Se l’ultima rivoluzione a scuola è la fuga da Tacito e Cicerone.

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Cinque anni dopo la riforma degli indirizzi crollano gli iscritti ai licei.

E lo studio del latino

Stefano Bartezzaghi, “La Repubblica”, 30 settembre 2015

SUNT lacrimae rerum o Sic transit gloria mundi? Ognuno avrà il suo modo per salutare la notizia che dopo sei anni la riforma Gelmini ha assottigliato il novero degli studenti che si avvalgono dell’insegnamento del latino. Gli iscritti al liceo classico, dall’anno scolastico 2009/1010, si sono quasi dimezzati, dai 273 mila di allora ai 150 mila e rotti di oggi. Negli altri licei le ore di latino si sono ridotte, dove non sono scomparse, e alla fine dei conti 181mila studenti liceali, il 16 per cento, si sono del tutto delatinizzati, mentre un’altra buona quota studierà il latino per meno ore di prima (non raggiungendo così la competenza necessaria a studiare testi non elementari).
Come ha segnalato in un commento il latinista Maurizio Bettini, la questione non riguarda solo i programmi scolastici, né solo il latino. Investe i metodi di insegnamento e, alla fine dei conti, la considerazione che un’intera cultura ha dei suo passato. Dal punto di vista di un adolescente, la sostanziale abolizione del latino non è poi molto diversa da quella della naja. Un parere un poco meno interessato, e acerbo, trova invece che ci sia qualcosa che va al di là dell’onerosa necessità di imparare rosa rosae, o il presentat’arm.
I programmi scolastici sono, infatti, un’immagine di quello che una cultura vuole sia trasmesso di sé, del modo in cui intende tramandarsi e, certo, trasformarsi. L’idea che la scuola fornisca sapere utili è solo apparentemente ragionevole: dovrebbe allora insegnare a sostituire pneumatici forati e a ripristinare collegamenti internet interrotti; la scuola italiana, in particolare, dovrebbe concentrarsi su materie come “Contenimento dei danni da alluvione”, “Principi di modulistica universale” o “Comparatistica dei contratti per servizi telefonici, televisivi e telematici”, perché i diplomati sappiano come cavarsela nelle più frequenti evenienze della vita. Non solo il latino mala quasi totalità delle altre materie liceali hanno scarso impatto sulle abilità, le cosiddette “competenze”, del futuro cittadino. Il De rerum natura non aiuta a capire se il proprio computer ha beccato un virus. Ma mentre i saperi tecnici corrispondono a professioni e servizi presenti sul territorio, la cultura cosiddetta generale è materia scolastica oppure, semplicemente, non è. Siamo pronti a far fuori il latino non dalla scuola bensì dalla cultura italiana?
Non è una domanda retorica: già un medio diplomato liceale sa poco o nulla di storia dell’arte, nulla di musica, pochissimo di geografia e di cultura ambientale; tutte lacune che non paiono insignificanti, per un Paese la cui vocazione turistica e culturale viene retoricamente evocata ogni volta che appaia conveniente. Togliamo anche il latino, così avremo presto il tempo di farci venire dubbi anche sulla filosofia, sulla storia, sulla letteratura e, attenzione, biologia, chimica, fisica e persino matematica. Si fa certamente meno fatica a defalcare interi pezzi di insostituibile cultura, se non civiltà, nazionale che non a rinnovarne l’insegnamento, adattandolo per contenuti e modalità alle esigenze contemporanee. Sarebbe quest’ultima, la sfida più appassionante: come insegnare il latino in modo che il suo insegnamento tramandi anche le ragioni della sua necessità e il possibile godimento della sua bellezza.
Detto questo, è anche molto chiaro che il problema della scuola non è solo un problema di formazione, di istruzione o, gli Dèi ce ne scampino, di “educazione”: non si tratta cioè di costruire nuovi stampini in cui riversare le duttili coscienze, e ignoranze, dei nostri piccoli. I nuovi media, il crollo delle strutture di mediazione, la società dello spettacolo e le conseguenze sociali e psichiche della globalizzazione impongono di considerare problemi oramai neppure più inediti: il perduto primato della lettura e della parola scritta, il perduto prestigio dei titoli di studio, il perduto carisma di strutture disciplinari quando non repressive, come la vecchia (a volte più che buona) scuola. Già gli standard degli anni Settanta e Ottanta del Novecento appaiono irraggiungibili. Ma anziché abolire le materie occorrerebbe cambiare le forme dell’apprendimento scolastico, programmi di studio e metodi di verifica. Sarebbe questo l’unico modo di preservare quanto di più italiano, altrove irripetibile, possa essere trasmesso alle generazioni a venire: una cultura, ossia l’unica identità che possiamo dirci certi di avere, o aver avuto.

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Quando si poteva ridere degli Dei

Maurizio Bettini, “La Repubblica”, 23 settembre 2015

I travestimenti di Dioniso, i tradimenti di Afrodite, i riti e le commedie. Così gli antichi si prendevano gioco dei divino

