L’inventore dell’Italia

Augusto plasmò un mito identitario da brandire nella lotta con antonio

Paolo Mieli, “Corriere della Sera”,  8 dicembre 2015

A spalancare le porte del successo al diciannovenne Ottaviano, fu un «difetto di pianificazione» da parte degli attentatori di Cesare: Bruto, Cassio e compagni («tra cui c’erano ottimati, ma anche cesariani e personaggi non attribuibili ad alcuno schieramento preciso»). È questa la tesi iniziale dell’interessantissimo Augusto di Arnaldo Marcone, pubblicato da Salerno. L’assenza di un «progetto per il dopo» portò in quel 44 a.C. a un generale stato di confusione. Un caos ben ricostruito anni fa da Arnold Hugh Martin Jones nel suo Augusto (Laterza), laddove si spiega come l’errore iniziale dei congiurati fu probabilmente quello di non aver seguito il consiglio di Cicerone, cioè di eliminare anche Antonio («Bruto fu il più deciso nel volerlo risparmiare», sottolinea Marcone). Con le conseguenze che, per vie tortuose, ne venne fuori un disordine che durò per tredici anni, fino alla battaglia di Azio (31 a.C.) nella quale Ottaviano sconfisse Antonio e Cleopatra. Una concatenazione di eventi approfondita con considerazioni non scontate da Giovannella Cresci Marrone in Marco Antonio. La memoria deformata (Edises). Fu solo nella battaglia di Azio che si completò l’ideale passaggio di consegne tra Cesare e il suo figlio adottivo Ottaviano Augusto.
Nella storia di quegli anni, ha scritto Luca Canali in Augusto, braccio violento della storia (Bompiani), sarebbe stato difficile trovare due personalità tanto diverse fra loro… Cesare aveva voluto con sé Ottaviano, appena adolescente, nel corso di due spedizioni, in Africa e in Spagna. In quelle due circostanze avrebbe scoperto «la gracilità delle membra e il pallore a volte mortale di quel ragazzo, ma anche la sua ostinazione tirata fino allo spasimo in qualsiasi situazione, fosse pure di grave rischio o di dura fatica». Canali, domandandosi che cosa Giulio Cesare avesse trovato in quel «sedicenne schivo e taciturno», si è spinto a ipotizzare che avesse individuato in lui, sia pure in nuce, «la innata capacità di trasformare una rivoluzione ancora in atto in un regime illuminato ancorché autoritario fino al dispotismo». Marcone ricorda che, secondo Svetonio, a Munda, la località della Spagna meridionale dove nel marzo del 45 si svolse una decisiva battaglia contro i seguaci di Pompeo, Cesare pensò addirittura al suicidio: fu probabilmente in quegli attimi che scelse il nipote Ottaviano (la sorella di Cesare, Giulia, era sua nonna) come successore. E, dopo la vittoria ispanica, gli concesse di seguirlo nella carrozza più prossima alla sua, dove sedeva con Marco Antonio, nei giorni in cui attraversò trionfalmente l’Italia.
Vennero poi le Idi di marzo e, dopo l’uccisione di Cesare, il caos di cui abbiamo detto all’inizio. Una notevole carenza di senso delle prospettive accecò all’epoca anche Cicerone, ondivago nei suoi giudizi sui protagonisti di quella fase storica e ossessionato dall’idea che Antonio potesse trasformarsi in un nuovo tiranno. Ed è a questo punto che si produce quello che Luca Canali, ha definito il «pasticcio di Modena». A Modena nel 43 a.C. Ottaviano combatté la «prima vera battaglia (quasi una guerra)» che «vide capovolte e violate le motivazioni politiche delle parti in conflitto» . In che senso? Ottaviano prese la decisione di schierarsi con i due consoli in carica, Aulo Irzio e Gaio Pansa, i quali sostenevano Bruto, uno dei congiurati che avevano ucciso Cesare. Paradossalmente il nemico del figlio adottivo di Cesare, in quella occasione fu Marco Antonio, cesariano da sempre. La battaglia fu sanguinosissima, Irzio e Pansa morirono in combattimento, ma Antonio venne sconfitto, dovette lasciare il campo e attraversare le Alpi.
Ancor più imprevedibile quel che accadde in seguito. Ottaviano, dopo questa che per Canali fu una «guerra assurda», si riconciliò con Antonio e passò di nuovo «dalla parte della rivoluzione», marciò su Roma e chiese a soli vent’anni il consolato (mentre l’età minima per ottenerlo avrebbe dovuto essere di trenta) al posto di Irzio e Pansa, caduti, come s’è detto, in battaglia. A tale richiesta «completamente anomala e avventata», i senatori «cedettero atterriti dalle minacce di rappresaglia». Soprattutto dopo che un centurione di Ottaviano entrò nella aula senatoriale con la spada sguainata e disse: «Se non lo farete console, lo farà quest’arma». Così il figlio adottivo di Cesare ottenne il consolato, furono stilate le liste di proscrizione e «il sangue corse a fiumi».
Alludendo in modo quasi esplicito al passo di Benito Mussolini dell’ottobre 1922, Luciano Canfora ha definito, fin dal titolo di un suo fortunatissimo libro, quella di Augusto. La prima marcia su Roma (Laterza). «Atto eversivo ammantato di legalità», ha scritto Canfora, «quella precoce conquista a mano armata della più alta magistratura della Repubblica fu, per il giovanissimo e già più che maturo erede di Cesare, il presupposto fondamentale della successiva sua costruzione politica che segnò per secoli la storia del mondo». Certo, scrive Marcone, la caccia all’uomo che si scatenò in quei giorni — e che ebbe in Cicerone la sua vittima più illustre — «lascia un’ombra incancellabile sul giovane Ottaviano, anche se è verosimile che almeno in un primo tempo, abbia cercato di opporsi alle proscrizioni, dal momento che non aveva nemici personali in Senato da colpire». Ma questo era probabilmente un suo punto di forza, dal momento che stava per giungere l’ora dello scontro finale con gli artefici della congiura del 44 a.C.
A Filippi nell’ottobre del 42 a.C., gli eserciti dei cesaricidi e dei triumviri si scontrarono due volte e in entrambe le occasioni, sottolinea Werner Eck in Augusto e il suo tempo (Il Mulino), «il vero vincitore fu Antonio». Il quale, successivamente, rappresentò Ottaviano come «un vile codardo che si era nascosto davanti al nemico». Effettivamente, scrive Eck, le cose andarono più o meno come aveva detto Antonio e l’assetto successivo risentì di questa forza di Antonio, nonché dell’altrettale debolezza di Ottaviano. Il primo tenne per sé il comando sulle Gallie e ricavò dall’Oriente il denaro per sistemare i suoi veterani. Al secondo toccarono le province spagnole (a danno di Lepido); in Italia dovette cacciare abitanti dalle loro terre per far posto ai soldati che avevano combattuto per lui. Eck ha censito almeno diciotto città italiche colpite, da alcune delle quali si dovette mandare via l’intera popolazione. Con qualche eccezione, come nel caso di Virgilio che, vicino a Mantova, riottenne i beni paterni. E che, in virtù di ciò, in una delle Egloghe espresse tutta la sua gratitudine e lodò quella di Ottaviano come un’«epifania divina». Ma la massa della popolazione di queste città lo maledisse e le immediate conseguenze dell’operazione misero Ottaviano persino in pericolo di vita: gli espropriati avevano prontamente trovato un portavoce in Lucio Antonio, fratello del triumviro.
Fu in quel momento che, secondo Marcone, in un certo senso Ottaviano «inventò l’Italia». L’esperienza delle guerre civili, «aveva lasciato un segno». Ottaviano «recepì precocemente che quella stagione doveva essere superata per sempre e fece di tutto, una volta divenuto Augusto, per ridimensionarne il ricordo». Augusto «scelse l’Italia come sua interlocutrice privilegiata». L’appello che fece nel 32 a.C., alla vigilia dello scontro finale con Antonio, «assume un valore del tutto particolare, che trova conferma nei successivi sviluppi ideologici». Sembra allora valorizzarsi, scrive Marcone, «un concetto polivalente di Italia, di tutta la penisola italica, che diventa un fattore ideologico — e politico — di riferimento». Esso va apparentemente «al di là dello stesso mito troiano dell’arrivo di Enea nel Lazio, che era pur sempre nato con una funzione essenzialmente riferita all’esterno, al mondo greco in primo luogo».
E venne l’ora della battaglia di Azio, a seguito della quale Ottaviano divenne, secondo Cassio Dione, «il signore unico di Roma», al punto che «il conto degli anni del suo regno si fa proprio partendo da questo giorno», ciò che, secondo Marcone, rende esplicito «il valore epocale, periodizzante» di quella vittoria. È qui che inizia il regime augusteo. Perché regime? Alla riconoscenza di Virgilio si aggiunse l’ossequio di molti altri intellettuali. Augusto «incoraggiò in tutti i modi gli ingegni del suo secolo», scrisse Svetonio; «ascoltò benevolmente e pazientemente chi gli recitava cose proprie, non soltanto di poesia e storia, ma anche orazioni e dialoghi». Grazie a loro, agli uomini d’ingegno di cui si circondò, nell’età augustea la propaganda — ha messo in luce Ronald Syme nello straordinario La rivoluzione romana (Einaudi) — ebbe maggior peso di quello che le armi avevano avuto nelle lotte del periodo triumvirale.
Syme ha descritto Augusto come un personaggio in possesso di «un impareggiabile senso dello spettacolo» e, ad un tempo, «dotato di grandi capacità organizzative», capace di scegliere «oculatamente» i propri collaboratori. «Il capo di gabinetto di Augusto, Mecenate, si preoccupò di catturare, quasi giovani fiere, i poeti più promettenti e di ammaestrarli in modo conveniente al principato». Augusto presenziava alle loro letture, ma insisteva che le sue lodi «fossero cantate solo in opere seriamente impegnate e dai migliori», ha scritto Syme rifacendosi a Svetonio. Un clima magnificamente descritto da Antonio La Penna in Orazio e l’ideologia del principato (Einaudi). E, in tempi più recenti, da Augusto Fraschetti in Augusto (Laterza).
Mecenate poi ebbe il grande merito, secondo Marcone, di restare «sostanzialmente estraneo al grande gioco politico», per una scelta «che attingeva a una precisa filosofia di vita». Ma, mette in guardia l’autore, attenti a presentare Augusto come «un uomo della propaganda», in particolare se questo termine «viene utilizzato in modo indifferenziato e con implicazioni eccessivamente modernizzanti». Augusto fu soprattutto un imperatore di grandi realizzazioni. Non tutto, tra l’altro, andò liscio: lo testimoniano la messa al bando delle poesie di Cornelio Gallo, l’invio di Ovidio in esilio. E, a dispetto di quel che scrisse Tacito, le numerose manifestazioni di ostilità: Egnazio Rufo, Marco Emilio Lepido, Cinna Magno, Fannio Cepione, Licinio Varrone Murena. Anche se, sostiene Svetonio, le cospirazioni furono «tutte scoperte prima che diventassero pericolose».
Di pari passo all’affermazione di Augusto, la memoria di Cesare andò sfumando. Duemila anni dopo, per il fascismo — ha notato Luciano Canfora in Augusto figlio di dio (Laterza) — nella fase «rivoluzionaria» della presa del potere il riferimento di Mussolini era stato Cesare, ma per il fascismo «regime» (sono come è noto le categorie introdotte da Renzo De Felice) il modello fu invece Augusto. Ma Cesare rimase sullo sfondo. Così come nell’attuale impero cinese, prosegue Canfora, pur essendo il richiamo a Mao sempre più pallido, il suo ritratto resta all’ingresso della Città proibita. Allo stesso modo nella Russia post-sovietica di Putin ci si richiama a Stalin, vincitore della guerra contro gli invasori da Ovest. E Volgograd una volta l’anno, nei giorni di anniversario della conquista di Berlino, torna a chiamarsi Stalingrado.
 Collocato dunque Cesare in un lontano empireo, nella cultura augustea, scrive Marcone, la presenza indubbiamente rilevante di Troia «può essere riconducibile all’accentuata consapevolezza della minaccia orientale». È da considerare come «l’idea etnico morale dell’Italia assurga a tema politicamente forte nel momento delicato del passaggio dall’età triumvirale alla costituzione del Principato». La tota Italia diventa «un argomento ideologico e culturale, oltre che politico, che va oltre il motivo della consanguineità tra i vari popoli della penisola, che pure era stato impugnato dai Gracchi e ripreso in varie circostanze, con finalità diverse, prima e durante la Guerra sociale». Augusto decise «di non governare l’Impero in modo arbitrario e autocratico come nel 30 avrebbe potuto fare». È una scelta «che ha puntuali riscontri a vari livelli». Anche se «la nozione extra costituzionale di auctoritas , valorizzata a giustificazione della sua azione politica, possiede indiscutibilmente una valenza di natura religiosa», va detto che il «rifiuto di un culto esplicito della sua persona, in forme di derivazione orientale», è coerente con la sua scelta di fondo. Certo, la trasmissibilità del potere a eredi, scelti tra l’altro all’interno della propria famiglia, è priva di fondamento legale e «rappresenta una delle contraddizioni irrisolte del regime augusteo». Ma nel concetto di res publica restituta («per quanto limitato sia il riscontro oggettivo che esso ha nelle fonti») si può apprezzare «un’idea forte di legalità che significa in primo luogo il ripudio degli arbitri dell’età triumvirale». E non è cosa da poco.

