca. Cesari».
Per questo il libro di Luciano Canfora è importante: non tanto e non solo perché restituisce una fonte importante per il mito di Cesare nella Commedia, e cioè quella di Svetonio, ma perché riafferma la «Centralità di Cesare» (penultimo capitolo) nell’economia della visione dantesca, capace di sanare la contraddizione che pure esiste tra il trionfo di Cesare e l’elogio di Catone, pure da questi sconfitto sino a costringerlo, per coerenza di libertà, al suicidio: «Dante compone questo dissidio in una visione più alta. Nel superamento di questa contraddizione – scrive Canfora – si manifesta e prende corpo quello che potremmo definire il sincretismo storiografico di Dante alle prese con la storia di Roma: una storia da lui concepita unitariamente, in cui la fase repubblicana non solo precede cronologicamente ma prepara l’impero. L’impero è per lui parte essenziale di un disegno divino, e Cesare ne rappresenta il motore principale».
Resta un fascinoso tema che Canfora solleva in poche dense pagine: Se Dante ha letto Tacito. Lo studioso evoca la presenza a Montecassino del manoscritto (oggi alla Laurenziana) che contiene parte delle Historiae di Tacito (I –V), ricorda la perfetta descrizione dei luoghi stessi in Paradiso XXII, e sottolinea come nessuno, prima del Dante del Monarchia avesse ripreso l’attacco delle Historiae tacitiane: «Opus adgredior opimum casibus, …», così riscritto da Dante: «Arduum quidem opus et ultra vires aggredior…». Come per ogni novità esegetica intorno ai classici, si possono evocare intermediazioni patristiche (e c’è chi, Pieter Smulders, ha suggerito di convocare la prefazione dell’Opus Historicum di Ilario di Poitiers); ma intanto resta questa conquista e ancora un lungo compito, sollecitato da Canfora: «La “biblioteca latina” di Dante non smette di riservare sorprese». Anche per questa preziosa tessera si conferma la tesi di Ernst Robert Curtius: che Dante sia stato il supremo suggello di tutta la tradizione latina, classica e medievale.
Luciano Canfora, Gli occhi di Cesare. La biblioteca latina di Dante, Salerno Editore, Roma, pagg. 104

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Il vizio manicheo

Il re Priamo prega Achille di rendergli il corpo del figlio Ettore. Vaso a figure rosse da Caere, 490 a. C. circa, Kunsthistorisches Museum, Vienna, Austria Keywords

Dilaga la tentazione di ridurre ogni conflitto a una battaglia della luce contro le tenebre. Ma il mondo non assomiglia a «Star Wars», per capirlo è molto più utile l’«Iliade»
L’attualità di Omero, che non esalta la forza vittoriosa ma la comprensione, anche tra nemici, di fronte alla sventura

Mauro Bonazzi, “Corriere della Sera – La Lettura”,  10 gennaio 2016

Tutti, nel poema, presumono di essere dalla parte del giusto e si ritengono quindi legittimati a imporre il proprio volere con grande prepotenza Ma l’esito è sempre diverso dalle attese e sui protagonisti ricadono conseguenze dolorose Di fronte al gesto di Priamo che lo supplica perché gli restituisca il cadavere di Ettore, anche Achille, che era una furia devastatrice, raggiunge una nuova consapevolezza e impara finalmente ad accettare la sua condizione di essere mortale