Esistono religioni in cui ridere della divinità è possibile anche da parte di coloro che, contemporaneamente, questa stessa divinità la venerano: e ciò è considerato perfettamente “naturale”. Solo la nostra lunga, ben più che millenaria assuefazione ai quadri mentali delle religioni monoteistiche, fa sì che la possibilità di ridere della divinità ci sembri incompatibile con la pratica religiosa – tanto che, per poterlo fare, si deve necessariamente essere dei non credenti, persone che alla religione guardano da fuori. Tutto al contrario, esistono religioni in cui ridere degli dèi è stata ed ancora è pratica comune.
È quello che accadeva, per esempio, presso i Krachi, una popolazione della zona del Volta, in Africa, oggi parte dello stato del Ghana, nei cui racconti trovano posto una divinità che si allontana dagli uomini perché ogni mattino una vecchia la colpisce col pestello; o addirittura taglia un pezzetto del suo corpo per metterlo nella zuppa. A questo proposito Italo Calvino si domandava se «già in origine le religioni di questi popoli» non fossero «imbevute di realismo e di autoironia». Ma anche senza uscire dal nostro ristretto orizzonte geografico, ossia l’Europa, basterà ricordare che anche la cultura antica, quella propria dei Greci e dei Romani, ammetteva tranquillamente la possibilità di ridere della divinità.
Il fatto è che troppo spesso noi giudichiamo naturali, ossia propri della natura umana, abitudini e comportamenti che sono invece costruzioni culturali: tant’è vero che basta voltare pagina, nel libro delle culture, per scoprire che altri, diversi da noi, hanno avuto e hanno comportamenti diversi da quelli che noi riteniamo imposti direttamente dalla natura. Ed è questo il caso di quelle culture, come le antiche, in cui si poteva ridere degli dèi.
Siamo ad Atene, nel 405 a.C., in piena guerra del Peloponneso, un periodo particolarmente drammatico per la città. Per l’esattezza ci troviamo fra i mesi di gennaio e febbraio, giorni in cui si celebravano le Lenee, una festa dedicata a Dioniso (con l’epiteto di Leneo) in cui si svolgevano importanti agoni teatrali. E questo il momento in cui Aristofane mette in scena le Rane, una delle sue commedie più celebri. La trama è la seguente. Accompagnato da un servo, Xanthias, il dio Dioniso decide di scendere all’Ade per riportare in vita il poeta Euripide, di cui è un ammiratore. Si tratta di un viaggio non privo di rischi, ragion per cui il dio decide di assumere l’identità dell’unico personaggio che, da vivo, è stato capace non solo di scendere all’Ade, ma anche di uscirne: ossia Eracle. Dioniso indossa dunque la pelle di leone, tipica dell’eroe, ne impugna la celebre clava, e così travestito si mette in cammino. La prima tappa è costituita, per l’appunto, da una visita a Eracle. Il quale però, vedendo Dioniso con indosso i suoi tipici attributi, non può far a meno di notare che, da sotto la gloriosa leonté, spunta il bordo di una tunica gialla, tipicamente femminile; e che la terribile clava si accompagna a una calzatura dal tacco alto, anch’essa femminile. «Non riesco a non ridere», commenta Eracle vedendo Dioniso combinato così. E con queste parole siamo già entrati nel nostro tema: ridere degli dèi.
Non si tratta però solo di Aristofane: l’uso di ridere degli dèi in Grecia è presente già a partire da Omero. Molti ricorderanno la celebre scena, narrata nell’Odissea, in cui Ares fa all’amore con Afrodite, che è presentata come sposa di Efesto. Ma il fabbro divino si è accorto del tradimento, per questo imprigiona i due amanti in una rete infrangibile – di quelle che solo lui sa costruire – e li espone al ludibrio delle altre divinità (Odissea 8, vv. 306 e ss.): «Padre Zeus e voi altri beati dèi eterni, venite a vedere l’azione ridicola e intollerabile, come sempre mi oltraggia Afrodite figlia di Zeus, me che sono zoppo, e invece ama Ares inviso e funesto, perché lui è bello e veloce, mentre io sono storpio». Ares e Afrodite, goffi amanti esposti al ludibrio degli altri dèi, sono personaggi ridicoli. Ridono gli dèi di questa scena, ma insieme agli dèi dell’Olimpo ridono anche i lettori dell’Odissea.
È un fatto che il politeismo antico accetta una pratica – ridere della divinità – che stupisce (quando non indigna) noi uomini di oggi, islamici, cristiani o anche laici che della divinità, anche se le siamo estranei, abbiamo comunque ereditato l’immagine che per secoli e secoli ne hanno dato le religioni monoteiste. Ora, se si guarda bene come funziona le religione antica, si vede che anche con il dio si possono stabilire praticamente tutte le relazioni che sono attive anche fra gli uomini.
Con la divinità si può comunicare attraverso la preghiera; l’offerta di frutti o il sacrificio di animali – ossia doni di carattere molto concreto – costituiscono una forma di omaggio ma anche di scambio, servono a stabilire amicizie e alleanze con la divinità; ancora, gli dèi antichi non sono solo tanti e molteplici, ma sono divinità presenti, lo sono nei templi della città, in quelli sparsi sul territorio, nelle case dei cittadini, che li onorano con il culto domestico, le loro immagini sono ovunque e di ogni forma. «Tutto è pieno di dèi», diceva Talete, la loro presenza fra i mortali è diffusa è continua. Neppure la natura degli dèi, se ci si pensa bene, è radicalmente diversa da quella degli uomini: a differenza di questi essi sono esseri immortali, è vero, ma entrambe le stirpi, quella divina e quella umana, hanno comunque una stessa origine, tutte e due provengono da Gaia, la Terra. Gli dèi antichi sono non solo vicini agli uomini, sono soprattutto “partner” dei mortali, esseri potenti e immortali che però, a dispetto di ciò, possono anche porsi “in relazione” con gli umani sotto molteplici punti di vista. Ecco perché si può anche ridere di loro: allo stesso modo in cui si può averli in casa propria, proporre loro scambi offrendo frutti o animali, combatterli, amarli, sognarli. Perché ridere non è diverso da tutto il resto: prendersi gioco di qualcuno fa parte dell’intero bouquet di relazioni che gli uomini stabiliscono fra loro.
A questo punto non ci resta che concludere con un breve parallelo fra il modo in cui gli antichi hanno rappresentato i loro dèi e quello in cui le religioni dette monoteistiche si rappresentano invece la propria divinità. Lasciamo da parte il cristianesimo, che si è costruito sul racconto di un Dio che si è fatto uomo per essere ucciso e così redimere i peccati del mondo: una religione come questa, che si fonda sulla passione e la morte del figlio di Dio, si oppone costituzionalmente alla possibilità di ridere. Quanto al Dio ebraico e islamico – ma questo vale anche per colui che i Cristiani chiamano Dio Padre – a differenza delle divinità antiche questa non solo è unica, ma è soprattutto lontana: è un dio che, in quanto costituisce l’origine di tutto ciò che esiste, ed è egli stesso il Tutto – increato ed eterno, infinito, assoluto – per lo stesso motivo è anche remoto, inafferrabile negli spazi siderali che costituiscono solo una particella della sua immensità.
Con Lui non si interagisce offrendogli doni concreti, ma gli si rivolgono solo offerte metaforiche e spirituali. Di lui non esistono immagini, la sua è una presenza tanto totale quanto astratta, anzi, astratta proprio perché totale. L’unica relazione che con lui si può avere è di totale sottomissione, di piena accettazione ai suol voleri, l’esecuzione della sua volontà in un progetto che è addirittura cosmico e, come tale, va ben oltre ciò che riguarda la minima presenza dei singoli uomini. Come si potrebbe ridere di una divinità come questa?

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L’avventura di Alessandro Magno spezzata da una morte misteriosa

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Travolti i Persiani, il condottiero macedone sognava l’impero universale
E si comportava sempre più da monarca assoluto. Forse fu avvelenato