 
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A ciascuno la sua Elena

Menelao ed Elena. Cratere attico a figure rosse 440-430 a.C. Museum of arts di Toledo

Alle radici del mito il motivo folklorico della “bella moglie rapita”, diffuso dall’Europa all’India e alla Cina: l’indagine di un filologo
Giorgio Ieranò, “La Stampa”, 7 dicembre 2015

Forse è morta impiccata a un albero nell’isola di Rodi. Forse ha attraversato i secoli e, trasmigrando di corpo in corpo, per successive reincarnazioni, è diventata una prostituta in un bordello fenicio. O forse abita in un’isola incantata, ai confini del mondo: un paradiso degli eroi, dove è la sposa di Achille e trascorre le notti in un banchetto perenne.
Sono solo alcune delle storie che gli autori antichi raccontavano intorno a Elena di Troia. Storie bizzarre e, spesso, in contrasto tra loro. Archetipo della femme fatale, icona di bellezza e di morte, Elena è donna dai molti destini. Per Omero, è l’adultera per eccellenza, la «cagna» che, abbandonando il marito Menelao, provoca la guerra di Troia. Ma altri poeti, da Stesicoro a Euripide, sostenevano che Elena non era mai andata a Troia: gli dei dell’Olimpo avevano dato in ostaggio a Paride solo un suo fantasma, fatto di nuvole e d’aria. Lei, invece, si sarebbe nascosta in Egitto. E lì sarebbe rimasta, mentre sulle rive dello Scamandro scorreva il sangue di achei e troiani, e Achille ed Ettore morivano per un fantasma.

A. Canova, Elena di Troia, post 1812

Sacra e adultera
Già gli antichi tentavano di attribuirle una psicologia. Ma Elena non ha una biografia, non è una Madame Bovary dell’età del bronzo: è un fascio di immagini che si rincorrono attraverso i secoli come in un gioco di specchi. Lowell Edmunds, filologo classico e professore emerito della Rutgers University, prova ora a mettere ordine nel caos del mito. Lo fa con un libro appena uscito negli Stati Uniti (Stealing Helen, letteralmente «Rubando Elena», Princeton University Press, pp. 430) che propone un’ipotesi suggestiva: la figura di Elena si spiegherebbe innanzitutto alla luce del motivo folklorico della «bella moglie rapita».
Scavando in leggende indiane, africane, cinesi, irlandesi, bulgare, e anche in favole italiane già catalogate da Italo Calvino, Edmunds compone una curiosa galleria di spose rubate: tutte donne di bellezza sovrumana, segnate da una nascita straordinaria (come Elena, che secondo il mito era uscita da un uovo), rapite e poi riscattate dai loro mariti con imprese in cui si combinano forza e astuzia. Il motivo è universale e si riflette anche nell’epopea indiana del Mahabharata. Certo, queste leggende non sono del tutto sovrapponibili al mito omerico: non sempre il ratto della moglie si risolve con una guerra come quella troiana. Ma in questa messe di racconti, che fa pensare a un’antichissima tradizione indoeuropea, s’intravede lo schema essenziale della figura di Elena.
Elena sarebbe dunque approdata all’Iliade uscendo da questo mare di racconti. E non, invece, dal mondo arcano di una primitiva religione mediterranea. Si è spesso sostenuto che in origine Elena era una divinità della vegetazione, poi trasfigurata in personaggio dell’epica e in figura romanzesca. Ma le tracce di questa originaria natura divina sono evanescenti. È vero, a Sparta e a Rodi c’erano santuari in cui l’eroina era venerata come «signora dell’albero» o «signora del platano». L’Elena sacra ha però sempre dovuto convivere con il suo doppio, l’Elena adultera. Ad Atene, nel borgo di Decelea, si facevano sacrifici in suo onore. Ma intanto, nel teatro alle pendici dell’Acropoli, i poeti la trattavano da sgualdrina. Nel Ciclope di Euripide, un coro di satiri irriverenti interroga Odisseo, reduce da Troia: «Dimmi, presa la giovane Elena, non ve la siete ripassata a turno, visto che a lei piace avere tanti amanti? Che spergiura! Alla vista di un paio di brache colorate su cosce maschili perse la testa e piantò Menelao, un omino così per bene!». Le brache sono quelle del troiano Paride che, come tutti i barbari, portava i calzoni e non la tunica dei Greci.

Cratere a volute a figure rosse raffigurante Menelao ed Elena dopo la presa di Troia. 350-340 a.C. Berlino, Staatliche Museen, Antikensammlung.

L’ennesima maschera
Elena combatte da sempre per uscire dal recinto dell’epopea e del folklore, per trasfigurarsi in sogno metafisico. Le sette gnostiche la consideravano l’incarnazione della Sophía, della Sapienza suprema, imprigionata dalle potenze cosmiche inferiori in un corpo femminile e costretta a subire ogni oltraggio. Simon Mago, leggendario fondatore dello gnosticismo, l’avrebbe cercata per secoli, riscattandola infine da un bordello di Tiro. Poi Elena ha sconfinato anche nel mito di Faust. Come ricorda Edmunds, ben prima di Goethe, la regina di Sparta compare già nella Storia del dottor Faust, mago e negromante, pubblicata nel 1587 da Johann Spies. Qui, davanti a un gruppo di studenti, la domenica di Pasqua, Faust evoca dagli inferi Elena, che appare «in uno stupendo vestito nero e purpureo, gli occhi nerissimi, le labbra rosse come ciliegie».
Il libro di Edmunds si ferma alle soglie del Novecento. Ma si vorrebbe aggiungere ai molti volti di Elena quello delineato dal poeta greco Ghiannis Ritsos nel 1970: il volto di una donna vecchia e stanca, sopravvissuta alla sua leggenda. L’eco delle antiche guerre si è ormai spenta. Ed Elena si consuma nella penombra, tra un armadio e una specchiera, con le verruche che le spuntano sul viso. È il crepuscolo di un mito. O forse è solo l’ennesima maschera dell’inafferrabile Elena.

