Un patrimonio senza tempo. Il nostro debito verso Atene

lino_legge_rotolo_di _papiro_440_aC_circa

Dorella Cianci, “Il Sole 24 ore – Domenica”,  5 luglio 2015

Quando la Grecia inventò l’uomo. Un articolo di qualche tempo fa, pubblicato dalla Bbc news, Ancient Greek solution for debt crisis, di Armand d’Angour, ha elencato alcune idee per uscire dalla crisi economica greca proprio partendo dai filosofi greci antichi. Un’idea azzardata, ma efficace per guardare alla Grecia con occhi più riconoscenti, rendendoci consapevoli di come il nostro essere uomini e donne d’Europa ha dentro il Dna dei segmenti mitici derivati dalla sapienza greca, lirica innanzitutto e poi filosofica e tragica. Saranno qui accennati rapidamente alcuni temi affrontati da Simonide, Archiloco, Solone per affievolire l’idea di una poesia delle origini intesa soprattutto in senso ludico e d’occasione, com’è stato in alcuni casi per poeti più mercenari come Pindaro. La lirica è “faccenda” educativa, sociale ed est-etica (espressione coniata di recente) e non è solo una letteratura per adulti, ma anzi è adatta ai giovani e persino all’infanzia: essa racchiude una grande lezione di vita che era sfuggita persino a Cicerone, il quale disse, secondo Seneca: «Che se la vita gli fosse raddoppiata, non avrebbe il tempo per leggere i lirici. Mettici con loro i dialettici: sono sciocchi e per di più spiacevoli». I versi di cui parleremo sono poesie, ma son soprattutto canzoni, per questo il termine lirica è ben più adatto, non di certo perché i poeti usavano solo la lira, essa è stata la regina degli strumenti a corde, com’è precisato in un antico scolio di Dionisio il Trace e poi anche di Demetrio Falereo. Un poeta nasce lavorando al suono delle pernici, disse Alcmane e Cameleonte Pontico aggiunse che l’intera poesia in musica viene dagli uccelli. Ma tanto è sufficiente? I poeti greci sono stati soprattutto educatori come ricorda anche Aristofane nelle Rane: «Ai bambini il maestro fa lezione, ai giovani i poeti» e per leggere la lirica greca arcaica non occorre un “palombaro di Delo”, come affermava Socrate riferendosi a Eraclito, però si rischia di far confusione e di vedere un’unitarietà nella varietà di cantautori che parlavano un greco diverso e si differenziavano nel loro stile: Saffo è “maschia”, Anacreonte è vegliardo, Archiloco è un deciso anticonformista e questo dovrebbe emergere nelle traduzioni che qualche volta li hanno appiattiti. I poeti non sono dei maestri di felicità, su quello ci ha riflettuto la filosofia greca, ma essi sono maestri dell’incoscienza felice, per dirla poi con Pessoa, dell’idea che per esser un uomo felice ciò che conta è essere un altro. Inoltre se la filosofia greca è stata una scuola di vita in parte andrebbe anche riconsiderato il ruolo svolto dalla lirica greca arcaica, che si è ripiegata su se stessa nell’autoformazione dell’individuo, come affermò Jaeger, il quale ad esempio indicava i versi di Archiloco definendoli «filosofia di Archiloco». L’uomo, nella sua umanità, non è sempre esistito e la lirica greca l’ha “inventato”, ne ha rivelato la sua tenerezza, la smagliatura della bellezza, la crudeltà e il piacere dell’amore, il senso della politica e soprattutto, guardando alle periferie dei sentimenti umani, ha saputo slegare l’uomo dalla macchinazione divina, rendendolo protagonista di un labirinto intricato che avrebbe poi aperto la strada alla discussione sulla maieutica con se stessi e con gli altri. La lirica ha cucito un abito addosso a quegli eroi eleganti, in alcuni loro abiti materiali, ma nudi. Nei poeti greci, in particolare in quelli di lingua ionica ed eolica, si avverte forte il senso di un io, che non è solo intimismo, ma anzi bada a costruirsi una sua impalcatura sociale poiché comincia a non esser più tutelato dall’alto. L’io lirico sente la Tyche che qualcun altro sta manovrando, avverte anch’esso la presenza di un’entità superiore più profonda, ma non rinuncia alla natura e il suo agire “epico” questa volta adotta uno stile minimo svolto nella vita quotidiana, perché i campi di battaglia hanno rivelato tutta la loro vanagloria. I poeti edonistici, come in alcuni casi son stati definiti, hanno rivendicato il diritto all’individualità, che si andrà poi ad affiancare alla visione razionale della nascente sophia.