Che la forza sia con te. Il lato oscuro e la potenza della luce. Devi affrontare le tenebre dentro di te, risvegliare la coscienza delle particelle di luce che si nascondono nel buio: solo così t’incamminerai sulla via della salvezza e della vittoria. Star Wars, penserà qualcuno. In realtà è il manicheismo, una religione fiorita al tempo dell’Impero romano, che concepiva tutta la realtà come lotta perenne tra i due principi opposti del bene e del male, dello spirito e della materia. È uno schema di pensiero più diffuso di quanto si pensi. Il mondo che ci circonda è complesso, così enigmatico da risultare a volte incomprensibile. Dividere tra il bene e il male, la luce e il buio, è una tentazione allettante, la soluzione a tante incertezze. Funziona bene in politica, dove sempre di più l’opposizione è tra i buoni e i cattivi, i corrotti (gli altri, molti) e gli onesti (noi, pochi). L’America ha bisogno di un John Wayne, ha appena tuonato Donald Trump. Arrivano i nostri, i cattivi sono avvertiti. Anche in Italia di programmi e idee si parla sempre meno, l’imperativo è la purezza. Il potere oscuro della corruzione imperversa, tutto sta per crollare, troppi hanno già ceduto; ma se resisterai al fascino delle tenebre, conservando incontaminata dentro di te la purezza, non tutto sarà perduto. La casta colpisce ancora: che la forza sia con te.
Sulla forza, sul bene e sul male, gli eterni problemi dell’esistenza umana, riflettevano anche Simone Weil e Rachel Bespaloff nel 1941, mentre intorno dilagavano le armate naziste — quelle vere, ben più tenebrose delle loro imitazioni cinematografiche. Lo facevano leggendo e rileggendo un vecchio poema, che raccontava di una guerra fra i Greci e i Troiani, e di un combattimento tra due eroi, Ettore e Achille. L’Iliade. Storie lontane, ma in realtà attualissime, perché la guerra, la violenza, la forza sono una presenza ricorrente nel mondo degli uomini. Niente di nuovo sotto il sole, rispetto al futuro remoto di Star Wars: che il mondo degli uomini giri intorno alla forza lo aveva già spiegato Omero. Ma i suoi canti resistono alle semplificazioni del «noi contro loro» che tanta fortuna hanno oggi; svelano una realtà diversa nelle cose umane, più complicata, meno rassicurante ma forse più vera.
Perché in Omero c’è la forza, ma nessuna fascinazione. Non c’è niente da risvegliare, solo l’illusione di chi crede di saper controllare la forza e inevitabilmente ne viene travolto. Tutti, nel poema, presumono di essere dalla parte del giusto e si ritengono legittimati a imporre il proprio volere. Ma l’esito è sempre diverso dalle attese, le conseguenze dolorose. Agamennone che crede di poter piegare Achille e assiste alla rotta del suo esercito; Achille che, per umiliare Agamennone, causa la morte del suo più caro amico; Patroclo e Ettore che non si sanno fermare al momento giusto e pagano con la vita. La forza inebria chi crede di possederla, ma nessuno la possiede veramente. «Ares, la guerra, è imparziale, e uccide chi ha ucciso». Vincitori e vinti si assomigliano. La forza è un’illusione.
È una vicenda nota, che si ripeterà continuamente nella storia umana. Omero la canta con infinita pietà e partecipazione. Fa bene, perché questi eroi sempre eccessivi — che mangiano come cinghiali, uccidono spietatamente, piangono come fontane, litigano come bambini, dominano su eserciti immensi — sono come noi: come noi affrontano situazioni difficili, si preoccupano per i propri cari, s’indignano per le ingiustizie. Greci o Troiani, sono uomini che soffrono e combattono: a volte vincono e a volte perdono, inseguendo le loro passioni, esposti alle contraddizioni dell’esistenza. Sbagliano perché vivono. L’Iliade o il poema della forza (questo il titolo del saggio di Simone Weil). Ma anche una meditazione su quell’impasto di grandezza e miseria che è l’uomo.