Eva Cantarella, “Corriere della Sera”, 3 settembre 2015

A Nord Est della penisola ellenica si estendeva la Macedonia, una regione montagnosa abitata da una popolazione in parte di stirpe greca, governata da un re dai poteri molto diversi da quelli dispotici e assoluti dei sovrani orientali. Attorno al re stava un’aristocrazia guerriera, dalle cui file il monarca proveniva, che grazie al continuo contatto con i Greci ne aveva assunto usi e costumi. Nel V secolo a.C. la capitale del regno, Pella, era una città culturalmente importante, frequentata da molti intellettuali greci. Ma la grande svolta nella storia della Macedonia ebbe luogo nel corso del IV secolo: mentre le poleis greche si logoravano in interminabili guerre, il re Filippo II, che coltivava da tempo un progetto di espansione territoriale, approfittò di una lite tra le rissose città e, affermando strategicamente il carattere greco del proprio regno, scese con le sue truppe nel territorio, presentandosi come alleato e pacificatore.
Comprensibilmente, questo destò non poche preoccupazioni ad Atene, dove si fronteggiavano due tendenze: da un canto i pacifisti filomacedoni (tra cui l’oratore Eschine), dall’altro i radicali guidati da Demostene, che aveva lucidamente intuito che una vittoria di Filippo avrebbe rappresentato, oltre alla fine di Atene, anche quella della civiltà della polis . Ma nonostante l’alleanza con Tebe nel 338, l’esercito greco fu sconfitto nella battaglia di Cheronea. Filippo, padrone della Grecia, annunziò un grande spedizione contro la Persia, ma nel 336 venne assassinato, e il titolo regale passò a suo figlio Alessandro, allora ventenne.
Dotato di forte carattere, di grande intelligenza e di un indiscutibile carisma, Alessandro si era formato alla scuola di Aristotele, che il padre aveva voluto a Pella come suo precettore. Le premesse perché si dimostrasse all’altezza della situazione non mancavano, ma Alessandro superò ogni aspettativa. Quando nel 334 parti per l’Oriente, non intendeva solo conquistare la Persia: voleva costruire un impero da realizzare grazie alla fusione di conquistatori e vinti. Non a caso, dunque, il suo esercito era accompagnato da scienziati, cartografi, medici, storici, filosofi e uomini di cultura, che dovevano testimoniare l’attuazione di un progetto politico e culturale che pareva irrealizzabile, e che egli invece realizzò. Superando frontiere sconosciute, sottomettendo popoli, distruggendo città e fondandone altre, nel 331, presso Gaugamela (vicino alle rovine dove un tempo sorgeva Ninive, la capitale degli Assiri) sconfisse definitivamente le truppe di Dario III. L’impero persiano era finito.
Alessandro, dando prova di quella che le fonti chiamano la sua megalopsychia (grandezza d’animo), per prima cosa istruì alla lingua e alla cultura greca trentamila giovani persiani, destinati a essere il nucleo del nuovo popolo. Per incoraggiare i matrimoni misti sposò Statira, figlia di Dario III e Parisatide, e diede in moglie le migliori ragazze persiane ai suoi amici (fra cui il suo giovane, amatissimo amante Efestione). Ma l’impresa era ben lontana dall’essere compiuta. Innanzi a lui si aprivano territori immensi, sino ai confini dell’India e oltre: il sogno di un grande impero universale sembrava vicino, e Alessandro intendeva realizzarlo. Ma l’esercito era stremato, non capiva, non condivideva più i suoi progetti.
Circondato da adulazione perenne, Alessandro aveva preso atteggiamenti da sovrano assoluto: dai suoi generali, ad esempio, pretendeva la proskynesis , l’atto di prostrarsi al suolo che i Persiani compivano dinanzi al loro re: per i Greci era semplicemente inconcepibile. Cominciarono le congiure, duramente represse, anche la morte (ivi compresa quella del suo generale Parmenione). E in un giorno del 323 Alessandro morì a Babilonia, dopo una brevissima malattia, il cui decorso è narrato nel diario di corte riferito da Plutarco. Al momento nessuno parlò di avvelenamento, ma poi le voci presero a circolare, e vi fu persino chi disse che a suggerire l’azione e a procurare il veleno sarebbe stato Aristotele.
Così, con questa morte il cui mistero non è mai stato risolto, ha inizio il periodo noto (con nome dovuto allo storico tedesco dell’Ottocento Johann Gustav Droysen) come ellenismo, vale a dire «grecizzazione». A governare gli sterminati territori dell’impero fondato da Alessandro aspiravano tutti coloro che avevano collaborato alla sua costruzione, che si scontrarono per oltre vent’anni, al termine dei quali l’impero si frantumò in una serie di regni autonomi (la Macedonia, la Siria, il regno di Pergamo, quello d’Egitto). Attorno al 300 a.C. il processo di formazione delle cosiddette monarchie ellenistiche si può dire terminato, e ciascuna di esse sviluppò una storia propria, che durò circa 300 anni (l’Egitto, che durò più a lungo, cessò di esistere nel 30 a.C.). Quello che maggiormente caratterizzò questi Stati dal punto di vista sociale e politico fu il loro rapporto con coloro che vi appartenevano: non più cittadini, ormai tutti e solamente sudditi.

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Paganesimo greco. La loro bibbia era Omero

Armando Torno, “Il Sole 24 ore – Domenica”, 23 agosto 2015

La religione degli antichi greci non era fondata su una Rivelazione. Non ebbe un testo sacro come Ebraismo, Cristianesimo o Islam. Il politeismo che la caratterizzava, vivificato da elementi mediterranei e orientali uniti a culti e riti praticati da popoli di stirpe indoeuropea, stanziati nel territorio poi chiamato Ellade, avrà come fonte i poeti. Omero diventerà la Bibbia del mondo greco: Iliade e Odissea diffusero una concezione antropomorfa delle divinità; gli dei, inoltre, presero dimora. Il tempio greco, luogo sacro in genere di un solo dio, si stacca dalle concezioni orientali; le statue, punto d’incontro tra arte e realtà superiori, con sembianze umane recano ai mortali quasi l’essenza divina. La supremazia di Zeus, presente in Omero, si suggella con caratteristiche assolute in Esiodo (siamo tra l’ottavo e il settimo secolo prima di Cristo); Eschilo e Pindaro confermeranno questa visione del “sistema” olimpico.
L’esegesi era attuata dalla stessa cultura greca. Poesia, tragedia e letteratura in genere illustrano caratteristiche e privilegi degli dei, giungendo a ottenere una sorta di corrispondenza biunivoca con il divino. Se, per esempio, diciamo “Comiro”, un epiteto di Zeus, è necessario aprire l’Alessandra di Licofrone il tragico per sapere che così il dio era evocato ad Alicarnasso; quando invece pronunciamo “Melete”, si deve ricorrere a Pausania: nel nono libro della sua Guida della Grecia riferisce che le Muse, secondo la tradizione più antica, erano tre e una di esse si chiamava, appunto, in tal modo (Esiodo nella Teogonia rese invece canonico il numero di nove). Un mondo cangiante in cui era indispensabile la meraviglia, dove ogni uomo cercava il divino – noterà Marguerite Yourcenar – secondo le proprie possibilità.
Per questo e per numerosi altri motivi è bene non lasciarsi sfuggire il Dictionnaire du paganisme grec di Reynal Sorel, da poco pubblicato da Les Belles Lettres. Non è un repertorio di dei o eroi, di usanze o luoghi sacri, ma una raccolta di quelle nozioni che gli Elleni avevano costruito nelle loro incerte e fascinose relazioni sacre. L’autore pone in evidenza il fatto che i Greci non cedettero alle sirene del proselitismo, che nel loro vocabolario classico è assente la parola “religione”, che la sola certezza da essi elaborata fu la “non conoscenza” dei mortali. «Hanno sempre una lezione di attualità da trasmettere», nota Reynal Sorel.
Aprendo la sua opera si incontrano, per esempio, voci come “Anima”. Ricorda che il quinto secolo ha sviluppato l’idea sconosciuta a Omero di un ritorno di essa all’etere (la regione superiore del cielo). Si legge su un’iscrizione funebre dedicata agli Ateniesi morti nella battaglia di Potidea: «L’etere ha ricevuto le loro anime e la terra i loro corpi». Questa misteriosa entità per i Greci cambia continuamente di significato, partecipa all’immortalità e si dota di una coscienza; Platone riprende temi orfici e le offre caratteristiche che le consentiranno una sopravvivenza alla carne. È la filosofia a occuparsi di essa, non la teologia; non è «il fondamento della persona umana agli occhi di Dio»: tale concezione, scrive Sorel, non apparve «prima delle Confessioni di Agostino».
Nella parte dedicata alla Rivelazione, tema che diventerà determinante nei monoteismi, si precisa: «L’idea delle rivelazioni divine esiste in ambito pagano, ma quella di una Rivelazione proponentesi come oggetto di fede è totalmente assente». Ecco poi voci che si integrano e offrono un vero saggio su talune questioni. Per esempio “Invenzione degli dei” e “Ateismo”. Nella prima leggiamo tra l’altro: «L’idea di una invenzione umana degli dei, della razza divina come pura finzione, appare alla fine del quinto secolo nel seno di un’Atene profondamente agitata e rovinata per il risultato disastroso della guerra del Peloponneso». Certo, c’è anche l’’aspetto “politicamente indispensabile”, la “menzogna necessaria”: Sorel, oltre le indicazioni dell’oligarca Crizia, riprende un tema salvato da Sesto Empirico, nel quale si ricorda che la credenza negli dei è necessaria per “mantenere l’ordine”. La voce “Ateo”, termine con numerosi sensi, è trattata attraverso le forme paradossali (presenti in Senofonte) o radicali, con figure quali Diagora di Melo, Prodico di Ceo o, più tardi, Teodoro di Cirene. C’è anche un ateismo in scena con Euripide e Aristofane e ve n’è uno della medicina, già con Ippocrate. Insomma, una storia infinita. Un Dictionnaire che rivela qualcosa di attuale del mondo pagano.
Reynal Sorel, Dictionnaire du paganisme grec, Parigi 2015, Les Belles Lettres, pagg. 520