Gustave Moreau, Elena sulle mura di Troia

Sullo stesso argomento si consiglia anche la lettura di:

Francesco Donadi (a cura di), Elena. Variazioni sul mito: Euripide, Hoffmannsthal, Ritsos, Tascabili Marsilio, 2005

 Laurie Maguire, Helen of Troy: From Homer to Hollywood, Wiley-Blackwell, 2009.

Dalla Prefazione:

This is a literary biography of Helen of Troy. It is not a historical life of a Bronze Age princess or a study of mythology; it is not an account of Troy or an exploration of the ancient world. It does not consider whether Helen of Troy had a historical existence or was a mythical figure. My subject is the literary afterlife of the woman we know as Helen of Troy, the beautiful Queen of Sparta whose elopement with (or abduction by) the Trojan prince Paris led not only to a ten-year war and the downfall of the greatest civilization the East then knew (Priam’s Troy) but to 28 centuries of poetry, drama, novels, opera, and film.
Helen’s story has been told and retold in almost every century. My study begins in the eighth century BCE with Homer’s Iliad; my most recent texts are plays and novels published in 2006. My interest throughout is not in Helen’s life but in literary depictions of that life: how literature deals with her beauty, her personality, how it blames her or tries to rescue her from blame, how it deifies her or burlesques her; in short, how it represents her.

Elena in versi: E. A. POE. CLICCA QUI.

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Maurizio Bettini: «Dèi e uomini nella città»

Carlo Franco, L’antropologia romana ha bisogno del filologo, “ Il Manifesto”, 15 novembre 2015

L’antichità greca e romana occupa da lungo tempo uno spazio nell’identità dell’occidente. Se lo avrà ancora in futuro, è difficile dire: probabilmente sarà sempre più marginale. Ma intanto gli antichi continuano a sollecitare la nostra riflessione: certo, non più in termini di esemplarità o di valore assoluto, e sempre più raramente anche in termini di «attualità». Produttivo resta però il loro ruolo di paradigma culturale sul quale esercitare il nostro sguardo. Le ricerche che Maurizio Bettini conduce almeno a partire dall’ormai classico Antropologia e cultura romana (1986, trad. ingl. 1991) vanno precisamente in questa direzione: oggetto di analisi sono mentalità, credenze, identità della Roma antica, studiate non con la superiorità del moderno che a proposito degli antichi «la sa più lunga» di loro (il Besserwissen, così caratteristico degli antichisti, un tempo), ma con l’intento di comprendere la cultura romana secondo le categorie che le furono proprie. Giacché gli antichi, sebbene per alcuni aspetti siano vicini a noi, ci sono lontani per altri, e misconoscere questa «alterità» conduce a equivoci culturali e storici. Il percorso di Bettini prosegue ora con una nuova raccolta di saggi, che rielabora contributi precedenti apparsi anche in sedi estere (Dèi e uomini nella Città Antropologia, religione e cultura nella Roma antica (Carocci «Frecce», pp. 213). E il primo aspetto da notare, proprio perché il libro lo sottintende, è che la cultura romana, pur se largamente influenzata da quella greca, ebbe caratteri suoi specifici: sicché chi studia le mentalità, i riti, i valori simbolici, le strutture profonde, è libero dal problema della «originalità» dei romani. Annosa questione, che ha condizionato (non sempre bene) l’approccio alla letteratura e delle espressioni artistiche in latino, e che ha avuto l’effetto di far trascurare quanto pur c’era di specificamente romano. Eppure, Plutarco doveva spiegare ai suoi lettori le «cause» di tante usanze che a un greco risultavano strane o incomprensibili (Questioni romane): segno che ancora nella civiltà bilingue dell’impero si percepivano differenze marcate tra le due culture. Oggi la ricerca incontra problemi differenti: ci si confronta con una cultura che non è vivente, ma solo con le sue testimonianze per lo più scritte, e questo richiede un’attenzione forte al metodo: «si può fare antropologia “etnica” romana solo a patto di fare contemporaneamente ermeneutica e filologia dei testi che possediamo» (p. 70). A differenza dalla via seguita da altri approcci al mondo antico, la lingua continua qui ad avere un ruolo importante: essa è uno degli strumenti principali utili a comprendere «i Romani secondo i Romani». Gli argomenti dei saggi, sviluppati con la chiarezza pacata che è caratteristica di Bettini, conducono il lettore in direzioni differenti, tra religiosità e pratiche culturali, unificate dal ricorso a strumenti antropologici e anche filologici. L’attenzione al latino non è concessione professorale, né compiacimento elitario, né feticismo per l’espressione originale: Bettini, che alla «antropologia della traduzione» ha dedicato un libro importante (Vertere, Einaudi 2012), è guida sicura all’operazione, rischiosa ma ineludibile, di interpretare gli antichi a partire dalle loro parole. Lo mostrano saggi come quello sulla interpretatio Romana, che dissipa un equivoco assai comune sul modo in cui a Roma si approcciavano gli dèi «degli altri», o quello sul concetto di auctoritas, così rilevante anche sul piano politico. Nel primo caso si dimostra come l’incontro con le divinità delle altre culture procedesse secondo i caratteri «indiziari» dell’analogia e della congettura; nel secondo si chiarisce che la auctoritas implica una «forza» che emana dall’interno del soggetto, e non deriva dall’esterno. La portata politica di questa lettura appare quando la si applica a un testo «politico» se mai altri ve ne sono, come le Res gestae di Augusto, la grande «autobiografia» destinata a perpetuare l’immagine trionfale del triumviro fattosi padre della patria. Del testo si conserva, nella monumentale iscrizione di Ankara, la versione latina e quella greca, e da tempo gli storici hanno rilevato, fin dalle prime righe, le sottili differenze tra i due testi, che parlano a pubblici differenti dicendo cose differenti. Ebbene, nel passo in cui Augusto chiarisce di essere stato pari in potestas, ma superiore in auctoritas a tutti coloro che ebbe colleghi nelle varie magistrature, auctoritas è reso in greco con exousía, che rinvia invece a un fondamento esterno della «autorevolezza», ben lontano dal concetto latino. Questo esempio mostra chiaramente che non ha spazio qui l’antistoricità, l’amore per schemi astratti dalle contingenze sociali e politiche, spesso rinfacciata agli studi antropologici del mondo antico: anche gli appassionati della politica troveranno in questo libro ampio materiale di riflessione circa episodi famosi e significativi. I funerali importanti, ad esempio. Quello di Giunia, moglie di Cassio e sorellastra di Bruto, morta nel 22 AD, è rimasto celebre perché Tacito ricorda (Annali, 3.76.2) che nell’occasione le imagines dei due cesaricidi non poterono sfilare nel corteo, ma che tutti ne notarono l’assenza: ebbene, accanto alla valenza politica, l’episodio riguarda il modo in cui la cultura romana strutturava i funerali aristocratici, secondo una griglia di valori complessa e unicamente romana. E lo stesso vale per il «mimo» che prese parte al funerale di Vespasiano (Svetonio, Vespasiano, 19), o per la caricatura scritta da Seneca alla morte del poco amato Claudio: entrambi i casi richiamano (anche) la compresenza di lutto e scherno che caratterizzava le cerimonie funebri romane. E Bettini fa notare che quando questi e altri testi sono usati come «documenti», senza valutare in essi l’incidenza dei modelli culturali, si è incorsi in gravi fraintendimenti. L’approccio antropologico chiama dunque in causa anche le grandi questioni: la riflessione sul modo in cui romani pensavano il proprio inizio come popolo, in assenza di una rappresentazione cosmogonica, conduce a ragionare sulla «ideologia» dell’inizio di Roma (e non sulla presunta storicità di Romolo e dei suoi muri…). E dal mito di fondazione esce un quadro di «apertura» e mescolamento (p. 23) che deve forse qualcosa a suggestioni contemporanee, ma che rinvia a una questione strutturale del massimo interesse (importante il saggio di Philippe Gauthier, “Générosité” romaine et “avarice” grecque: sur l’octroi du droit de cité, del 1974). Pure, fra problemi complessi e strumenti dotti, a questo libro di Bettini va ancora una volta riconosciuta la qualità della leggerezza, conseguita con un racconto disteso e con l’apertura a situazioni (fatti, aneddoti) «sorprendenti» ma capaci di suggestioni non superficiali. Avviene così nell’ultimo capitolo, dedicato al parto cesareo, ossia alla nascita non naturale, che parte della tradizione antica attribuì (erroneamente) a Cesare: un percorso che conduce attraverso nascite miracolose e ominose di uomini grandi, e che porta finalmente a capire perché Macduff sconfigge Macbeth, protetto dalla profezia delle streghe («te non ucciderà nato di donna»). Giacché, come lo stesso Macduff rivela allo sgomento re, «Nato non sono: strappato fui dal sen materno» (IV.9, nella versione di F.M. Piave per Verdi). Perché i modelli culturali romani hanno, appunto, una lunga storia.

Ulisse e le Sirene, Mosaico (particolare) proveniente da Dougga, III sec. d.C., Museo del Bardo, Tunisi

Piero Boitani, Miti riscritti alla Borges, “Il Sole 24 ore – Domenica”, 15 novembre 2015

Maurizio Bettini racconta la cultura greca affrontando problemi curiosi. Per esempio, cosa cantavano le sirene?