Così, senza giudicare, Omero impartisce la sua lezione. Ragioni e interessi, desideri e idee si mischiano continuamente, fino a diventare indistinguibili. Achille e Agamennone avevano entrambi ragione e entrambi torto. La tentazione, fin troppo umana, è quella di arroccarsi nelle proprie convinzioni, scegliendo la via dello scontro. Ma la forza non risolve niente, è un potere che inebria e perde. Organizzare la realtà nei termini di un’opposizione manichea tra la luce e le tenebre non serve a chiarirne la complessità; quasi mai distinguere tra i buoni e i cattivi aiuta a prendere decisioni corrette. Come tanti uomini di oggi, anche gli eroi omerici sono troppo fragili e insicuri per capire che la vera forza è nel compromesso. Compromesso: «una parola che puzza», ha scritto Amos Oz, esperto in materia per il suo impegno nel processo di pace in Medio Oriente e anche per un matrimonio che dura da 42 anni. Il compromesso è il preludio per soluzioni possibili, dolorose (perché «un compromesso felice non esiste»), ma magari efficaci. «Il compromesso è sinonimo di vita», con buona pace di quanti in Italia gridano all’inciucio ogni volta che qualcuno osa proporre un confronto. Non si esprimeva diversamente Nestore, cercando di riconciliare Achille e Agamennone. Prima che i conflitti divampino, non sarebbe meglio verificare se si possono disinnescare?
Ancora siamo alla superficie. Per capire il messaggio più profondo dell’Iliade bisogna seguire le vicende di Achille, l’eroe più grande, più bello, più potente. Queste virtù, che tanto piacevano nella Germania nazista, in realtà contano poco. Quello che lo distingue è la lucidità con cui affronta il buco nero dell’Iliade , ciò che più angoscia la vita degli uomini. Il cuore del poema non è la forza e non è neppure il conflitto: è la morte.
La guerra di Troia durò dieci anni; il racconto dell’Iliade copre una cinquantina di giorni. Ma tutto si gioca nei due o tre giorni che seguono la morte di Patroclo, quando Achille rinuncia a tutto per mettersi in cerca del senso ultimo delle cose, per confrontarsi con l’assurdo della condizione umana. Improvvisamente la morte si rivela per quello che è: uno scandalo, che priva di qualunque valore l’esistenza degli uomini, di ciascun singolo essere umano e dell’umanità nel suo insieme. Creature effimere, che un giorno appaiono e un giorno spariranno, riassorbite in un processo di perenne trasformazione. «Come le foglie, così le stirpi di uomini». Che senso ha tutto questo?
Nessuno, è la risposta di Achille, una furia devastatrice che non ha più nulla di umano. Se niente ha senso, tutto deve essere distrutto. Verrebbe voglia di definire Achille il primo nichilista. Di certo il lato oscuro di Darth Vader, con la sua piccola ambizione di dominare l’universo, impallidisce al cospetto di tanta radicalità. Il poema entra in una dimensione onirica, si trasforma in un incubo. Achille uccide tutti quelli che incrociano il suo cammino; combatte con un fiume che è tracimato per i troppi cadaveri; fa scempio del corpo di Ettore. L’Iliade, il poema della forza.
Ma, arrivato al fondo della disperazione, Achille capisce. Nella sua tenda appare Priamo, il re di Troia, il padre di Ettore. Supplica l’assassino di suo figlio perché gli renda il cadavere, così da poterlo seppellire. Di fronte a un simile gesto, Achille raggiunge una nuova consapevolezza sulla condizione umana. Una cerimonia funebre è il tentativo di dare senso e valore umano al fatto bruto di un corpo che si decompone. Questo vuole Priamo e Achille impara finalmente ad accettare la sua condizione di essere mortale. Il mondo intorno a noi probabilmente non ha senso, è un meccanismo cieco che ingloba e distrugge tutto. Gli uomini non sconfiggeranno la morte. Ma possono comunque conferire un valore umano alla loro vita. Costruire. È l’eterna battaglia tra natura e cultura. Achille e Priamo piangono insieme; si guardano, si ammirano. Si scoprono uomini in un mondo indifferente. È difficile immaginare una scena più intensa. Riconoscersi uomini tra uomini, imparare a stare insieme.
Il poema si avvia alla fine. Achille concede una tregua per i funerali. Poi la guerra riprenderà: è inutile farsi illusioni, così vanno le cose tra gli uomini. Ma il poeta della forza ha mostrato anche altro. «Quel che Omero esalta non è il trionfo della forza vittoriosa, ma l’energia umana nella sventura»: con le parole di Rachel Bespaloff, ecco l’ultima lezione del poeta. In un angolo della tenda, ai piedi di Achille, c’è il suo nuovo scudo, bellissimo: sull’orlo campeggia un fiume che scorre impetuoso; in mezzo c’è una città, si celebra un matrimonio, dei ragazzi danzano.