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Un principe in democrazia. L’Atene di Pericle senza miti

Potere personale e capacità di legittimarsi furono le armi principali di un leader paragonabile ad Augusto per la sua abilità. Ma fu anche bersaglio di critiche spietate.

Luciano Canfora, “Corriere della Sera”, 26 agosto 2015

La fioritura urbanistica, architettonica, teatrale, oratoria, prodottasi in Atene in concomitanza con i decenni in cui Pericle fu dominante sulla scena politica (463-430 a.C.), ha determinato l’equazione — divenuta senso comune — grandezza di Atene/Atene di Pericle . È in realtà soltanto un punto di vista, e neanche inoppugnabile. Un altro punto di vista consolidato è che, sotto il suo governo, si sia realizzata la pienezza della democrazia, del «governo di popolo». Un terzo punto di vista — alquanto stridente rispetto al precedente — è che, morto lui, si sia instaurata la democrazia «radicale», che portò la città alla rovina. Nessuno di questi tre «pensieri consolidati» regge alla critica, ma è utile chiedersi come siano nati.
Pericle era nato tra il 500 e il 495 a.C. Era un nobile (eupatrida), apparteneva alla famiglia degli Alcmeonidi, potente e ambigua. Erano stati, gli Alcmeonidi, alleati di Pisistrato (il «capo popolare divenuto tiranno» come lo definisce Aristotele nella Costituzione di Atene), poi avevano rotto quell’alleanza politico-familiare e avevano lottato, da esuli, contro la «tirannide». Con l’aiuto di Sparta e la complicità dell’oracolo delfico opportunamente corrotto, Clistene, leader della famiglia alcmeonide, era rientrato e aveva cacciato Ippia, figlio ed erede del «tiranno». Ippia si era rifugiato in Persia. Ma a Maratona neanche gli Alcmeonidi fecero una bella figura, anzi ammiccarono all’invasore (lo puntualizza Erodoto, pur «cliente» ormai di Pericle). Ciò non impedì a Pericle venticinquenne (nel 472 a.C.) di pagare le spese per l’allestimento dei Persiani di Eschilo, dramma sommamente patriottico.
Plutarco, il quale scriveva 5 secoli dopo ma con ottime fonti, all’inizio della Vita di Pericle (tutt’altro che ditirambica!) dà una notizia molto importante: Pericle da principio fu a lungo incerto se far politica appoggiandosi al popolo ovvero ai ricchi. Si favoleggiava di una sua somiglianza fisica con Pisistrato e questo lui temeva potesse nuocergli. Suo maestro di musica, ma in realtà di politica, fu il sofista Damone, che — dice Plutarco — molti pensavano lo «addestrasse alla tirannide». Del resto, quando era saldamente al potere e ogni anno riusciva a farsi rieleggere stratego (così evitando il rendiconto del proprio operato), i poeti comici gli gridavano, dalla scena: «Deponi la tirannide!»; e chiamavano «Pisistratidi» i suoi figli (Plutarco, Pericle, 16).
Mettendo insieme questi ed altri elementi, Plutarco approda alla diagnosi che il governo di Pericle fu «aristocratico». E porta a sostegno di ciò il giudizio che un grande storico e uomo politico più giovane di Pericle e suo ammiratore (quantunque appartenente ad un clan familiare avverso), Tucidide, aveva espresso nella sua Storia , come bilancio dell’opera di Pericle: «A parole fu una democrazia, di fatto il governo del princeps (protos anèr)». E noi preferiamo tradurre col termine augusteo quelle parole («primo uomo») perché l’intento di Tucidide è di definire il potere pericleo come un ben saldo potere personale abilmente rivestito di legittimazione. Che è — su scala molto più grande — la escogitazione costituzionale attuata da Augusto, quando «restaura» la Repubblica, ma assicura a sé il continuativo e di fatto intoccabile ruolo di princeps. Perciò Cicerone, che sognava l’affermarsi di un princeps in re publica (e fu da Augusto nelle sue Memorie assunto come «profeta») definì Pericle « princeps nella sua città» (De re publica).
Come si vede, questo tipo di governo non ha molto a che fare con la democrazia: «democrazia solo a parole». E anche nell’orazione funebre per i morti nel primo anno di guerra, che Tucidide fa pronunciare a Pericle poche pagine prima, «democrazia» — come osservò Jacqueline De Romilly — è parola usata con molta circospezione.
Ma per il clan politico-familiare cui appartenevano Platone e suo zio Crizia, capo riconosciuto dell’oligarchia dei «Trenta», non solo le leggi di Clistene lasciavano molto a desiderare, ma proprio Pericle era stato, come già Temistocle un «corruttore del popolo», un demagogo (Platone, Gorgia): con riferimento alla sua politica edilizia da «Stato sociale» (strumento formidabile di consenso) e più in generale di elargizioni di denaro pubblico. Senza dimenticare episodi gravi di corruzione, come il torbido affaire Fidia (Partenone, statua di Zeus coperta d’oro, ruberie di Fidia stesso sull’oro di proprietà pubblica etc.). E Aristotele, nella già ricordata Costituzione di Atene, mette Pericle tra i faziosi, non tra i politici sui quali il giudizio è concordemente positivo; anzi tra questi colloca il più accanito dei suoi avversari, il figlio di Melesia anche lui di nome Tucidide.
A questo punto anche il divario tra Pericle e «quelli che vennero dopo di lui» (che per Tucidide fu abissale) si accorcia. E rischia di scomparire del tutto se dalla vita pubblica si passa alle imprese militari. Pericle totalizzò quasi solo sconfitte, ivi compreso il disastroso intervento in favore dell’Egitto in rivolta contro la Persia; fu più capace suo nipote ed erede politico Alcibiade, con le strepitose vittorie sulla flotta spartana degli anni 411-409. Il divario tra i due molto si attenua poi sul piano della morale privata. Se di Alcibiade la «scostumatezza» fu proverbiale (rovinosa per la città secondo Tucidide) Pericle fu bollato dai comici come «il re dei satiri», capace di farsela — secondo il malevolo Stesimbroto di Taso — persino con la donna di suo figlio.
Stabile convivente sua fu Aspasia, che «allevava ed educava in casa sua giovani etère», secondo Aristofane e secondo Plutarco, che parla di una vera e propria «struttura» educativa (ergasía). Pericle fu costretto, per tale passione, ad umiliarsi dinanzi all’assemblea quando Aspasia fu bersagliata da una denunzia per «empietà», dopo essere stata bersaglio costante della scena comica. Anche in questo si coglie la distanza tra milieu pericleo, raffinatamente «tirannico» e intellettualmente progredito, e la bieca grettezza dell’«ateniese medio». Aspasia — osserva Plutarco, pio ma anche saggio — aveva conquistato Pericle «con la sua saggezza e acutezza anche politica». E Socrate la frequentava talvolta con i suoi discepoli, «i quali portavano ad ascoltarla persino le loro mogli».