La città educante di Simonide. C’era un poeta bilingue, Simonide, il quale si era formato soprattutto nella poesia dorica dallo stile più duro, ma era provetto anche nei più languidi versi di lingua ionica, già poetica nello stile, come scrisse Giovanni di Sicilia in un suo trattato. Il suo carpe diem ad esempio ha anticipato di parecchio tempo quello ben più noto, ma qui lo si vuol menzionare per aver inventato la città educante nel notevole fr. 90 (nell’edizione West): «La città educa l’uomo». La città educante è un’invenzione greca e per noi contemporanei è diventato un concetto familiare, basti pensare al progetto mondiale che porta questo nome. Simonide probabilmente si era rifatto al proverbio greco secondo cui «l’esperienza è l’inizio della conoscenza» e l’uomo sperimenta il suo essere uomo nelle strade in cui decide di spendere la sua vita, nel migliore dei casi, oppure di farsela scivolare attraverso quelle periferie che pure “istruiscono” (fu Teognide ad affermare per primo che «la miseria forma la persona». Ma in che modo?). Plutarco scrive che la città educa solo quelli che hanno voglia di ricominciare sempre daccapo a essere istruiti, senza stanchezza, a prescindere dall’età e dalle “rottamazioni” (l’operetta di Plutarco, quasi dimenticata, s’intitola Se i vecchi devono governare).
I polpacci storti di Archiloco. L’anticonformista Archiloco così scrive: «Non amo un comandante possente o che stia imponente sui suoi polpacci diritti o vanaglorioso per i riccioli o per la barba ordinata. Ma per me sia pure uno piccoletto e coi polpacci storti, che avanzi però con piede sicuro, pieno di coraggio» (fr. 114 West). Archiloco è un Omero al contrario, uno che si sofferma sulle descrizioni per criticare. Il retore Dione di Prusa lo elogia più di Omero innalzandolo allo statuto d’immortale. Archiloco inventò un’etica del reale, per dirla con una felice espressione del grecista Bruno Gentili, e sosteneva un modello alternativo dove ciò che contava non era l’idea di corporeità, ma la contemplazione di un corpo che andava perdendo un po’ del suo kalos stereotipato. Inneggiava alla vita: «[…] Sapete? Salvai la vita. Dello scudo che m’importa? Ma che vada pure al diavolo, uno più bello me ne comprerò» (traduzione libera fr. 5 West), ma ovviamente, con questa mentalità, quando giunse a Sparta fu cacciato dalla città, racconta Plutarco. Credendo nella vita fragile aveva imparato anche a pregare, chiedendo umile a Efesto: «Sii un alleato benevolo con me e concedimi ciò che sai concedere».
L’ultimo desiderio di Solone. Un accenno lo merita Solone, lo statista poeta, il primo di Atene. Il fr. 18 West escogita un antidoto non solo contro la vecchiaia, ma anche contro il timore, tutto umano, della morte: «Ebbene sto invecchiando, ma sempre tante cose vado imparando». Un’inversione di tendenza verso la tradizionale norma greca dell’eukairia,secondo cui per ogni cosa c’è il suo tempo e il trasgredire renderebbe ridicoli. I vecchi sono paides palin (bambini di ritorno), ma essi, va precisato, hanno più necessità del sapere per poter mettere tutto dentro il sacco prima della fine visto che «ognuno pianta il suo fiore il giorno prima di morire, convinto di vederlo fiorire» (Vecchioni). Secondo lo pseudo Platone, negli Amanti, il filosofare sarebbe proprio quanto afferma Solone: imparare prima di morire. E cosa voleva imparare? Soprattutto i versi di Saffo.