Bibliografia
Il saggio di Simone Weil (1909-1943) L’Iliade o il poema della forza è stato pubblicato da Asterios nel 2012 a cura di Alessandro Di Grazia (traduzione di Francesca Rubini). L’edizione più recente del testo Iliade di Rachel Bespaloff (1895-1949) è uscita da Castelvecchi nel 2012 (prefazione di Jean Wahl, traduzione di Valerio Bernacchi). Contro il fanatismo, un saggio dello scrittore israeliano Amos Oz, è uscito da Feltrinelli nel 2004 (traduzione di Elena Loewenthal)

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Il rito del fuoco che rese Roma eterna

Il culto di Vesta e le leggende sulla fondazione. Inseguendo il mito l’archeologo Carandini spiega come è nato il moderno concetto di interesse generale
Filippo Ceccarelli, “La Repubblica”,  10 gennaio 2016

Niente di nuovo sotto il sole di Roma, o forse tutto, come sempre. Presso l’arcaico “Comitium”, qualche settimana fa, l’ex sindaco Marino ha detto a ignari turisti di aver innalzato da terra le colonne del Tempio della Pace. Sotto il suo predecessore Alemanno, d’altra parte, fu organizzato un torneo di beach-volley al Circo Massimo; mentre l’ultima ideona sarebbe un ristorante di lusso in cima al Palatino. Resta d’impaccio la rinomata biblioteca raccolta nel secolo scorso dal celebre archeologo Giacomo Boni, iniziatore della tecnica stratigrafica. A Boni si devono i primi rilevamenti su ciò che rimane del Tempio di Vesta e quindi su quell’area, decisiva ai fini della storia e del mito fondativo della città eterna, cui è dedicato l’ultimo lavoro di Andrea Carandini, Il fuoco sacro di Roma.
È il cuore del passato più remoto, ma anche del futuro. Nel ricostruirlo meticolosamente fra terra e cielo si disvela il mistero della città arcaica e rivive l’enigma totemico delle origini. La sorpresa consiste nel fatto che i romani non sanno su quale profondo tesoro poggiano i loro piedi. Ha osservato una volta Carandini come Freud abbia accostato Roma all’inconscio trovando «due realtà analogamente stratificate»; per cui «ogni tanto riemergono rovine immani, come balene che affiorano sulla superficie del mare e sbuffano per poi ri-inabissarsi». Seguire le peripezie di questi cetacei–mammiferi è compito appunto degli archeologi, e tanto più sono degne le loro scoperte quanto più riescono a evadere dalle risultanze tecniche per inseguire trame mitiche e primordiali. Da questo punto di vista il Lucus Vestae e il suo perenne focolare certo non deludono, pieni come sono di fecondazioni incestuose, numi spulzellatori, verginità generatrici che precedono di otto secoli quella del Cristianesimo. Dai villaggi sparsi sui sette colli, queste leggende sono alla base della città-stato che via via cercherà di modellarsi una storia all’altezza del suo ruolo, fino a inglobare la figura di Enea. L’idea politica di fondo, se è consentito banalizzarla, è che il sorgere del fuoco sacro di Vesta e la figura stessa delle Vestali costituiscono il preludio, ma anche il presupposto della Cosa Pubblica, nucleo di valori alla base del moderno concetto di interesse generale. Alla fine ce n’è quanto basta perché, insieme alla conferma che il mito è il sottofondo della storia, sia riconosciuta la vocazione universale di Roma. Preziosa, oltre che sapiente, la conclusione per l’oggi: «Il mare di Sicilia pullula di profughi che scappano da orribili tragedie: le tante Troie oggi distrutte. Di fronte a un profugo bisognerebbe porsi questa domanda: se fosse un altro Enea?».