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L’enigma Pompei, città assediata specchio d’Italia

Francesco Erbani, “La Repubblica”,  25 agosto 2015
Dal prologo di Pompei, Italia di Francesco Erbani (Feltrinelli, pagg.176), in libreria dal 27 agosto.
Vista dall’alto, dal terrapieno dove sorge la Casina Dell’Aquila, Pompei trasmette un senso di calma. Il silenzio sembra mescolarsi a una specie di muta saggezza e riveste le pareti scoperchiate, le pietre e i colonnati della città antica. In una mattina d’estate, con il sole che emette solo opachi bagliori, quel che anima le strade, il frastuono di chi visita gli scavi non intacca la quiete che pare attinga la propria misura direttamente dal mondo classico di cui Pompei è testimone. È una trama di muri e di vegetazione, di opere dell’uomo e della natura, un paesaggio culturale che, se si volta lo sguardo verso nord, scivola senza che apparentemente nulla lo contamini fino al Vesuvio, lo “sterminator Vesevo” al quale Giacomo Leopardi nella “Ginestra” conferisce il ruolo di arbitro di un destino contro cui gli esseri umani hanno pochi o nessuno strumento per opporsi. La città morta, insomma, vista da qui sovrasta ogni cosa viva, pulsante, nervosa e rumorosa, e quasi fortifica l’illusione che solo il passato sia sede dell’armonia e che qualunque contatto con il contemporaneo sia un’intrusione, indebita e rovinosa.
È, appunto, un’illusione. Meglio: una pericolosa illusione consolatoria. Senza rapporti con il contemporaneo, con il contesto, Pompei non è più nulla, non essendo un oggetto chiuso dentro la bacheca di un museo. È una città alla quale manca la condizione dell’abitare, ma della dimensione urbana possiede molte altre caratteristiche. Vive in un ambiente dal quale dipendono sia il suo stato di salute sia molte cause del suo degrado.
L’area archeologica è grande 66 ettari, la parte scavata 44. Conta 1.500 domus, vanta 242 mila metri quadrati di superfici murarie, 18 mila di superfici dipinte, 20 mila di intonaci, 12 mila di pavimenti. Pompei non è in un museo e neanche in un lembo desertico né è avvolta da una specie di green belt, una cintura protettiva, una camera di compensazione con tanti filtri che depurano tutto ciò che entra, materiale o immateriale che sia. Pompei vive, sebbene morta, in un contesto dove la densità di popolazione è fra le più alte d’Europa. La sua storia inizia nel VI secolo avanti Cristo, ma ora è parte – grosso modo il 5 per cento – di un comune che si chiama sempre Pompei, nato appena nel 1928 e dove risiedono oltre 25 mila persone. Alle quali si aggiungono, almeno, le 44 mila di Torre Annunziata, le 64 mila di Castellammare di Stabia e le 50 mila di Scafati, tre paesi che stringono la città antica in una morsa edilizia spaventosamente dilatatasi dagli anni Cinquanta del Novecento nella piana del fiume Sarno, fra il Vesuvio e il monte Faito, spazzando via campi fertilissimi e lasciando pochi lacerti di un tessuto residenziale che va ancora tristemente fiero della propria gentilezza, talvolta di una sontuosa solennità – la Reggia di Portici, le ville vesuviane. Mescolando legalità e illegalità, in quest’area della provincia di Napoli si è prodotta una qualità abitativa che anche solo un fugace sguardo coglie nell’inusuale e casuale brutalità.
Pompei è qui dentro, in un ammasso senza vuoti. È una città recintata, gli accessi sono limitati alle ore diurne (salvo rari casi). È una città laboratorio, la si studia, vi si scava. Ma la sua antica e silenziosa saggezza fa i conti con il disagio di questa terra, con gli indici della disoccupazione, in specie giovanile, indici già alti ma aggravati dalla crisi industriale degli ultimi decenni; con la criminalità camorrista; con un ceto politico e amministrativo – non tutto, per carità – che articola il proprio consenso in termini clientelari e che guarda proprio agli scavi di Pompei come serbatoio cui attingere a mani basse; con ambienti imprenditoriali che immaginano grandi affari dentro e soprattutto fuori delle sue mura; con un mondo di piccoli e spesso miserabili commerci ambulanti, attività che si affollano agli ingressi, in parte abusive o con licenze frutto di contrattazioni politiche. E poi i visitatori. Due milioni e mezzo, circa, ogni anno. (…) Pompei è un enigma italiano, metafora della condizione generale del nostro patrimonio storico e culturale, del suo stato di conservazione, dei valori che esprime e della qualità della sua fruizione. Ed è metafora di un paese, di tanti aspetti della sua vicenda politica e sociale, un paese che, prendendosi scadente cura di quel patrimonio, mostra un volto di sé rivelatore di un malessere che si fatica anche solo a definire e di una condizione non all’altezza dell’eredità ricevuta e poco adeguata al futuro che quest’eredità lascia intravedere. Pompei assume su di sé altre metafore. È la metafora di un atteggiamento politico, culturale e finanche antropologico per cui ci si muove in maniera ondivaga, inseguendo emergenze, l’ultima emergenza, forzando gli apparati amministrativi e varando provvedimenti di legge sempre in affanno, in contraddizione l’uno con l’altro, e orientandosi al massimo sulla breve durata. (…) Pompei è poi metafora delle relazioni con l’Europa, relazioni segnate da adesioni e ripulse che s’inseguono a singhiozzo, da richieste d’aiuto e timori di commissariamenti, da solidarietà e messe in mora. Dalle casse di Bruxelles provengono i 105 milioni del Grande Progetto Pompei destinati a restaurare oltre una cinquantina di domus e ad altri interventi. Deliberati nel 2012, a marzo del 2015 erano stati spesi in una percentuale minima: appena 5,9 i milioni versati per una manciata di cantieri chiusi, ma non ancora collaudati. Il programma dei lavori prevede come scadenza inderogabile il dicembre 2015, pena il rien- tro di quel pacco di milioni nei forzieri europei, a meno che non si trovi un accordo con Bruxelles per una proroga.
E ancora: come non leggere in tante recenti storie pompeiane la metafora di una dialettica fra il Grande Intervento e la cura minuta e costante, fra la Grande Opera e la manutenzione puntuale? È una dialettica giocata al tavolo di una retorica che contrappone il fare al riflettere e al discutere. Una retorica che molte cose dice dell’ethos contemporaneo e che in Italia è diventata spesso conflitto su regole e deroghe, sulle funzioni di controllo proprie di una democrazia complessa e sulle accelerazioni forzate, dettate da insofferenza verso quei controlli e scandite da invettive contro un’imprecisata burocrazia: una guerra fra procedure ordinarie e straordinarie – invocando, per gestire queste ultime, commissari, prefetti, manager e generali.
E, sempre restando all’ambito dei beni culturali, Pompei è metafora di altre discussioni, spesso ridotte a ritornello: quella su pubblico e privato, su quanto spetti allo Stato (obbligato dall’articolo 9 della Costituzione) e quanto possano fare imprese, persone singole, associazioni di cittadini, cooperative di giovani; e quella su conservazione e fruizione, perennemente sbilanciata e incapace di verificare nel concreto quanto il buon assetto della prima possa servire alla seconda e quanto un corretto esercizio della seconda sia essenziale per la prima.