«Il mito», scrive uno dei maggiori poeti europei del Novecento, il portoghese Fernando Pessoa, «è il nulla che è tutto». L’affermazione suonerebbe come una generalizzazione senza senso se non fosse subito qualificata da due esempi importanti, uno di mitologia «teologica», l’altro di mitologia «eroico-storica». Il primo riguarda il sole, «mito brillante e muto» perché è «il corpo morto di Dio / vivente e nudo». L’astro rappresenta infatti da sempre la divinità: essa muore al tramonto e risorge all’alba. Il secondo esempio verte invece su Ulisse, il navigatore protagonista dell’Odissea, del canto XXVI dell’Inferno di Dante e di mille altre storie. Una leggenda diffusa nell’antichità e nel Medioevo e particolarmente rilevante per il Portogallo sostiene che, prima di scomparire nell’Atlantico, Ulisse abbia fondato Lisbona («Ulixabona»). Pessoa scrive: «Questi, che qui approdò, / fu per il non essere esistente. / Senza esistere ci bastò. / Per non essere venuto venne / e ci creò». Il discorso è paradossale e inclina alla metafisica, ma risulta chiaro nelle sue implicazioni: Ulisse è un personaggio mitico, dunque non è mai esistito nella realtà. È esistito, invece, come mito, sul piano del non essere. Tuttavia, il mito è sufficiente a dar forma al reale e soprattutto, nei miti di fondazione, a un’identità. Senza mai giungere in Portogallo, Ulisse ha “creato” i portoghesi, ha dato il suo volto a un popolo. «Così», conclude il poeta, «la leggenda si dipana / entrando nella realtà, / e a fecondarla decorre. / In basso la vita, metà / di nulla, muore».
Questo brano mi è tornato in mente leggendo il libro di Maurizio Bettini, Il grande racconto dei miti classici, nel quale l’autore narra tanti dei miti che il mondo greco ci ha lasciato, dall’inizio del cosmo a Teseo, da Medea a Pegaso, da Orfeo a Eracle, da Sisifo agli Argonauti. Trentotto capitoli, dove il filologo classico, che per Einaudi cura una serie intitolata Mithologica (nella quale hanno già trovato posto Sirene, Arianna, Circe, Edipo, Enea, Elena, Narciso), si lascia prendere dal gusto di narrare e incantare. Narra, come fa Ulisse ad Alcinoo delle proprie avventure nei Libri IX-XII dell’Odissea, «come un aedo», inanellando storia dopo storia, variante su variante, trama intrecciata con trama, quasi fosse un mitografo medievale, un ri-scrittore alla Borges. Racconta in maniera piana, comprensibile a tutti, tentando di restituirci quella che egli stesso chiama la «voce del mito»: una parola «che viaggia, che comunica dei racconti, degli intrecci, delle verità, e poi si perde nel vento» (mythos vuole dire racconto e parola allo stesso tempo). Racconta: talvolta si ferma a riflettere in guisa di antropologo o di storico della cultura, perché «il mito tramanda contemporaneamente una cultura, le sue regole e i suoi significati».
Insomma, si diverte e diverte. Per esempio, si domanda con l’imperatore Tiberio e con altri dopo di lui che cosa cantassero le Sirene (Omero non lo dice). Naturalmente, non può rispondere: allora, dopo aver descritto l’incanto che le Sirene dell’Odissea suscitano e la morte che esse nascondono (il brano è lì, sulla stessa pagina, a testimoniarlo), Bettini salta al viaggio degli Argonauti, durante il quale si svolge una gara di canto tra le Sirene stesse e Orfeo. Orfeo vince e le Sirene si gettano a capofitto dalla rupe. Le si ritrova però vivissime alla generazione successiva, perché uno degli Argonauti è Laerte, il padre di Ulisse, il quale dovrà a sua volta passare davanti alle Sirene e vorrà ascoltare il loro canto. Il mito opera corti circuiti del genere senza curarsi della cronologia o della geometria euclidea, e l’enigma del canto delle Sirene giunge intatto sino a noi. Qualcuno ha provato a rispondere alla domanda di Tiberio: Cicerone sostenne che le Sirene offrissero a Ulisse la conoscenza; Benjamin – glossando Il silenzio delle Sirene di Kafka – optava per la poesia, che resta muta dinanzi alla tecnica; Italo Calvino decide: le Sirene cantano «ancora l’Odissea, forse uguale a quella che stiamo leggendo, forse diversissima».
Il fascino di un libro architettato così, che si presenta a metà tra le Metamorfosi di Ovidio e le Genealogie degli dei pagani del Boccaccio, sarebbe quindi grande di per sé. Ma il volume possiede anche un’altra caratteristica che lo rende speciale: è abbondantemente, elegantemente, accuratamente illustrato, tanto da trasformarsi in libro dai mille colori e dai mille stili che parla anche agli occhi con forza travolgente. Il mito ha infatti esercitato sull’immaginazione degli artisti occidentali un’attrazione del tutto particolare, e ogni vaso arcaico, ogni scultura ellenistica o romana – migliaia di opere d’arte o umili oggetti quotidiani che sopravvivono a testimoniare, spesso in frammenti o rovine, l’età antica, si riverberano nelle miniature e nei capitelli medievali, negli affreschi del Rinascimento, nei quadri e nelle statue del Barocco, del Neoclassicismo, del Romanticismo, dell’Ottocento, giù giù sino ai film e ai fumetti del Novecento e del nostro postmodernismo. C’è un’Afrodite che nasce dalle acque sul cosiddetto Trono Ludovisi, del V secolo avanti Cristo, ma c’è anche una Venere sorgente dal mare, entro una conchiglia, da Pompei. Botticelli, Tiziano, Ingres, Picasso, Vania Elettra Tam: e poi Verushka in posa di Anadiomene nel 1968, e Kylie Minogue su conchiglia dorata durante l’Aphrodite Tour del 2010. Persino Chaucer, in pieno secolo XIV, presenta nella Casa della Fama Venere nuda sul grande mare. Se si sfogliano le centinaia di pagine che Joseph Reed ha compilato nel 1999 per la Oxford Guide to Classical Mythology in the Arts, 1300-1990s (e che elencano anche opere musicali) ci si fa un’idea di tale universo.
Vederlo raccontato e illustrato in un volume fa bene all’anima. Uno studioso del IV secolo della nostra era, Saturnino Secondo Salustio, sodale e collaboratore di quell’imperatore romano che i cristiani chiamarono l’Apostata, offre questa definizione: «Anche il mondo infatti può esser detto un mito, poiché in esso corpi e oggetti si manifestano, mentre le anime e le intelligenze si nascondono». Il mito imita l’attualità degli dèi, il mondo è la realtà degli dèi in atto, «allusione a quelle essenze»: perciò mito. Davvero il mito è il nulla che è tutto.
Maurizio Bettini, Il grande racconto dei miti classici, Il Mulino, Bologna, pagg. 504

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La magia del Ramo d’oro da Freud a Jim Morrison

G.M.W. Turner, The Golden Bough, 1834, London, Tate Gallery

Marino Niola, “La Repubblica”,  17 novembre 2015

Un secolo fa usciva il capolavoro di James Frazer che indagava sui riti e sulla forza della sovranità e che influenzò psicanalisi, filosofia, letteratura e cinema

Senza “Il ramo d’oro” di Frazer la cultura moderna non sarebbe la stessa. Quei dodici volumi, iniziati nel 1890 e terminati giusto un secolo fa, negli ultimi mesi del 1915, sono un fantastico viaggio attraverso mitologia e magia, credenze e rituali di tutti i tempi e di tutto il mondo, alla ricerca della sorgente delle nostre istituzioni politiche e religiose. Del filo evolutivo che unisce passato e futuro dell’uomo. Muovendosi arditamente tra i popoli antichi e quelli primitivi. E facendosi beffe dell’eurocentrismo della sua epoca. Il risultato è un monumentale compendio dell’antropologia evoluzionista. Uno strepitoso Grand Tour dell’immaginario che parte dall’Italia. Dalle sponde boscose del lago di Nemi, dove si trovava il tempio di Diana Nemorensis, la dea del bosco sacro. Proprio questo significa la parola latina “nemus”. A fondarlo era stato Oreste, fuggito dalla Grecia dopo aver ucciso la madre Clitemnestra. A custodirlo era il cosiddetto re nemorense, una singolare figura di sovrano e sacerdote, signore degli uomini ma anche della natura, della cui energia era il rappresentante terreno. Come del resto tutti gli antichi sovrani, il cui ruolo aveva una potenza misteriosamente magnetica, numinosa e magica insieme.