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Tutti gli dèi nascosti dietro al dio chiamato Gesù

Riti di Mitra, misteri dionisiaci, saturnali e la “vera” Epifania. Ritorna “Jesus Rex”, il capolavoro di Robert Graves
Silvia Ronchey, “La Repubblica”, 6 gennaio 2016

Nel 1614 Keplero, dopo laboriosi calcoli, dimostrò che nel 7 a.C., quando dovette grossomodo avere luogo la nascita di Gesù (che il calendario etiopico colloca nell’8 a.C. e che comunque non poté precedere il 5 a.c., anno di morte di Erode), Giove e Saturno ebbero tre congiunzioni ravvicinate nella costellazione del Pesce, un evento raro che avviene ogni svariate centinaia di anni e che era stato tuttavia già, previsto, si dice, dagli astronomi caldei. Una di queste congiunzioni fu nel mese di dicembre. Non che l’evento in sé spieghi la “stella grandissima”, che secondo i testi sacri — Matteo 2, 1-12, ma soprattutto gli apocrifi — sarebbe apparsa in quel tempo e avrebbe segnalato ai Magi la nascita di “un re per Israele”; o giustifichi un aumento della luminosità tale da oscurare le altre stelle, come scritto nel Protoevangelo di Giacomo. Né risulta compatibile con la cronologia della nascita di Gesù la visibilità della cometa di Halley, il cui passaggio si ascrive al 12 a.C. Ma la relazione tra il formarsi del calendario liturgico protocristiano e gli eventi astronomici che già sostanziavano i riti delle più antiche religioni, zoroastriana anzitutto e poi romana, è indubitabile.
La festività che nel mondo cristiano ortodosso è detta “delle Luci” (ton Photon) accomuna in un breve giro di calendario il pellegrinaggio escatologico dell’élite pagana d’oriente e la festa solare chiamata nell’antica Roma dies natalis Solis Invicti, e ancora oggi da noi Natale; a sua volta legata sia ai Saturnali, sia alla festa di Mitra, il cui culto misterico prettamente maschile, originariamente indopersiano, romanizzato nella pratica rituale degli eserciti, era in grande espansione nel periodo in cui nacque la fortunata eresia giudaica che le scritture canoniche ed extracanoniche associano alla nascita di un “nuovo re di Israele” proprio in occasione dell’evento che qui festeggiamo il 6 gennaio e chiamiamo Epifania.
Nome a sua volta desunto dalla terminologia dei misteri greci. È l’epiphàneia di un dio, la sua sacra manifestazione, al centro della leggenda della stella e dei Magi. I tre maghi persiani dal cappello a cono del mosaico di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna, i Drei Könige sulle cui magnetiche reliquie si impennò la cattedrale di Colonia, i tre savii stranieri dai nomi incerti e contorti che seguirono la stella ed ebbero l’epifania di un fanciullo divino, si prostrarono, scrive Matteo, con la rituale proskynesis che si riconosce al capo di un’altra e nuova religione, recandogli il crisma dei sommi doni sapienziali. «I misteri religiosi sono in gran parte connessi con le predizioni astronomiche», scrive con apparente candore Robert Graves all’inizio della terza e culminante parte di Io, Gesù, il capolavoro (ora ripubblicato da Longanesi, e all’epoca intitolato Jesus Rex) che settant’anni fa dedicò al formarsi del culto di quelli che chiama i crestiani — i seguaci del Chrestòs, in greco “il Buono” — nell’epoca che va appunto dalla teofania occorsa ai Magi a quello che definisce «lo scisma dei gentili, capeggiato dal visionario Paolo di Tarso. Un culto che sancisce — è la grande teoria di Graves, che fa qui la sua prima comparsa — la vittoria delle religioni dominate da divinità maschili, di cui JHWH, il dio onnipotente del monoteismo biblico, è l’esempio massimo, sulla religione femminile originaria, quella della Grande Dea, cui Graves dedicherà due anni dopo il suo libro più noto, La dea bianca. L’eclissi della divinità lunare e l’oblio del suo culto porteranno a fraintendere l’identità storica di Gesù, che nella ricostruzione di Graves, fantastorica, deliberatamente fantasmagorica ma non per questo meno scientificamente probante, riunisce in sé, per discendenza matrilineare, un’effettiva e clamorosa regalità. La legittima successione del trono di Davide, ossia dell’antica Israele, e di Erode, ossia della Giudea romana, gli è assicurata da Maria, vergine di sangue regale consacrata al