Print Friendly, PDF & Email
Pubblicato in Attualità dell'antico, Civiltà classica, Mito e poesia contemporanea | Contrassegnato , | Lascia un commento

Quello strappo tra le due Europe nato per troppo amore verso l’antica Grecia

Marino Niola, “La Repubblica”,  4 luglio 2015

L’Europa è figlia della Grecia. Poi ne è diventata madre. E adesso rischia di diventare la sua crudele matrigna. Che l’Ellade sia il momento aurorale dell’Occidente moderno e delle sue parole chiave non ci sono dubbi. Su questa genealogia sono stati versati fiumi del migliore inchiostro. Le idee dell’essere e dell’avere del vecchio continente sono state fabbricate nell’officina egea. Ma è tra gli ultimi anni del Settecento e i primi dell’Ottocento che la Grecia, e con lei il Meridione europeo, sono stati ripensati e in un certo senso reinventati dallo sguardo del Nord, quello germanico prima di ogni altro. È allora che si determina la biforcazione antropologica tra le due Europe, che da quel momento smettono di essere una. E cominciano specchiarsi, ciascuna nella differenza dell’altra. Nel senso che le potenze del Settentrione, Germania, Inghilterra e Francia, ovvero gli attuali pilastri dell’Unione, diventano moderne. E, soprattutto cominciano a rappresentare la loro modernità per contrasto con il mondo euromediterraneo, consegnato per sempre alla sua irredimibile antichità. Non a caso è allora che nasce la scienza della mitologia greca. E a inventarla non sono i legittimi abitatori delle contrade del mito, ma filologi, filosofi, storici e archeologi tedeschi. Come Wilamowitz e Winckelmann. La cui devozione estetica per l’Ellade è indiscutibile. Ma è altrettanto indiscutibile che idealizzandola di fatto l’hanno reinventata.
L’amico Marcel Detienne, il più grande grecista vivente, diceva poco tempo fa che in realtà la Grecia che noi conosciamo, quella che abbiamo studiato a scuola, è stata letteralmente creata da questi studiosi. Perché la mitologia antica diventasse un archetipo, un antecedente logico e archeologico, destinato a lasciare il posto alla razionalità moderna. Che i miti non li vive ma li spiega. Ed è un grande errore, aggiungeva Detienne, perché pensiero mitologico e filosofia, cioè poesia e pensiero razionale non succedono l’uno all’altro sulla scena della storia. Ma nascono insieme. È per questo che la filosofia di Platone, anche quella politica, parla sempre attraverso il mito.
Nella cultura nord-europea, a dominanza protestante, il Sud del continente e il mondo classico in generale diventano così la metafora culturale di un passato che non passa. Che non riuscirebbe a trasformarsi in presente, perché incapace di sincronizzarsi sul cambio di marcia della storia. E perciò resta fissato per sempre, come il fotogramma nobile di uno sviluppo mancato. Di una condizione submoderna. Che è alla radice della nostra nozione di sottosviluppo. «Questa è la patria delle divinità della mitologia greca. Terra degli dèi e degli eroi», diceva Tocqueville, uno dei padri del liberalismo, sottintendendo così che non è la terra degli uomini di oggi.
E in quegli stessi anni, le scoperte archeologiche compiute per lo più da tedeschi, inglesi e francesi, fanno affiorare un passato glorioso di cui i popoli mediterranei appaiono gli indegni continuatori. Portatori sani dell’antico, una sorta di archeologia vivente. E spesso i grandi archeologi come Schliemann, che nel 1871 scopre le rovine di Troia e nel 1874 quelle di Micene, la città di Agamennone, parlano con accenti liricamente solenni delle rovine di pietra. E con disprezzo di coloro che abitano senza merito quelle terre. Parlandone, come fa qualche volta anche Voltaire, come di selvaggi di casa nostra. Con un cortocircuito tra antichi e primitivi. Tra popoli lontani nella geografia e popoli lontani nella cronologia. È quella che Giacomo Leopardi chiamava una meridionalità nel tempo, un Sud della storia. E così la Grecia emigra verso eredi che si ritengono più degni del lascito. L’altare di Pergamo va a Berlino, il frontone del Partenone a Londra e la Nike di Samotracia a Parigi.
E perfino coloro che hanno amato alla follia l’altra Europa, come Goethe, Madame de Staël, Hölderlin, fino a Nietzsche e a D.H. Lawrence, l’hanno di fatto minorizzata sul piano sociale e antropologico, arretrando il suo presente in una antichità spesso di maniera. Più mitologica che storica. Più neoclassica che classica. Contrapponendo, per esempio, la fredda ragione calcolante del Nord, così ben rappresentata oggi a Bruxelles, al calore antico ma improduttivo del Mezzogiorno. «Risorgi Omero! Se nel Nord di porta in porta, ti scacciarono freddi, qui troveresti un popolo ancora greco, e greco il firmamento». Questo idillio di August Von Platen fa il paio con Goethe il quale arriva a dire che «più di ogni altro popolo i Greci hanno sognato il sogno della vita nella maniera migliore ». E non è da meno Henry James, che parla di quella «interminabile luna di miele paganeggiante » da cui i popoli del Mare Nostrum non riuscirebbero a ridestarsi. Il problema resta sempre quello di un risveglio mancato. Di un asincrono dello sviluppo che riproduce la faglia tra popoli che fanno la storia e popoli portatori inerti della tradizione. Fissati nel fermo immagine di una non-storia prigioniera del passato. Una faglia antica che pesa sul futuro dell’Europa.