 
 Pompei, Italia
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Alla ricerca dell’Appia perduta: il viaggio di Paolo Rumiz

Attenti, ci dicevano, dopo i colli la traccia si perde: sarà una fatica tremenda. Ma non potevamo rassegnarci all’idea che proprio l’Italia non avesse strade romane percorribili, fatte di pietra, sangue e sudore.

QUANDO, DOPO IL GUADO di un fiume, un roveto o un campo di grano, la via ridiventava visibile, ben allineata con la direttrice che avevamo perso chilometri prima in un intrico di sentieri, asfalto o canneti, e una ventina di satelliti sopra di noi confermavano quel fatidico allineamento sullo schermo del Gps, allora anche la parte svanita della strada si ricomponeva sulla mappa, evidenziando tracce giudicate di primo acchito trascurabili. Ma soprattutto qualcosa si rimetteva a posto anche dentro di noi, e una magnifica esultanza si diffondeva nel gruppo in cammino.

Non stavamo solo ripercorrendo l’Appia antica. La stavamo ritrovando. La riconsegnavamo al Paese dopo decenni di incuria e depredazione. LEGGI TUTTO…

Tutti i giorni, domeniche escluse, su “La Repubblica”, Paolo Rumiz riscopre l’antica strada consolare romana, in un viaggio di 360 miglia di ghiaia, di “possenti selciati”  e di storia, oggi sepolti o quasi da 611 chilometri di asfalto e capannoni, tratturi e strade provinciali. In cammino, dunque.

La via Appia (da www.straderomane.it)

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Schliemann, la scoperta di Troia come un reality televisivo

Scavi di Schliemann a Hisarlik, 1871. Immagine Picture-alliance

Scavi di Schliemann a Hisarlik, 1871. Immagine Picture-alliance

Il celebre archeologo tedesco seppelliva i reperti per poi poterli “ritrovare”
Vittorio Sabadin, “La Stampa”, 15 luglio 2015

Heinrich Schliemann è stato il più grande degli archeologi. Ha scoperto le rovine di Troia, dissotterrato il Tesoro di Priamo e trovato a Micene la maschera funebre d’oro di Agamennone. Infaticabile, mosso solo dalla sua passione e dalla fede nei testi di Omero e di Pausania, ha svelato al mondo la civiltà ellenica, della quale prima si aveva solo una vaga, romanzata idea.
Da più di un secolo, in ogni scuola si racconta questa storia e il nome di Schliemann è indissolubilmente legato a quelli di Omero e degli eroi dell’Iliade. Ma le cose non sono andate proprio come si pensa, e molti studi più recenti sembrano giustificare le critiche che già all’epoca degli scavi in Anatolia e in Grecia erano mosse all’archeologo tedesco.
Soprattutto gli inglesi ce l’avevano con lui: tre eminenti colleghi come Sir Charles Newton, Percy Gardner e Alexander Stewart Murray, nel commentarne le imprese, avevano sentenziato: «Chi ha nascosto, può trovare». Anche i tedeschi non erano teneri: Ernst Curtius, che scavò Olympia, lo aveva definito «schwindler» e «pfuscher», un imbroglione e pasticcione.
Un pasticcione Schliemann lo è stato certamente, e separare i fatti dalle interpretazioni non era il suo forte. Se trovava una bella notizia da divulgare, non la rovinava quasi mai con la verità. Tutta la sua vita è stata un pasticcio: nato nel 1822 a Neubukow da un pastore luterano, da ragazzo voleva andare in America, ma naufragò subito davanti all’Olanda. Si fermò ad Amsterdam, poi arrivò a Sacramento a prestare soldi ai cercatori d’oro; andò in Russia dove sposò la prima moglie, Ekaterina; poi in Crimea, per trafficare in zolfo e piombo da vendere all’esercito russo e creare, grazie alla guerra, la sua immensa fortuna.
Se vivesse oggi, Schliemann farebbe carriera nel campo del marketing o della pubblicità. Era insuperabile nel creare immagini forti, che tutti potessero ricordare subito, e nell’adornare situazioni reali con un po’ di credibile fantasia. Fu lui stesso a modellare la propria leggenda fin dai primi anni di vita, narrando che era stato suo padre a fargli scoprire i versi di Omero, e che l’incontro con un ubriaco che recitava l’Iliade gli aveva indicato la missione da compiere.
Liberatosi con il divorzio dalla pedante e lamentosa Ekaterina, Schliemann aveva sposato una diciassettenne greca invaghita come lui degli eroi omerici, Sophia Engastromenou, la compagna giusta. Quando arrivò nel Nord-Est dell’Anatolia, sulla costa del Mar Egeo, scoprì che altri avevano avuto la sua stessa idea. Frank Calvert, un espatriato inglese appassionato di archeologia, scavava già da sette anni la collina di Hilsarlik e credeva così fermamente di poter trovare i resti di Troia che la sua famiglia aveva acquistato otto chilometri quadrati della cima del colle, per lavorarvi in tranquillità.
Nello stesso anno in cui Schliemann nasceva, il geologo scozzese Charles Maclaren aveva indicato Hilsarlik come il possibile luogo della città omerica, ma quando arrivò nella zona, Schliemann scavò più a valle, a Pinarbasi, dove non trovò quasi nulla. Decise quindi di collaborare con Calvert, che più giovane, meno ricco e meno colto di lui, accettò di fargli da assistente.
Nel luogo in cui sono stati trovati i resti di Troia ci sono testimonianze di dieci agglomerati urbani. Il più profondo, «Troia I», risale al 3000 a. C.; il più elevato, «Troia X», all’epoca bizantina. Schliemann non scoprì la Troia di Omero: ci passò attraverso senza riconoscerla (è al livello di «Troia VII») per concentrarsi su «Troia II».
La sua foga e il suo desiderio di riuscire erano tali che non esitò a farsi largo con la dinamite, distruggendo non solo reperti che riteneva secondari, ma danneggiando anche la stessa città che cercava. Il classicista americano Kenneth W. Harl ha detto che i suoi metodi di scavo erano «così rozzi da avere fatto a Troia quello che i Greci non erano riusciti a fare, radendone al suolo le mura».
Mancava però qualcosa che rendesse quello scavo indimenticabile. L’ultimo giorno dei lavori, Schliemann fece allontanare con una scusa tutti gli operai. Raccontò poi di avere trovato con la moglie Sophia una cassa di rame piena di gioielli: era certamente il tesoro di Priamo, che il re aveva nascosto all’avvicinarsi dei Greci e che conteneva due splendidi ornamenti d’oro, «i diademi di Elena». Fu Sophia, raccontò l’archeologo, a portare via avvolti in uno scialle gli 8750 oggetti preziosi rinvenuti. Ma non era vero: Sophia quel giorno si trovava ad Atene, ai funerali di un parente, e quello non era il tesoro di Priamo, vissuto almeno mille anni più tardi e cinque strati sopra, né i gioielli erano mai appartenuti a Elena.
Qualcosa di simile accadde qualche anno dopo a Micene, quando Schliemann, seguendo questa volta le indicazioni di Pausania, cercò all’interno delle mura le tombe dei re Atridi. Scoprì cinque loculi e subito scrisse a re Giorgio di Grecia di avere individuato le sepolture di Agamennone, Eurimedonte e Cassandra, uccisi da Clitemnestra e dal suo amante Egisto.
Durante gli scavi si assentò per due giorni e, quando tornò, trovò subito in una tomba una maschera d’oro di particolare bellezza: era sicuramente disse – quella di Agamennone. Da trent’anni si discute se si tratti di un falso e i sospetti si concentrano sulla barba e sui baffi, assenti nelle maschere funebri dell’epoca. La barba scende sotto il mento come un prolungamento delle basette, e uno dei baffi è a manubrio, un’acconciatura tipica degli uomini di potere dell’800: con un cilindro e una pipa, quell’Agamennone potrebbe davvero sembrare un impomatato principe prussiano. In ogni caso, anche questa volta le datazioni di Schliemann si sono rivelate inesatte: le tombe sono più antiche di 300 anni e non c’entrano nulla con il re che guidò i Greci contro i Troiani.
Schliemann morì a Napoli il 26 dicembre 1890. Lo trovarono agonizzante a terra per strada, tra via Toledo e piazza del Plebiscito, il giorno di Natale. Mario La Ferla, giornalista dell’Espresso e autore di decine di inchieste, ha avanzato in un libro l’ipotesi che sia stato assassinato dalla mafia trapanese, per avere violato presunti accordi sulla vendita di reperti trovati a Mozia. Se avesse potuto scegliere come narrare la sua fine, forse anche Schliemann avrebbe scelto questa versione: non bisogna mai rovinare una bella storia con la verità.