Tempio, che ha però segretamente sposato uno dei figli di Erode, avuto dalla prima moglie, di altrettanto impeccabile discendenza idumonea. È alla luce dell’effettivo status di aspirante Rex Iudaeorum che Graves interpreta, nel finale del libro, l’udienza personale concessa da Pilato a Gesù, il suo straordinario favore, l’inusuale titulus, INRI, apposto per suo ordine alla croce; così come il successivo, irrazionale e imprevedibile svolgersi del fatti, la catena di fraintendimenti, censure, tendenziosità che plasmeranno, in un sincretismo assoluto e a tratti costernante, la nuova religione maschile destinata a pervadere i confini dell’impero romano, dal medio oriente giudaico all’estremo occidente celtico, di quella gelosa idea di elezione e linearità, legata a un’inquietante promessa di “al di là”, che si sostituirà alla preesistente idea femminile di ciclicità della storia come della natura del cosmo.
Al bene informato Agabo, alter ego narrante di Graves nell’ipotetico anno Domini 93 d.C. cui la narrazione è ascritta, il nuovo culto si presenta dominato da un rito conosciuto col nome di eucarestia e adibito «a comodo ponte tra il giudaismo e i culti misterici greci e siriani, in cui il sacro corpo di Tammuz viene mangiato sacramentalmente e sacramentalmente bevuto il sacro sangue di Dioniso», il dio “Figlio della Duplice Porta”, nato prima a sua madre Semele e poi al padre Zeus, cui Gesù somiglia anche nell’avere due date astronomiche di nascita: a quella del solstizio d’inverno, che coincide con la nascita del sole, si aggiunge quella estiva cui si riconduce il suo battesimo — rappresentato con matematica perfezione neoplatonica da Piero della Francesca — che coincide con la levata eliaca di Sirio, la stella messianica del versetto di Isaia.
In Io, Gesù Graves, superbo esperto di mitografia greca ed ebraica, dipana il sincretismo fin dalla Natività. Se la Vergine Madre dalla veste azzurra e dalla corona di stelle d’argento è necessaria ipòstasi di Iside, nella grotta la mangiatoia dov’è adagiato il Bambino ripropone quella usata allo stesso scopo nei misteri delfici ed elusini e il bue e l’asino, cui già allude Isaia, simboleggiano i due messia promessi, il figlio di Giuseppe e il figlio di Davide, che il neonato adorato dai Magi riunisce. La sua storia ha tratti in comune con quella di Pèrseo, che il re Acrisio tenta di uccidere in fasce. Nella narrazione di Graves, ironicamente accademica, irresistibilmente sacrilega, implacabilmente laica, i Magi non sono nulla di ciò che per due millenni l’esegesi dei teologi cristiani o degli storici delle religioni o tanto meno degli esoteristi e teosofi in voga in quegli anni ha abilmente e spesso fondatamente congetturato, ma solo tre ebrei damasceni della tribù di Issa-char, che nel palazzo di Erode a Gerico si presentano come astrologi appartenenti alla nuova setta degli “alleanzisti”: hanno stipulato una nuova alleanza con Dio attraverso la mediazione di uno spirito chiamato “Colui che viene” ovvero “la Stella”, che secondo la loro previsione si incarnerà quanto prima sotto spoglie umane e darà a Erode gloria eterna. Ma Erode stesso ha basato la sua politica e il suo regno sulla congiunzione astrale di Giove e Saturno individuata da Keplero nel 1614. Dal fallimento del piano dinastico di Erode, che in Graves si snoda in sostanziale aderenza a Matteo, ascende l’astro del nuovo re che i tre astrologi giudei hanno correttamente individuato e adorato, ma che non sarà scorto in vera luce dai gentili. I suoi Atti e detti, originariamente scritti in aramaico, riceveranno, riferisce il beffardo Agabo, versioni multiple di una traduzione greca «erronea, a volte goffa e di tanto in tanto fraudolenta», cosicché i fondatori delle chiese gentili fraintenderanno «così stranamente la sua missione da fare di lui la figura centrale di un nuovo culto che, se lui oggi fosse vivo, giudicherebbe solo con avversione e orrore». Lo vedranno come un giudeo rinnegato che «unendo la propria sorte a quella degli gnostici greci aspirò a una sorta di divinità apollinea, per di più fornendo credenziali che devono essere accettate per cieca fede — suppongo perché nessuna persona ragionevole», aggiunge Agabo, «potrebbe mai accettarle in alcun altro modo».