Lago di Nemi, Roma

Insomma una carica politica, ma anche una carica elettrica. Proprio per questo gli era permesso tutto tranne che mostrarsi debole, ammalato, invecchiato. Ecco perché il rituale del tempio obbligava il rex ad una prova di forza periodica. Un duello mortale con un pretendente al sacerdozio. Era necessario però che lo sfidante entrasse nell’area consacrata in una notte di tempesta, quando la natura è al massimo dello scatenamento, e strappasse un ramo dorato dall’albero sacro a Diana. Era questo il ramo d’oro. Lo stesso che Enea aveva impugnato durante la sua discesa agli inferi.
Il vincitore diventava il nuovo re della selva. Fino al prossimo duello. Una successione per mezzo della spada che mette a nudo le due metà del potere: eccezione e istituzione, forza e diritto, caos e ordine, legittimità e potenza. L’uccisione del re debole e sconfitto — che in molti popoli studiati da Frazer prende addirittura la forma di un regicidio di Stato — serve in realtà a preservare il ruolo del sovrano, l’uomo che rappresenta la collettività, dalla debolezza del corpo che lo incarna. Come dire che la capacità di difendersi e di offendere, di rendere funzionale la violenza, è la materia prima della leadership.
La grande lezione di Frazer sta nell’aver fatto affiorare, esempi alla mano, questa trama oscura della potenza che nessuna legittimazione è in grado di far sparire, né di razionalizzare. Quella che gli antichi chiamavano la Regola di Nemi è, insomma, la legge del più forte. O, come avrebbe detto Carl Schmitt, lo stato di eccezione che diventa norma. Col giovane che fa fuori il vecchio. È la cultura che imita la selezione naturale, trasformando la physis in polis.
Questa Bibbia dell’antropologia ha influenzato tutto il Novecento. Sigmund Freud ammetteva di dovere proprio a Frazer l’idea dell’uccisione del padre che sta al cuore edipico di Totem e tabù.
Un filosofo come Ernst Cassirer era decisamente ispirato dai venti animistici che soffiano sul Ramo d’oro quando scriveva la Filosofia delle forme simboliche. E Henri Bergson ci trovò una sorta di motore di ricerca per la teoria dello slancio vitale che è alla base della sua Évolution creatrice. Un poeta come Yeats cercava nello zibaldone frazeriano il filo che lo riconducesse alle matrici epiche della poesia. E David H. Lawrence, l’autore di L’amante di Lady Chatterley, dichiarava senza mezzi termini il suo debito verso il padre di tutti gli antropologi. Mentre Joseph Conrad scrive Cuore di tenebra ispirandosi in toto alla pagina frazeriana che racconta l’assassinio rituale del re africano di Chitombé. E, last but not least, La terra desolata di Thomas S. Eliot, il grande poema sulla crisi della civiltà occidentale, che si può considerare una vertiginosa variazione poetica sul Ramo. Con al centro la mitica figura del re pescatore, il sovrano morente la cui malattia contagia la terra trasformandola in una landa arida e senza vita.
Fino ad Apocalypse Now, il film che Francis Ford Coppola trasse dal capolavoro conradiano trasferendone la scena in Vietnam. E che costituisce un’autentica summa del frazerismo novecentesco. Una discesa nelle profondità dell’umano che mette insieme Conrad e l’Inferno di Dante, la Terra desolata di Eliot e la leggenda del Graal, fino alla cultura psichedelica degli anni Sessanta. E su tutti James George Frazer, vera chiave di volta del film. Addirittura dichiarata dal regista che inquadra due libri sul tavolo del colonnello Kurtz, il rex nemorensis dell’esercito americano, interpretato da Marlon Brando. Uno è il Ramo d’oro e l’altro è Dal rito al romanzo di Jessie Weston, a sua volta ispirata all’opera di Frazer.
Il regista tesse una tela di ragno che cattura il sentimento del tempo, i bagliori apocalittici che illuminano la conclusione del secolo breve, il tramonto di una storia esausta. In questo senso il colonnello Kurtz è due persone in una. Ha due corpi e due anime, proprio come gli antichi re divini di cui parla il Ramo d’oro. L’ufficiale, sfiancato dalla guerra, non rappresenta solo se stesso, ma anche la malattia contagiosa dell’Occidente imperialista, che sta trasformando il mondo in una terra desolata. L’ex soldato modello, che ormai prende ordini solo dalla giungla, si è trasformato in un signore della vegetazione e regna sulla foresta tra Vietnam e Cambogia, proprio come il re sacerdote regna sul bosco della dea cacciatrice. E come prescrive la Regola di Nemi, Kurtz va incontro al destino senza opporre resistenza. Del resto l’esecuzione, affidata al capitano Willard, ha le cadenze di un rito.
A confermarlo è la colonna sonora, con la voce di Jim Morrison che canta The End. La canzone parla di un uomo perso in una “roman wilderness of pain”, una desolata terra romana. E di un “ancient lake”, un lago antico. Come in un lampo si chiude un cerchio millenario. L’antico lago dei Doors e quello di Diana si rivelano una sola regione dell’anima.

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Perché i classici?

 

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Riscrivere i classici

From the repository of the Museum of Olympia. Corinthian style helmets that were dedicated to Zeus by warriors

Gli dei dell’Olimpo sono poco celesti. E forse i veri barbari siamo noi
Un’antichità fosca in “Le ateniesi” di Alessandro Barbero. Non è il solo caso

Daniele Giglioli, “Corriere della Sera – La Lettura”,  1 novembre 2015

Il classico è ciò che crediamo di sapere. «È un classico» si dice di qualcosa troppo noto, scontato, prevedibile, un’opera ma anche una circostanza, magari minima, tipo l’ennesimo ritardo di un treno o un guasto in metropolitana. Rispetto e noia, deferenza e sconforto. Chi ci libererà dei greci e dei romani?, si chiese sarcasticamente un poeta all’alba della Rivoluzione francese, quando l’antichità veniva sistematicamente saccheggiata per ricavarne pose di virtù repubblicana e odio per la tirannide (il pugnale di Bruto! il rigore di Licurgo! la congiura di Catilina!). Il mondo è vuoto dopo i romani, sospirava Saint-Just, l’Arcangelo del Terrore, in certi suoi appunti non destinati alla pubblicazione. Che la nostra modernità politica, nel momento in cui si sforzava di creare una situazione totalmente inedita, ricorresse al mondo classico per ricavarne esempi e insegnamenti, è un fenomeno di cui non bisognerebbe smettere troppo presto di stupirsi. Lo stupore è il miglior antidoto alla noia.
Questo per dire quanto stupore nasce in me quando non provo noia nel leggere, ai giorni nostri, l’ennesima riscrittura di qualche storia o mito classico. Passino i peplum, i kolossal come Il gladiatore, confezionati a fini di onesto intrattenimento. A stupirmi è chi lo fa sul serio e ci riesce, come per esempio Alessandro Barbero nel suo ultimo romanzo, Le ateniesi (Mondadori), ambientato ad Atene al tempo della guerra del Peloponneso, per metà smagliante cronaca della messa in scena della Lisistrata di Aristofane, irresistibile commedia in cui le donne stanche di guerra ricattano sessualmente i mariti negandogli le gioie del talamo per obbligarli a fare la pace, per metà cupa storia di violenza e stupro ai danni di due fanciulle libere ma povere per mano di tre arroganti ragazzotti aristocratici. L’Atene di Barbero non è quella di Pericle, o meglio non è quella che il luogo comune pretenderebbe che sia: è divisa, diffidente, violenta, tormentata, attraversata dal conflitto di classe e dalla lotta tra i sessi, esemplare più per i suoi aspetti sinistri che per quelli luminosi (tra cui Aristofane, a petto del quale tutti gli attuali vignettisti, comici e autori di satira possono andare a nascondersi). Ma soprattutto è strana e sorprendente, non contaminata dalla plumbea coltre di uniformità che porta a dire ma sì, è poi sempre la stessa storia, gli antichi erano proprio come noi.
Perché non è vero. Gli antichi erano diversi, meno familiari che estranei. Ciò che davvero conta è ciò che ci divide da loro. Niente li tradisce di più, niente li rende meno nutrienti della pigra retorica circa il fatto che sono «le nostre radici». Se è vero, si tratta di radici contorte.
Faccio un altro esempio: qualche anno fa, Baricco ha riscritto l’Iliade eliminando completamente la presenza degli dèi. Il risultato è alquanto dubbio, ma non per una supposta infedeltà all’originale. Con ogni storia ogni autore può fare ciò che vuole. Ma quella storia lì senza gli dèi non si capisce, e per ragioni non immediatamente ovvie. Il punto è che gli dèi di Omero sono fatui, superficiali, ridicoli, spregevoli; si mescolano alla tragedia degli uomini per capriccio, divertimento, puntiglio; cambiano casacca, tifano, intrigano, bisticciano come comari e la sera si ritrovano tutti a banchettare sull’Olimpo. È la loro miseria etica a far risaltare la grandezza, il coraggio, il dolore, l’eroismo degli uomini e delle donne mortali, che pagano di persona lo spettacolo offerto a quelle banderuole. La gloria umana rifulge nell’infamia degli dèi.
Nel primo testo scritto della cultura occidentale, là dove ci aspetteremmo di trovare i fondamenti della religione greca, vediamo invece un cielo che sarebbe più pietoso, e più dignitoso, se fosse vuoto. Gli dèi di Omero quando non fanno rabbia fanno ridere. Nell’Odissea non gli va molto meglio, e nell’Eneide a guardar bene nemmeno; con qualche azzardo si potrebbe sostenere che nell’intera tradizione epica il piano del divino non è quello più nobile e interessante (gli importa più di Dio o del suo orgoglio, a Orlando che muore a Roncisvalle? non sono più affascinanti i diavoli degli angeli in Tasso o in Milton?). Strano ma vero, verificabile ad apertura di pagina. Eliminarli significa privarsi non solo di un formidabile effetto di contrasto, ma anche di una stranezza, di una anomalia, di un punto cieco da cui c’è molto da imparare.
Ecco allora perché le riscritture del mito e dell’antico veramente riuscite sono quelle in cui a quel mondo viene restituita la sua opacità, la sua enigmaticità, la sua distanza, lo smarrimento che suscita più che la sua esemplarità vera o presunta. Capolavori come La morte di Virgilio di Hermann Broch, Le memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar, Giuliano di Gore Vidal o Il mondo estremo di Christoph Ransmayr (dove si evoca l’esilio del poeta Ovidio sul Mar Nero) non si presentano come il facile travestimento di verità sempre sapute ma come lo specchio oscuro in cui, attraverso ciò che non sappiamo di loro, intravediamo ciò che non sappiamo di noi. Non è la minor prova della genialità mitopoietica di Pasolini il fatto che la Grecia dei suoi film non sia quella apollinea delle cartoline, ma quella barbarica e crudele dei delitti e dei sacrifici umani. E quando il padre della psicoanalisi, Freud, ha ripreso in mano il mito di Edipo, non lo ha fatto per conciliare ma per turbare i sonni del suo secolo (prova ne è che in tanti se ne turbano ancora), così come continua a turbarci il Dioniso di Nietzsche.
Radici contorte. Enigmi più che soluzioni. Differenze che stimolano l’intelligenza e accendono l’immaginazione. È la cosa più preziosa che gli antichi hanno da insegnarci. Una lezione di alterità tanto più necessaria quanto più il mondo globalizzato sta diventando uno solo a prezzo di avvicinarci a velocità vertiginosa esseri umani e forme di vita molto difficilmente conciliabili con la nostra. Pensiamo davvero di affrontare la sfida del confronto con i migranti che si avviano a ripopolare l’Europa, oppure con l’India e con la Cina, raccontandogli qualche favola edificante sulla democrazia? Non converrà invece guardare dietro alla parola, chiedersi quando nasconde oltre e più di quanto dice? Capita spesso di pensare agli stranieri extraeuropei come a barbari i quali, si sa, non hanno ancora raggiunto «il nostro livello di sviluppo».
Miope strategia. Molto più utile esercitarsi a rovesciare la prospettiva immaginando gli antichi come dei barbari, degli stranieri tra noi. Riscoprire quanto siano barbare le nostre radici sarà forse inquietante, ma di certo non sarà noioso.