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Ellade addio: la fine di un amore nato dai sogni di Goethe e Schiller

Maurizio Bettini, “La Repubblica”,  16 luglio 2015

I media e l’opinione pubblica di Berlino e dintorni adesso descrivono il popolo greco come “levantino”, infido e fannullone. Siamo lontani dalla passione coltivata dai grandi artisti del passato: segno che le cosiddette “radici culturali” mutano continuamente

Durante le innumerevoli fasi della crisi greca, si è assistito a un proliferare di citazioni, rimandi, allusioni all’antica Ellade. In Italia la Grecia è stata più volte ricordata come la patria della democrazia, dunque come una terra a cui l’Europa deve troppo per poterla umiliare: pur se la democrazia ateniese, per la verità, non si sarebbe mai sognata di proporre un referendum come quello indetto dal premier Tsipras. Da quando in qua, avrebbero detto gli ateniesi, anche le donne decidono sulle cose degli uomini? Queste cose succedono solo nelle commedie di Aristofane. Qualcuno poi ha evocato il sacrificio di Leonida, e la vittoria di Maratona, quasi fossero il baluardo che difese l’Europa dalla dominazione orientale: che cosa sarebbe oggi di noi, se quella volta i Greci non avessero fermato i Persiani? Magari dimenticando che, solo 150 anni dopo, furono i Greci, guidati da Alessandro, a invadere a loro volta l’impero persiano — e certo non lo fecero per esportare la democrazia. Oltre all’Italia anche la Francia si è scoperta filellena. In uno dei tanti momenti in cui pareva che l’accordo fosse stato raggiunto, Manuel Valls ha twittato in greco «l’Europa è la Grecia!», mentre il ministro Emmanuel Macron, parlando di economia, non esitava a citare Aristotele. Facile concludere che il tema delle “radici culturali”, in questo caso quelle elleniche, ha giocato un ruolo importante nel dibattito nato attorno alla crisi greca. Questo almeno in Italia e in Francia. Ma in Germania? 

Al contrario di altri paesi, i tedeschi non si sono dimostrati particolarmente filelleni. A cominciare dalla copertina della rivista Focus, che recava un’Afrodite di Milo in vesti di accattona, per finire con la proposta, subito ripresa dalla Bild, di vendere le isole dell’Egeo per ripagare il debito. I greci dovranno pur rinunziare a qualcosa, e pazienza per la schiuma da cui nacque la dea. Si sa, la comunicazione si fonda su uno scambio di immagini, più spesso di stereotipi: e se in alcuni paesi, come Italia e Francia, i greci hanno spesso assunto le luminose sembianze di Pericle, in altri esibiscono piuttosto volti astuti e sottili, “levantini”. Per i tedeschi sembra contare molto di più il “debito” che la Grecia ha con loro (pur se non solo con loro), che non il “debito” che essi hanno verso la cultura ellenica. Un cambio di prospettiva davvero rimarchevole.
Se infatti c’è stato un paese che, nel passato, si è mostrato filelleno, questo è proprio la Germania. Non solo perché la poesia e la filosofia tedesca sono state influenzate dai greci molto più di quanto sia avvenuto altrove, ma perché per decenni i tedeschi si sono presentati al mondo come i “veri Greci”, gli unici degni eredi di Omero, di Pindaro e di Platone. Se Schiller vedeva nella Germania «la nuova Grecia del futuro», Goethe aveva addirittura immaginato un incontro fra Faust ed Elena — la donna più bella del mondo — in un’Arcadia favolosa: da questa travolgente passione venne concepito un figlio, Euforione, in cui si fondevano lo spirito ellenico e quello nordico. Quanto a Hölderlin, la sua nostalgia per la Grecia fu tale che nel 1802 tentò di raggiungerla a piedi dalla Germania: e quando il suo viaggio terminò, nelle Alpi Svizzere, perché fu aggredito lungo la strada, egli rinunziò a proseguire perché interpretò quell’incidente come un segno inviatogli da Apollo.
Ma anche senza andare così indietro nel tempo, il filellenismo diffuso fra i tedeschi emerge ancora da una vignetta di Kostas Mitropoulos risalente ai primi anni Ottanta. Vi si vede un curioso personaggio in abito di guerriero greco, e di fronte a lui un uomo piccolo, bruno, con i baffetti e un berrettino sulla testa. La scena è manifestamente ambientata in una stazione ferroviaria greca. Dunque il guerriero si rivolge all’altro con queste parole: «Andra moi ennepe Mousa… », citando cioè il primo verso dell’Odissea: e l’ometto bruno commenta «Ah, costui deve essere un tedesco! ». Il problema è che non c’è nulla di così presente, anzi così acutamente contemporaneo, come le cosiddette “radici culturali”. Le quali invece di rimandare saldamente al passato, come il loro “radicamento” sembra suggerire, tutto al contrario mutano, si rivoltano, scompaiono a seconda delle opportunità del momento. In piena crisi greca lo storico Martin Schulze Wessel ha sottolineato l’importanza delle «radici religiose ortodosse » della Grecia, dunque più vicina alla Russia che non al resto dell’Europa. Bisanzio ha preso il posto di Atene. Quanto alle “radici cristiane dell’Europa”, richiamo che a dispetto delle polemiche non fu introdotto nel preambolo della costituzione europea, fra i non molti paesi che ne fanno effettivamente menzione nella propria carta, c’è l’Ungheria: quella che ha blindato i propri confini col filo spinato per impedire l’accesso ai migranti musulmani. Il fatto è che le “radici culturali” non sono solo mutevoli, ma anche molto plasmabili. Probabilmente Orban ha voluto evocare quelle, cristiane, d’Ungheria, non per esaltare il motto «amerai il prossimo tuo come te stesso», ma piuttosto il comandamento che recita «non avrai altro Dio all’infuori di me». Salvare la Grecia è necessario per rispettare prima di tutto i diritti umani, non solo le nostre “radici”.