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Buon Natale

Villa_di_livia,_affreschi_di_giardino,_parete_lunga_occidentale,_abete

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Tucidide tra i Curdi

Greek War Memorial, Cointe, Liege, Belgium, foto Anika Artanika.

Nel famoso dialogo con i Meli, gli Ateniesi danno lezione di realismo
Ma anche in politica non contano sempre e solo l’interesse e le armi
Le riflessioni del grande autore greco mettono in risalto questioni di scottante attualità.
Ci aiutano a capire meglio l’impotenza dell’Onu, così come le ragioni degli eroici difensori di Kobane che non si sono piegati alla legge del più forte

Mauro Bonazzi, “Corriere della Sera – La Lettura”, 13 dicembre 2015

Nell’Iliade Omero racconta del troiano Licaone, un giovane non molto fortunato. Mentre si preparava per la guerra, era stato rapito da Achille e venduto come schiavo. Liberato, era subito tornato sul campo di battaglia. Dove aveva incontrato di nuovo Achille. E la morte, perché questo aveva deciso l’eroe: a nulla servirono le lacrime. La forza comanda. I poeti greci non si facevano troppe illusioni, ed è per questo che chi s’interroga sulla natura del potere farebbe bene a meditare sulle loro storie. Bisognerebbe sempre ricordarsi di Licaone. Sicuramente se ne ricordò Tucidide, quando raccontò della spedizione degli Ateniesi a Melo.
Melo è un’isoletta dell’Egeo di nessun valore strategico. Ma nel 416 a.C. gli Ateniesi avevano deciso che era necessario esercitare un controllo totale su tutti i porti dell’Egeo. È la solita strategia delle potenze navali; ed era la fine dell’indipendenza dei Meli. Ci potrebbe essere storia più scontata e banale? Prima, però, gli Ateniesi propongono di risolvere il problema a parole, discutendo, ed è qui il colpo di genio di Tucidide. L’esito della vicenda è già scritto, per gli Ateniesi non ci sono dubbi: comunque vada, Melo perderà la sua indipendenza e diventerà loro «alleata». L’obiettivo degli Ateniesi è dunque un altro: spiegare ai Meli che non può che essere così, che è inevitabile e in fondo giusto. È una lezione, insomma, quella che gli Ateniesi vogliono impartire, mossa da spirito di umanità: imparando, i Meli eviteranno la sorte di Licaone. Un episodio marginale assurge così a paradigma dell’eterno problema del potere. Ma saranno dei bravi allievi, i Meli?
Sicuramente gli Ateniesi sono insegnanti pazienti. Perché i Meli danno spesso prova di una ingenuità sconfortante, come quando invitano gli Ateniesi a rispettare diritto e giustizia; o quando sperano nell’intervento di improbabili alleati, ad esempio gli Spartani. La risposta è severa ma illuminante: cosa c’entra la giustizia? In politica non si discute di cosa sia giusto o no; si discute di come stanno le cose, non di come si vorrebbe che andassero. Perché due sono le cose che contano, l’interesse e la forza. Tutti perseguono degli interessi, ma non tutti gli interessi sono realizzabili. Per realizzarli serve la forza. È come una legge scientifica: tutti cercano di affermarsi e ognuno ottiene quello che le sue forze gli permettono di ottenere. Basta quindi un calcolo per capire cosa si può fare e cosa no. La politica si risolve nella matematica.
Del resto, la proposta è ragionevole: non sembra, ma gli Ateniesi sono equanimi. Diversamente da Achille, riconoscono che anche i Meli hanno degli interessi. Propongono un’alleanza, quando potrebbero prendersi tutto. In cambio chiedono solo che i Meli imparino a guardare la realtà in faccia. Anche gli altri pensano al proprio interesse: come gli Spartani, che non hanno nessuna convenienza a esporsi per un’isoletta senza importanza. Quanto alla fantomatica esistenza del diritto o di parti terze e indipendenti, non vale neppure la pena di rispondere.
Sarebbe interessante sentire il parere degli Ateniesi sulle vicende nostrane. Su quanto conti la giustizia nelle risoluzioni prese in seno al Consiglio di sicurezza dell’Onu, ad esempio. O sull’attenzione intermittente dell’Unione europea per l’integrità dei confini ucraini: molto maggiore d’estate, quando il problema energetico del gas non è pressante come in inverno.
Questi sono gli uomini, questa è la realtà. I Meli devono guardare dentro se stessi, ammettere che sono come gli altri e capire che il loro caso non ha nulla di eccezionale, che è la manifestazione di una legge universale. E poi cedere. Ma i Meli rifiutano. Perché? Come interpretare il rifiuto? Per gli Ateniesi è il banale errore di calcolo di un cattivo studente. Come tutti, così i Meli cercano il loro interesse. Ma non hanno saputo valutare in modo corretto i rapporti di forza. Si sono illusi, hanno preteso troppo e per questo pagheranno. Ma questa non è l’unica spiegazione possibile.
E se i Meli avessero capito? E se avessero voluto impartire a loro volta un insegnamento? I Meli sanno bene che gli Ateniesi sono più forti, mettono in conto di essere distrutti. Eppure resistono: perché la resistenza non è solo militare, è anche intellettuale, e riguarda la presunta verità di cui gli Ateniesi sarebbero detentori. I Meli perderanno ma non si piegano all’idea che nel mondo contano solo forza e interesse. Tucidide tace, ma anche questa è una possibilità. Una possibilità gravida di conseguenze, perché smaschera la presunta oggettività del realismo degli Ateniesi, rivelandolo per quello che è: un discorso volto a giustificare il punto di vista dei forti, un discorso che offre ai deboli una scusa per la loro sottomissione. Il rifiuto dei Meli assume così il valore della testimonianza di un altro punto di vista sulla realtà dell’uomo, che non è, o non è soltanto, brama di potere. I Meli: l’eccezione che non conferma la regola. La realtà non è quella descritta dagli Ateniesi. Magari gli uomini possono essere altro; a volte lo sono pure. Ed è per questa idea che vale la pena di rischiare, persino di morire.
In effetti, non sempre le cose vanno come dicono gli Ateniesi. Non sempre siamo soli e non sempre contano solo interesse e forza. I Meli, è vero, hanno scrutato invano quel mare e quel cielo così azzurri senza che nessuna divinità o nessuna flotta apparissero in loro soccorso. Ma altre volte qualcosa succede. Quando il cielo era terso, anche il partigiano Johnny guardava in alto in attesa della sua capricciosa divinità, Alexander, il generale delle forze alleate. Alla fine gli aerei arrivarono. Oltre Manica, nel 1940, dal cielo piovevano solo bombe, ma non per questo gli inglesi accettarono di trattare con Hitler. Alla fine i nazisti furono sconfitti. I partigiani e gli alleati combattevano per interesse, per spirito di sopravvivenza, certo. Ma non solo: un’altra Europa è sorta dalle macerie di quella guerra.
In questi giorni anche sugli altipiani mediorientali il cielo è spesso limpido. E il pensiero corre ai guerriglieri curdi che a Kobane si sono opposti alla barbarie in una condizione di minorità. Anche loro guardavano il cielo in attesa di qualche apparizione. Hanno resistito e tuttora continuano a combattere. Perché? Per cosa? Per una patria, certo, e dunque per il loro interesse, in un contesto dove il groviglio degli interessi è quasi impossibile da sgarbugliare. Ma è solo interesse quello che li muove? Si è molto parlato delle donne curde che hanno scelto di combattere al fianco dei loro uomini. È solo per patriottismo che hanno impugnato i fucili, o è anche in difesa di un’altra idea di società e di donna (e di islam visto che queste soldatesse sono musulmane)? Ciò che siamo non è determinato necessariamente una volta per tutte dalle leggi di natura; siamo noi con i nostri pensieri e le nostre azioni che determineremo cosa siamo. Spesso ci comportiamo come bestie, ma non è detto che lo siamo. Anzi. Anche i Meli, i tanti Meli che calcano le scene della storia, hanno una lezione da insegnare. Sarà quella giusta?