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Ode civile al latino, padre della politica

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Che cosa ereditiamo dalla lingua di Cicerone: il primato della parola, la centralità del tempo e la nobiltà dell’agire per il bene comune

Ivano Dionigi, “La Repubblica”,  31 ottobre 2015

Pubblichiamo parte della lezione di congedo pronunciata ieri sera a Bologna da Ivano Dionigi che dopo sei anni lascia la carica di rettore dell’università di Bologna. La lezione del latino è il titolo del suo intervento, pronunciato come saluto alla città. Oltreché all’università Dionigi è professore ordinario di letteratura latina e presidente della Pontificia Accademia della Latinità

Il latino mi ha insegnato che la parola, il “verbum”, è materia prima: come la pietra, il carbone, il ferro; alla parola tutto è possibile, ammoniva Gorgia: “spegnere la paura, eliminare la sofferenza, alimentare la gioia, accrescere la compassione”. La parola “educa”, “affascina”, “convince”: i tre compiti che le affida la retorica classica. Lingua in apparenza familiare, il latino è caratterizzato da parole cariche di una pluralità di sensi, come al centro di un campo magnetico: chi saprebbe tradurre con una parola sola voci come otium, dignitas, pietas?
Lingua duttile ma severa, impegnativa e impegnata, che determina le sorti della politica, della res publica: quando si affermano “i più bravi parlatori”, i comunicatori da quattro soldi, i demagoghi, allora è la rovina. Ce lo insegna Cicerone: «Quando vedo la crisi della nostra repubblica, constato che non piccola è la parte di rovina procurata dagli uomini più bravi a usare le parole (disertissimi homines)».
Il disertus, l’abile parlatore, contrapposto all’eloquens, “colui che parla bene, per bene, in modo etico”, distinto dal loquens, “colui che parla”: tutta la differenza — non solo linguistica ma anche etica e politica — sta in quel fonema e — che perfeziona e nobilita l’azione del parlare. Come vedere il grande nel piccolo: anche questo è un dono del latino.
Noi oggi abbiamo bisogno — non meno dell’ecologia ambientale – di una ecologia linguistica, che ci faccia riscoprire la differenza tra vocaboli e parole portatrici di senso e di verità, alle quali pertanto — al pari delle persone — non si può torcere il collo. Pensiamo alla parola “competere” che nella sua origine di cum-petere non ha nulla di sgomitante, muscolare, darwiniano, bensì significa “dirigersi insieme nella stessa direzione”, “correre insieme verso la stessa meta”. Una delle cause principali della volgarità attuale è l’incuria delle parole; e parlare scorrettamente — diceva Platone — non solo è una cosa brutta in sé, ma fa male anche all’anima. Noi scontiamo una quotidiana Babele linguistica dove le parole-vocabolo smarriscono la loro capacità e identità comunicativa. Abitudine antica, questa, se pensiamo all’atto di accusa di un personaggio dell’ Agricola di Tacito contro la voracità imperialistica dei Romani: «Il depredare, il massacrare e il rapinare con falsi nomi li chiamano “ impero” (imperium), e dove fanno il deserto lo chiamano “pace” (pax)».
Il latino mi ha insegnato la centralità del tempo. A Roma tutto è nel segno del “qui e ora” (hic et nunc) e “nel segno del tempo” (sub specie temporis)”: una temporalità che impronta l’arte nella sua cifra descrittiva, il diritto nella sua genesi ed evoluzione collettiva, la religione nel suo legame con i ritmi delle stagioni e con le tappe della vita, il destino stesso di Roma bipartito tra il prima e il dopo della sua fondazione (ante e post urbem conditam).
Ma è nella lingua che la dimensione del tempo risulta più evidente e convincente: lingua verbale, la latina, perché tutta incentrata sul verbo, «angelo del movimento che dà spinta alla frase», come lo definiva Baudelaire. Lo vediamo nella sintassi: la maledetta consecutio temporum di memoria ginnasiale non è forse la più conclamata applicazione di questa ferrea legge del tempo? D’altra parte, alla frase gerarchica di Cicerone, espressione e riflesso dell’equilibrata età repubblicana in cui i vari ordines si coniugavano in pur difficile convivenza, subentrerà la sententia di Seneca, vale a dire la frase breve, staccata, acuminata, tutta costruita su antitesi e simmetria: segno della frattura che si era creata con la fine della Repubblica.
Questo acuto senso del tempo era connaturato a un popolo che faceva della “tradizione” la propria religione principale: perché, secondo il felice aforisma di Gustav Mahler, «la tradizione è la salvaguardia del fuoco, non l’adorazione delle ceneri». Una civiltà, quella romana, che, grazie a questo culto e a questa forza del servare, rispetterà e assimilerà tutte le altre civiltà conquistate dalle aquile imperiali.
Noi siamo naturaliter storia e memoria, e natura non facit saltus.
Chi stacca la spina della storia e della memoria ha una sola alternativa: essere ignorante o suicida.
Il latino mi ha insegnato la nobiltà della politica. La lingua latina manifesta il carattere pragmatico di quel popolo che definiva la rivoluzione con res novae(“avvenimenti inauditi”) e la storia con res gestae (“opere compiute). Tra tutte le espressioni in cui ricorre la frequentissima e latinissima parola res, quella che mi ha dato sempre più a pensare è res publica: “la cosa pubblica, la proprietà comune, il patrimonio di tutti”.
Questa res publica esige come primo valore la virtus, che non significa “virtù”: significa “impegno”; quell’“impegno” che trova il suo esercizio più compiuto nel “governo della città” (gubernatio civitatis).
Roma segna inequivocabilmente il primato della politica sulla vita dell’individuo. L’uomo romano è prima di tutto cittadino, civis; il suo modello è Enea, il quale subordina e sacrifica le esigenze personali, l’amore per Didone, alla vocazione politica, la fondazione di Roma.
E questa virtus del civis verrà ricompensata, perché la politica rappresenta l’espressione più nobile dell’uomo. Lo apprendiamo nel ciceroniano Sogno di Scipione, dove si dice che a tutti coloro che avranno esercitato l’arte della politica a favore della patria e del bene comune è assicurato un posto in cielo.
Ma questo latino riguarda solo il filologo classico, o tutti noi?
Il latino non è né un reperto archeologico, né uno status symbol, né un mestiere per pochi sopravvissuti; e neppure una materia; il latino è un problema, in senso etimologico; è una sorta di “pietra di inciampo” che riguarda tutti noi: non solo perché matrice della nostra lingua, non solo perché segno della cultura della nostra Europa che ha ininterrottamente parlato latino fino a tutto l’Ottocento per il tramite della Chiesa, dell’Impero e della Scienza, ma anche perché strumento e veicolo della trasmissione e dell’eredità del sapere di Atene e Gerusalemme: della sapienza classica e giudaico-cristiana. Come dire: la lingua latina oggi non ci appartiene, ma noi apparteniamo ad essa.
De nobis fabula narratur: questo racconto parla di noi.

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Così vicina così lontana: ecco come l’arte antica diventa contemporanea

Jeff Koons, Gazing Ball (Barberini Faun), 2013

Salvatore Settis, “La Repubblica”,  16 ottobre 2015

Un estratto della lectio magistralis che Salvatore Settis ha tenuto a Fumane di Valpolicella in occasione del ritiro del premio Allegrini “L’arte di mostrar l’arte”.