Print Friendly, PDF & Email
Pubblicato in Attualità dell'antico, Civiltà classica, Mito e poesia contemporanea, Storia greca | Contrassegnato , , | Lascia un commento

Le due idee di “demos”

Leo von Klenze, L' Acropoli di Atene

Leo von Klenze, L’ Acropoli di Atene

Tutto per il popolo: così l’antica Grecia creò il paradosso della “democratìa”
Nella dialettica tra demos e kratos, tra cittadini e potere, il mondo ellenico ha sempre privilegiato un esercizio diretto, assai poco moderato, della sovranità
Una visione da cui deriva il referendum di domenica

Silvia Ronchey, “La Repubblica”, 2 luglio 2015

Nella Repubblica di Platone e in altre fonti quel concetto chiave non ha un senso positivo

Byron ha combattuto ed è morto per la libertà del Paese simbolo delle nostre radici
Renan nella sua Preghiera sull’Acropoli si rivolge ad Atene “Dobbiamo tornare da te”

Il popolo: una parola cruciale per il mondo greco, dove il termine democrazia si è creato a partire da due vocaboli: demos, “popolo” appunto, e kratos, che normalmente traduciamo “potere”. Ma il greco kratos ha una sfumatura precisa che ha poco a che fare con quell’idea di potere legittimo e moderato che normalmente associamo alla forma di governo chiamata dai moderni democrazia — la peggiore, secondo Churchill, ad eccezione di tutte le altre via via sperimentate. In greco kratos indica la forza nel suo esplicarsi violento. Nelle antiche fonti greche, in Tucidide o anche in Isocrate per non parlare dellaRepubblica di Platone o perfino di Aristotele, la parola democrazia non è attestata in senso positivo: è un bersaglio polemico, una «parola dello scontro», come l’ha definita Luciano Canfora, usata in primo luogo dagli avversari di un governo popolare con l’intento di mettere in luce il carattere prevaricatorio, asimmetrico e minaccioso di ciò che esprime: il potere dei “non possidenti”. La torsione semantica che questo nesso della lingua greca ha subito lungo i secoli, la sua trasformazione in bene assoluto della nostra percezione collettiva, è uno dei grandi prodigi della storia.
Sull’accezione greca di demokratìa si è interrogata e divisa da sempre la filosofia politica — da Hobbes a Rousseau, da Constant a Tocqueville, da Dewey a Popper — nell’interpretare e studiare una forma di governo dalla natura e dalle implicazioni molto diverse, storicamente connessa a un’altra Europa rispetto a quella che i greci hanno conosciuto e dispiegato nella loro mitologia e nella loro geografia. Se il nesso storico-culturale tra i concetti astratti di Grecia, Europa e libertà resiste ai secoli e ai sussulti del globo, la genesi delle forme moderne di democrazia è successiva allo scindersi, con la conquista araba, di due Europe: l’una legata al papa di Roma e poi al cosiddetto sacro romano impero di Carlo Magno, un’Europa occidentale e via via sempre più nordica, più feudale, più lontana dal modello classico; l’altra esplicata in quella dislocazione e continuazione orientale del legittimo impero romano che fu Bisanzio, patria dello statalismo, dell’egualitarismo, della continuità nell’applicazione del diritto, la cui formula geografica, dopo l’islamizzazione del Nordafrica, si fece sempre più europea, ferma restando però la vocazione geopolitica di apertura, ibridazione e assimilazione in un’unica civiltà dei popoli e delle culture del sud e dell’oriente del mondo.