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Torbide vicende da numi

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Oggi come ai tempi di Omero la violenza bruta è una cifra essenziale degli eventi che narrano l’inizio di questo mondo
Maria Bettettini, “Il Sole 24 ore –  Domenica”, 13 dicembre 2015

Il vento del Nord, Borea, si innamora delle tremila cavalle del re Erittonio, giace con loro, diventa padre di dodici puledre. Crono divora i suoi figli e Zeus ingoia la sposa incinta, Metis (ma poi Zeus divenne marito di Hera, che era anche sua sorella). Per questo Atena nasce dalla testa del padre, preceduta da una forte emicrania. Si sa, le vicende mitologiche non sono mai sdolcinate favole: la narrazione dell’inizio di questo mondo deve raccontare eventi che lo rispecchiano e lo superano, la violenza bruta ne è una cifra essenziale. Lo era ai tempi di Omero, lo è oggi. Oggi che ancora amiamo leggere Omero, Esiodo, Virgilio. Certo, avere una guida per quelle pagine così lontane così vicine, è sempre di grande aiuto. Quando poi la guida scrive bene ed è appassionata, diventa un piacere rileggere di Ulisse e di Achille, di Enea e delle torbide vicende dei numi. Alcuni libri usciti di recente hanno queste caratteristiche. Per esempio quello di Eva Cantarella, che da tempo ci ammalia raccontando storie che in fondo sono sempre le stesse, ma mutano colore col cambiare del punto di vista. L’ultimo lavoro studia il rapporto tra padre e figlio nel mondo greco, il prossimo farà lo stesso per quello latino. Come si diceva, gli antefatti mitologici sono un affresco di efferati eventi da cronaca nera. Neonati divorati o costretti a non nascere, incesti, padri evirati. Con la conquista del potere da parte di Zeus si stabilisce una certa pace, un certo ordine, nel rispetto di parentele e nascite. Traditore seriale, Zeus era tuttavia riconosciuto come giusto giudice, ai tempi in cui anche la Grecia si dava delle regole e scandiva diritti e doveri. Sorsero i tribunali, si scrissero le leggi, si costruì una mitologia comune, fondata sulla trasmissione orale dei poemi omerici. Ancora commuove Ettore che toglie l’elmo per prendere in braccio il suo bambino, spaventato dal cimiero: lo aspetta il duello con Achille, la morte certa. Telemaco, a confronto dell’avventuroso Ulisse, sembra un adolescente svogliato; Fenice racconta di aver sedotto l’amante del padre su ordine della madre. Ma sono eccezioni, i poemi devono educare, quindi presentare esempi di virtù. Nella storia è più difficile incontrarne, per esempio Alcibiade non dava certo retta a Pericle, suo zio e tutore.
Il libro di Cantarella prosegue poi studiando i padri raccontati dalle tragedie e dalle commedie, aggiungendo agli scarni dati mitologici aperture su temi molto dibattuti, come l’influenza dei costumi orientali, la trasmissione scritta e orale del sapere, il maschilismo che legalmente trasformava i padri in tiranni. Non è tutta bella né tutta cattiva, la cultura dei Greci, e dove leggiamo di un figlio ben poco affettuoso verso il padre, scorgiamo anche l’uomo che ci ha permesso di capire la nostalgia, parte costitutiva del nostro essere nel mondo. Ulisse infatti non ha grandi attenzioni per Laerte, però incarna con la sua vita l’insoddisfatto ed eterno vagare della nostra anima. Lo spiega bene Barbara Cassin in un libro che presenta un’altra possibile lettura del mondo antico, seguendo il tema della nostalgia. Ulisse è l’uomo che soffre per un ritorno a casa continuamente differito (nostalgia è infatti “dolore del ritorno”), che soffre anche nel ritorno, perché non viene riconosciuto e non riconosce, non subito, e soprattutto perché dopo la battaglia contro i Proci potrà godere ben poco della sua casa, della sposa, del letto scolpito in un albero antico. Come gli ha annunciato Tiresia negli Inferi, il re di Itaca deve subito ripartire, andare lontano dove non si conosce il mare, quindi il cibo è insipido e gli uomini confonderanno un remo per uno strumento agricolo. Là onorerà Poseidone, il dio del mare con cui è in lotta da quando gli ha accecato il figlio Polifemo, e poi potrà di nuovo tornare a casa. Ma noi sappiamo che non tornerà.
Molto diverso dal quasi divino Ulisse, dal mondo dove gli dèi sono simili ai mortali e a loro si mescolano, il pio Enea a sua volta affronta molte peripezie non per tornare in patria, ma per fondarne una nuova. Il vecchio padre che si porta sulle spalle e che sopravvive a parte del viaggio è tutto ciò che Enea ha con sé di Troia distrutta. In Lazio deve mescolare il suo sangue con quello latino, perché il suo discendente Romolo possa fondare Roma. Giunone non lo perseguiterà più, a patto che accetti di parlare solo la lingua latina, in una nuova patria di un nuovo popolo. Interessanti anche le riflessioni di Cassin sulla lingua come patria, applicate al caso specifico di Hanna Arendt e della lingua tedesca, l’unica appartenenza che sentisse sua. Infine, un brevissimo curioso saggio, in cui si presenta la diffusa credenza antica della capacità del vento di rendere gravidi alcuni animali, come i cavalli e gli avvoltoi. Omero diceva essere Zefiro il padre dei cavalli velocissimi Xanto e Balio, Aristotele dedusse questa legge di natura dall’osservazione degli uccelli e dei loro nidi. Qualche teologo riprese la credenza per rendere meno miracoloso il concepimento della Vergine per il soffio dello Spirito. Come se rispetto alla maternità di una vergine fosse più facile da accettare il vento del Nord che giace con le sue tremila cavalle.

Troy W. Martin, Il vento fecondo. Gravidanze insolite nel mondo antico, trad. it. R. Fabbri, EDB, Bologna, pagg. 56

Eva Cantarella, Non sei più mio padre. Il conflitto tra genitori e figli nel mondo antico, Feltrinelli, Milano, pagg. 156

Barbara Cassin, La nostalgia. Quando dunque si è a casa? Ulisse, Enea, Arendt, trad. it. A.C. Peduzzi, Moretti&Vitali, Bergamo, pagg. 98

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