Basta una sfera di vetro blu per trasformare un calco del Fauno Barberini (II secolo a.C.) in un’opera di Jeff Koons (2013)? Sì, a quel che pare, visto che il gesso (con la palla di vetro) è ora esposto a Palazzo Vecchio come opera d’arte contemporanea, con il titolo Gazing Ball; e quando in omaggio al pudore di un dignitario arabo lo si è voluto nascondere dietro un paravento, non è chiaro se l’impudico esibizionista di nudità fosse l’antico scultore ellenistico o la star della scena artistica di oggi. L’arte greco-romana è una presenza ossessiva nell’arte di questi anni: un altro calco dello stesso Fauno Barberini è stato vestito da hipster dal francese Léo Caillard, il Laocoonte è stato rivisitato e riproposto da sir Eduardo Paolozzi, da Richard Deacon, Patrick Alò, Marco Borgianni e tanti altri, fino alla mostra (in corso a Roma) Laocoonte e i suoi figli di Germano Serafini. Da Giulio Paolini a Oliver Laric, antiche figure di dei e di eroi popolano (spesso in gesso) mostre e musei di arte contemporanea, ed è forse il caso di chiedersi perché.
Come ha scritto Dieter Roelstraete, «un numero crescente di artisti di ogni età e formazione adotta espressioni retrospettive, storiografiche, dal documento di archivio allo scavo archeologico». Frugare nella storia estraendone “reperti”, ora con finti scavi o immaginando civiltà scomparse (come Anne e Patrick Poirier), ora ripescando frammenti del passato nei musei (come Fred Wilson, che ha coniato la formula “geologica” mining the museum) è oggi un aspetto essenziale della ricerca artistica: “l’artista come storico”, per usare il titolo di un famoso saggio di Mark Godfrey.
Eppure l’onda d’urto dell’arte contemporanea, travolgendo regole, abitudini, pratiche consolidate, sembrava aver innalzato un’impenetrabile barriera verso l’arte “antica”, confinandola nel retrobottega della memoria in nome di un presente che sempre si rinnova, ma non sedimenta, non viene da lontano, né accetta di farsi esso stesso “passato” col trascorrere degli anni: o è presente, o non è. Anche (forse soprattutto) gli studiosi di arte antica sono dominati da questo paradigma della frattura, della discontinuità, della grande muraglia fra “antico” e “contemporaneo”: è per questo che spesso, per rivitalizzare un museo storico attraendo visitatori, lo si riduce a mera cornice di mostre di artisti d’oggi, quasi che da essi debba venire non il confronto né lo stimolo, ma la vera, l’unica giustificazione culturale e politica dell’istituzione-museo.
Rarissimo è che avvenga il contrario, e cioè una mostra di arte antica in un contesto contemporaneo: perciò subito mi attrasse e mi convinse la proposta di progettare una mostra di arte classica per l’apertura della Fondazione Prada, nei nuovi spazi progettati da Rem Koolhaas. Scegliere ed esporre opere d’arte greca e romana in un contesto architettonico di fortissimo carattere, con un duro contrasto fra pieni e vuoti, fra luce naturale e pareti cieche, fra argentee pareti “industriali” di schiuma di alluminio e un pavimento di luminoso travertino iraniano, era una bella sfida, ma non bastava. Era necessario tematizzare l’arte classica, evitando la trappola di un più o meno giustificato “parallelo” con opere contemporanee (come troppo spesso si fa, invitando artisti d’oggi a “confrontarsi” con l’arte del passato).
L’arte classica doveva esser presentata rigorosamente per quel che è, “da sola”, ma scegliendone un aspetto che risuonasse sia con la nuovissima architettura che con le collezioni di arte contemporanea della Fondazione Prada esposte non lontano.
Perciò Serial Classic: e cioè una prospettiva sull’arte greco-romana che ne sottolinea la serialità, la tensione verso il multiplo, la ripetizione, la copia, e che proprio in questa sua intima natura prova a indicare la vera radice del suo esser “classica” (cioè modellizzabile). Sommuovendo il pavimento come in un movimento tellurico, ritagliandovi “isole” in cui le lastre di travertino, innalzate sopra spessori di acrilico, si squarciavano ad accogliere le sculture antiche (evitando l’uso di piedistalli), Koolhaas ha interpretato e moltiplicato la forza espressiva di quelle statue. Ci ha aiutato a mostrare che l’arte classica può non essere irrigidita in un astratto culto delle forme; che ogni arte può essere contemporanea.

Bar Luce, Designed by Wes Anderson, Fondazione Prada Milano, 2015. Foto: Attilio Maranzano. Courtesy Fondazione Prada

Bar Luce, Designed by Wes Anderson, Fondazione Prada Milano, 2015. Foto: Attilio Maranzano. Courtesy Fondazione Prada

 

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Orazione per Cicerone, padre nobile della politica

La cosiddetta "tomba di Cicerone", Formia

La cosiddetta “tomba di Cicerone”, Formia

Con lo scrittore Robert Harris alla scoperta dei luoghi legati al grande console: “Ho scritto una trilogia su di lui e sulla Roma antica perché incarnano il primato della vita pubblica”
“Come diceva Flaubert, la Repubblica prima di Augusto è unica: senza più dei, senza ancora Cristo, solo l’uomo”

Elena Stancanelli, “La Repubblica”,  13 ottobre 2015

Esce in tutto il mondo “Dictator”, ultimo volume della trilogia su Cicerone. L’autore, Robert Harris, ex giornalista politico della Bbc divenuto scrittore di grandissimo successo, ci accompagna per l’occasione in una passeggiata per luoghi ciceroniani. La prima tappa è un muro, nascosto nel giardino di una casa privata. Quello che resta della villa dove il più celebre degli oratori ha vissuto a lungo. Da qui ha scritto molte lettere all’amico Attico: «Sono servite come fonti per il mio lavoro», spiega Harris. «Ho impiegato dodici anni per concludere la trilogia, e i primi due solo per raccogliere documenti». Racconta del suo metodo di lavoro e dei confini morali di uno scrittore: «Come giornalista so di non dover mai scrivere una cosa che sia evidentemente falsa. Ma sono un romanziere, e ho anche il dovere di inventare: le conversazioni, le motivazioni politiche, certi piccoli segreti della vita privata delle persone. Devo fare ipotesi, speculare. E soprattutto tagliare, tralasciare, eliminare. Lì, nel montaggio, si stabilisce il confine tra realtà e finzione. La diversa velocità nel dipanarsi degli eventi, la progressione, l’incalzare. Si può dire che il mio lavoro consiste nel fare tutto ciò che è vietato agli storici e gli studiosi». La trilogia, nella finzione letteraria, ricalca una biografia di Cicerone scritta da Tirone, schiavo, segretario, e infine appunto di lui biografo, che nella realtà è andata perduta: «Tirone non avrebbe mai scritto un libro come questo. Il mio è decisamente un libro del XXI secolo, che tiene conto di Freud, della nostra storia di quello che abbiamo visto accadere».
La nostra seconda stazione è una cisterna. Camminiamo su un corridoio di legno sospeso sopra l’acqua: «Credo sia sbagliato — spiega Harris — pensare che la fiction storica sia una fuga dalla realtà contemporanea. Ho sempre affrontato la narrazione come se stessi parlando del presente. Qualche anno fa, a Pompei, sono rimasto colpito dall’abilità, l’intelligenza tecnologica degli acquedotti romani. L’uso dell’acqua mi ha fatto riflettere sulla raffinatezza di quella civiltà, l’amore per il lusso. E attraverso tutto questo sono arrivato a Cicerone».
Harris è autore di romanzi come Enigma, Ghostwriter, L’ufficiale e la spia, che ha per tema l’Affare Dreyfus. La politica e la storia sono lo sfondo di tutte le storie che racconta. La politica, la più nobile delle vocazioni, dice Cicerone. «Vede, io sono stato un giornalista politico, affascinato dai meccanismi del potere. E la Roma classica è la culla della politica, il luogo dove la politica moderna è iniziata. Senato, campagne elettorali, tribunali. C’è una riconoscibilità delle istituzioni e quindi dei simboli. Potrebbe essere l’Italia, Londra, Washington nello stesso modo».
«Quando gli dei non esistevano più e il Cristo non esisteva ancora, c’è stato, a partire da Cicerone e fino a Marco Aurelio, un momento unico in cui è esistito soltanto l’uomo. In nessun altro momento trovo quella particolare grandezza», dice Flaubert in una lettera messa in epigrafe al libro di Harris: «Il fatto che Cicerone – racconta lui – fosse stato obbligato a ritirarsi dalla politica e a darsi alla filosofia alla fine della sua vita mi sembrava un argomento davvero difficile da affrontare, per me come scrittore e soprattutto per il pubblico. Ma come spesso accade quando tu pensi una cosa succede il contrario. Alla fine la filosofia è diventata addirittura la chiave della trilogia. Cicerone aveva moltissime paure: non è mai entrato nell’esercito, temeva i viaggi per mare, non frequentava neanche i ludes, per paura. Vedeva pericoli dappertutto e ha usato la filosofia come strumento per riuscire a sgominarli. Per lui è stata un’enorme vittoria, paragonabile a quella ottenuta da Cesare in Gallia. Io spero che questo sia comprensibile a chi legge il libro. L’ultima battuta, “tutto ciò che resta di noi è quello che è stato scritto”, è la più importante. Da queste parole è nato l’Occidente, il Rinascimento e la modernità per come noi la conosciamo».
Cicerone dunque era un intellettuale prestato alla politica. Una categoria che si è estinta: «È vero, i nostri politici non sono più intellettuali, ma degli amministratori. Mancano i grandi discorsi, i valori, gli ideali. La politica è diventata noiosa, e non è più attraente per una persona intelligente. Ma io, che sono comunque innamorato della politica, credo che riuscirà ad attrarre di nuovo le persone. Deve farlo. Nella situazione attuale, con problemi giganteschi e inediti, c’è bisogno di intelligenza, eloquenza, di prendere in mano le redini. Che venga un uomo, o una donna, dovrà avere il fuoco, che possa alimentare intellettualmente questo dibattito. Dopo trent’anni di guerra economica, ci troviamo di fronte di nuovo a problemi etici molto seri. Perché, attenzione: quando la politica perde terreno, arrivano i demagoghi ». La fede nella ragione, l’Illuminismo, il logos. Qualcosa che, di nuovo in questo nostro tempo, rischia di essere travolto: «Credo che se Cicerone vivesse oggi, sarebbe molto sorpreso dalla durezza e l’irrazionalità della società odierna. Rispetto all’Is, per esempio, credo che avrebbe pensato beh, questa è una battaglia che vale la pensa di combattere. Sono in discussione tutti i valori che lui sosteneva e cercava di infondere nella gente. Non è un caso che siano state fatte esplodere le vestigia della società romana a Palmira. È in atto una lotta tra la civiltà che si è sviluppata a partire dalla Roma antica e l’anti-razionalismo di certo fondamentalismo religioso islamico. Credo che ci sia molto bisogno di studiare e sostenere i valori di Cicerone, oggi più che mai, anche dal punto di vista politico».
L’ultimo posto che visitiamo in questa camminata è la tomba di Cicerone. Nel 43 a.C. fu ucciso da un sicario di Marco Antonio, poco lontano dal luogo dove adesso è sepolto. Noi siamo ossessionati dalla perdita della memoria, siamo certi di essere vicini a un’apocalisse dell’intelligenza verticale, stratificata. Che internet sia la nostra memoria artificiale, che finiremo per depositare lì tutti i nostri dati. Questo, forse, ci impedisce una morbidezza nell’accoglienza di culture diverse, una morbidezza che, forse, è stata la fortuna dell’impero romano? «Ma anche i romani erano attentissimi alla storia, e avevano il culto degli antenati. Davano molto importanza ai padri e ai nonni, ai Lari e Penati. Ma se noi non permetteremo ai nostri figli di crescere con delle prospettive per il futuro, il passato sarà una maledizione. Ed è vero che uno dei pilastri della società romana è stata l’ambizione degli immigrati. Così come è accaduto negli Stati Uniti. Roma e gli Usa sono paesi costruiti su un corpus di leggi che, almeno sulla carta, garantisce a tutti gli stessi diritti. Cesare dette ai Galli e agli Spagnoli la possibilità di diventare senatori. L’Europa non dovrà dimenticare che gli uomini che hanno rischiato tutto per venire qui, sono una risorsa. Altrimenti rischia di rimanere indietro».