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Il potere di-vino che lega Gesù ai riti dionisiaci

Tra ebbrezza e pathos tutto il fascino mistico della bevanda più antica

Marino Niola, “La Repubblica”,  11 luglio 2015

«CHI beve vino è civile, chi non ne beve è barbaro».Lo dicevano i Greci facendo del succo della vite il simbolo alimentare dell’identità ellenica, concepita come la forma più compiuta di umanità. La bevanda che spumeggia nelle coppe è un dono di Dioniso, per i romani Bacco, il dio straniero per antonomasia, che irrompe nella scena mitologica mascherato, circondato da un corteggio di baccanti e di satiri, alla guida del suo carro coperto di foglie e di pampini, tirato da tigri e pantere profumate per portare agli uomini il suo dono prezioso. Ma anche pericoloso. Perché il nume dell’ebbrezza e della forza vitale introduce nella società un caos positivo, un disordine creativo che è necessario accettare, ma che è altrettanto necessario saper controllare. Non a caso la tragedia, che nasce ad Atene proprio dai rituali dionisiaci, mostra spesso le conseguenze di un rapporto incontrollato con il fermento che il dio introduce nei diversi luoghi dove si ferma per insegnare l’arte della spremitura e della fermentazione della vite. Il teatro, infatti, rivela la tensione tra le due metà dell’essere. Fa affiorare la verità nascosta dietro la maschera. Mette in scena il conflitto tra la mania profetica, ispirata dal dio divinatore e la ragione quotidiana. Il pathos che si mescola al logos. Come il vino all’acqua.
Dioniso insomma rappresenta il bios allo stato nascente ed effervescente. Succo della vite e succo della vita. Ecco perché l’intensità del rapporto con il dio dei pampini deve essere accuratamente calibrata. Proprio come fanno i Greci, quando diluiscono la bevanda alcolica per controllarne il potere inebriante. In questo senso si può dire che se la civiltà misura il vino, il vino misura la civiltà.
Solo i bruti bevono il nettare della vite senza diluirlo. Come fa Polifemo, il bestione-cafone che per il Greci è il campione dell’inumanità. E finisce bellamente uccellato da Ulisse, che gli offre vino purissimo, prodotto dal figlio del sacerdote di Apollo. Le istruzioni per l’uso consigliano di mescolare una dose di questo fuoco liquido con venti d’acqua. E invece il babbione con un occhio solo se lo tracanna superconcentrato. E passa improvvisamente dal vedere la metà al vedere doppio. Per poi finire accecato, dalla sua ingordigia ferina, prima ancora che dal palo ardente che Ulisse gli conficca nella pupilla. Il carattere smodato e intemperante degli appetiti di Polifemo fa pendant con la sua mancanza di ospitalità, collocando il feroce monocolo sul versante opposto di quello dionisiaco, fondato invece sull’accoglienza dello straniero, ma anche sulla convivenza con la parte straniera di sé. Il vino è uno specchio per vedere attraverso l’uomo, dice Alceo, il celebre poeta, che non si sa se fosse più sommo o più sommelier. Visto che a lui si deve la consacrazione del proverbiale binomio vino e verità, «oinos kai alathea», passato alla storia come «in vino veritas». Non a caso la funzione culturale del vino ha nella mitologia mediterranea il suo paradigma filosofico nel simposio. Parola che deriva dal greco symposion: da syn, insieme e pino, bere. Nel corso del convivio, il rapporto tra vino e socialità si rivela in tutta la sua profondità. Il rito, reso celebre dall’omonimo dialogo di Platone, inizia quando il simposiarca, che guida il consesso e modera la discussione, stabilisce le parti di vino e di acqua da mescolare, oltre al numero di coppe che ogni commensale dovrà bere. Obbligatoriamente. Se non vuole trasgredire le leggi della comunità.
E che il succo della vite sia un simbolo di comunione lo prova la sopravvivenza di alcuni usi e costumi connessi al bere nella civiltà moderna. Come il tradizionale scambio di vino nelle osterie europee, che trasformava degli sconosciuti in commensali. O i brindisi che scandiscono matrimoni, lauree e tutte le occasioni importanti. Insomma accettare il vino significa aprire all’altro. Rimandare al mittente il dono può essere una dichiarazione di guerra. Come quella di Alfio, protagonista della Cavalleria rusticana di Mascagni, che rifiuta pubblicamente di brindare con Compare Turiddu. «Grazie ma il vostro vino io non l’accetto, diverrebbe veleno entro il mio petto». A quel punto la tragedia è inevitabile. E a scorrere sarà sangue vero, non quello metaforico di Dioniso. Che Euripide definisce letteralmente un dio da bere, «versato in libagione». Una vittima sacrificale cui «gli uomini sono debitori di ogni bene». E improvvisamente in queste parole lampeggia quel filo che unisce Dioniso a Cristo. Le due divinità liquide. I due stranieri che portano il fermento nella collettività e la rigenerano.
In realtà il fattore maggiormente decisivo di questa longevità simbolica del vino è proprio la sua adozione da parte del cristianesimo che lo traduce nella sua teologia e nella sua liturgia facendone, insieme al pane, la sostanza sacra del sacramento eucaristico. Così i due emblemi alimentari del Mediterraneo antico, si transustanziano nel corpo e nel sangue di Cristo. E più la Chiesa rende centrale il ruolo della bevanda nell’eucaristia, più l’Islam prende progressivamente le distanze dal sangue di Bacco. Anche se in realtà nelle prime sure del Corano, quelle della Mecca, il vero musulmano non deve essere astemio. È con le successive sure di Medina, quando la religione del Profeta si trasforma in politica, che il vino diventa tabù. A riprova del fatto che la dieta mediterranea è inseparabile dalle vicende dei tre grandi monoteismi. Insomma, il vino spara fulmini e barbariche orazioni che fan sentire il gusto delle alte perfezioni. Parola di Paolo Conte.

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