La trilogia di Robert Harris: Imperium (2006); Conspirata (2010); Dictator (2015)

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Il British celebra i celti, una civiltà fantasy

Anne-Louis Girodet (1767-1824), Ossian riceve gli spiriti degli eroi francesi caduti, 1802, Rueil, Musée National du Château de Malmaison

Anne-Louis Girodet (1767-1824), Ossian riceve gli spiriti degli eroi francesi caduti, 1802, Rueil, Musée National du Château de Malmaison

Nella straordinaria mostra londinese la genesi del mito che raccolse diverse genti nordiche sotto uno stesso nome. Fu l’arte il vero fattore comune unificante: lo stilema della linea curva attraverserà la cultura europea fino al Liberty

Masolino D’Amico, “La Stampa”, 12 ottobre 2015

Un grande dipinto di Anne-Louis Girodet datato 1802, custodito nel castello della Malmaison e intitolato Ossian che accoglie gli spiriti degli eroi francesi, mostra appunto il famoso bardo celtico, cieco come Omero, che accoglie in una specie di Walhalla alcuni giovani generali in divisa napoleonica, si immagina caduti sul campo. Non per nulla infatti l’Empereur era un grande ammiratore di Ossian, il volume dei cui canti si portò dietro nelle campagne di Egitto e di Siria. Peccato però che Ossian fosse una totale invenzione dello scozzese James Macpherson, che a partire dal 1760 lo aveva pubblicato, fingendo di averlo tradotto dal gaelico, sulla scia di una voga iniziata poco prima. A quell’epoca la parola stessa «celt» era appena tornata in circolazione, dopo più di un millennio di oblio. Ma chi erano stati, poi, questi celti? Audacemente la splendida mostra Celts and their Identity, testè inaugurata al British Museum, mette in discussione tutto quanto credevamo di sapere sulla mitica nazione che, si era arrivati a pensare, aveva occupato una enorme distesa dell’Europa centrale più le isole britanniche e la penisola iberica.


Questa idea cominciò a prendere piede agli inizi del Settecento, quando un linguista, un monaco bretone chiamato Paul-Yves Pezron, attribuì un idioma comune scomparso a una vasta popolazione, scomparsa anch’essa, che identificò con i Celti nominati da Giulio Cesare. In seguito antiquari si sbizzarrirono a trovare tracce del passato «celtico», soprattutto in Inghilterra, Scozia e Irlanda, e a quei «celti» attribuirono senza esitazioni costruzioni di pietra come Stonehenge e affini, in realtà appartenenti a una lontanissima preistoria. I greci e i romani avevano chiamato genericamente «celti» i nordici. Il primo a fare una distinzione fu Giulio Cesare nel famoso esordio del De Bello Gallico, dove afferma che la Gallia è divisa in tre parti, abitate rispettivamente dagli Aquitani, dai Belgi, e dai Celti (questi, nella zona tra il Rodano e la Garonna), «che noialtri chiamiamo Galli». Quindi i celti propriamente detti erano solo una tribù della Gallia.


A Nord della Manica nessuno parlò mai di celti, certo non gli interessati, che si chiamavano Britanni, Iberni, Pitti, Iceni e via dicendo. Nella prima sala la mostra mette a confronto due immagini, una convenzionale per i grecoromani, e una autentica: quella di marmo, celeberrima, del cosiddetto galata (ossia, gallo) morente ai Musei Capitolini, replica di una statua greca del 200 a.C. – un guerriero completamente nudo, con le sue armi sul terreno -; e la statua in arenaria, questa venuta dalla Germania, di un altro guerriero «celtico», ritto in piedi con tanto di armatura (che i «celti» combattessero nudi era una fiaba che durò fino ai contatti diretti) e di elmo cerimoniale. Esponenti di due scuole artistiche diversissime, raffinatamente realista la statua greca, grezza, stilizzata e ricca di simboli quella germanica, le due effigi hanno peraltro un significativo tratto in comune: entrambe portano al collo una torque, il collare caratteristico di tutte le popolazioni nordiche. E qui la mostra dà da pensare. Pur notando fondamentali differenze tra etnie – pur riconoscendo che non si può parlare di una comunità «celtica» tra popolazioni che come lo stesso Cesare dice erano divise da lingua, leggi, istituzioni – salta all’occhio come tutti i manufatti (armi, gioielli, utensili, anche un carro) scavati in aree che vanno dal Portogallo alla Danimarca e risalenti a epoche dall’età del ferro al basso Medioevo abbiano in comune una fondamentale omogeneità di stilemi artistici.

The Great Torc from Snettisham. Iron Age, about 75 BC. Found at Ken Hill, Snettisham, Norfolk, England [Credit: © The British Museum]

The Great Torc from Snettisham. Iron Age, about 75 BC. Found at Ken Hill, Snettisham, Norfolk, England [Credit: © The British Museum]

In tutta la sterminata area non-classica domina per secoli e secoli, nella decorazione e nella concezione stessa degli oggetti, la linea curva, secondo una stilizzazione sinuosa che ha varie evoluzioni ma che rimane fondamentalmente coerente col proprio principio, e che dopo avere vivacchiato semi-sommersa per secoli sarà ufficialmente adottata dal gusto occidentale. Questo avviene con l’Art Nouveau, movimento preceduto proprio dalla scoperta e dall’imitazione dei gioielli «celtici» trovati in sepolture irlandesi e riprodotti dai gioiellieri ottocenteschi. Qui sono esposte spille rotonde e piatte, simili a quelle tornate di moda con la stagione dei figli dei fiori, molto amate dalla regina Vittoria che ne indossò delle repliche. E’ impressionante, poi, la diffusione della surricordata torque, quel collare ad anello che non si chiude, di metalli intrecciati, talvolta di squisita esecuzione. Se ne trovano campioni dappertutto, con variazioni infinite; qui ce n’è persino una d’argento, con alle estremità due teste di toro entrambe munite di torque a loro volta, pesante quasi sette chili, e certo di uso cerimoniale.
La passione per la linea sinuosa continuò quando l’Irlanda fu evangelizzata nel settimo e ottavo secolo, e la caratteristica spirale degli oggetti artistici «celtici» continuò nella pazientissima, complicatissima decorazione dei codici miniati, di cui qui si ammirano splendidi esemplari, e delle croci celtiche in pietra con motivi rotondeggianti, erette in Scozia e in Irlanda. I ritrovamenti infiammarono la fantasia dei romantici, donde la leggenda di una fiera popolazione alle origini dei britanni ma non solo, vedi i quadri «pompier» con druidi e guerrieri dagli elmi bicornuti. A questa risalgono i miti cui minoranze un po’ dappertutto, Padania non esclusa, si aggrappano oggi per rivendicare, a volte aggressivamente, una identità. Si chiude con la chincaglieria di tipo celtico offerta nei negozi di souvenir, con i fumetti di Asterix, con la maglia bianca e verde dei Celtics, squadra di football dei cattolici di Glasgow.

Lo scudo di Battersea, scudo cerimoniale celtico, ritrovato nel 1857 nelle acque del Tamigi e risalente all'età del Bronzo, London, British Museum

Lo scudo di Battersea.  Scudo cerimoniale celtico ritrovato nel 1857 nelle acque del Tamigi e risalente all’età del Bronzo, London, British Museum

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