«Il mondo potrà salvarsi solo tornando a te», scriveva Ernest Renan nella sua Preghiera sull’acropoli, rivolgendosi alla città di Atene, al suo nume eponimo, la dea Atena, l’archegèta, «l’ideale che si incarna nei capolavori del genio umano». Il ritorno che Renan prospettava non era solo quello, ancora oggi atteso, dei marmi del Partenone, che immaginava riportati al suono del flauto in una lunga processione sacra dalle città del nord — Parigi, Londra, Copenhagen — fino alla soglia sudorientale di quella casa comune che già gli antichi chiamavano Europa. «Preferisco essere ultimo nella tua casa», scriveva, «piuttosto che primo altrove». Non si trattava solo della restituzione di spoglie archeologiche tanto simboliche quanto materiali. Renan auspicava anche il ritorno, da parte degli europei del nord, a un principio ideale, non necessariamente economico o razionale, ma essenziale: «Mi aggrapperò alla gradinata del tuo tempio, dimenticherò ogni disciplina che non sia la tua. Cosa più difficile: per te diventerò, quanto potrò, parziale».
Il ritorno all’ideale dell’antica esperienza greca passava per l’accettazione della Grecia contemporanea, del suo linguaggio, delle sue debolezze, dei suoi difetti: «Amerò solo te. Imparerò la tua lingua, disimparerò il resto». Anche a costo della rinuncia a una razionalità moderna: «Tutti coloro che fin qui hanno creduto di avere ragione si sono sbagliati, lo vediamo chiaramente. Possiamo davvero senza folle tracotanza credere che il futuro non ci giudicherà come noi giudichiamo il passato?». L’omaggio all’Acropoli che Renan nel 1876 auspicava nei Souvenirs d’enfance et de jeunesse non sarebbe stato facile per i nordici colonizzatori «di un mondo più grande», che avevano visto «le nevi del polo e i misteri del cielo australe». Quante difficoltà prevedeva già allora Renan; quante inerzie mentali da superare. E però, pregava, rivolto al tempio sull’Acropoli: «Fermo in te, resisterò ai miei consiglieri fatali, allo scetticismo che mi fa dubitare del popolo».
Un terzo modello di Europa, che recuperasse questa tradizione come sola forma di pacificazione possibile tra le due anime europee sempre più distanti tra loro era stato già preconizzato, prima che da Renan e dai suoi contemporanei, dalle avanguardie colte il cui simbolo è Byron, che per la libertà della Grecia diede la vita; già Gibbon, lo storico inglese della decadenza e caduta dell’impero romano, scriveva: «Sia concesso al filosofo di ampliare la visione e di considerare l’Europa come una grande repubblica, i vari abitanti della quale sono giunti quasi allo stesso livello di civiltà e di cultura». Per questi intellettuali la Grecia non era solo la bandiera dell’occidente ma lo spalto estremo di un modello europeo alternativo a quello nordico, capace di coniugare l’ideale classico a quello bizantino: come esplicita anche Renan, alla fine della sua Preghiera sull’acropoli , includendo nell’invocazione la cupola cosmica di Santa Sofia a Costantinopoli, ulteriore simbolo di una larghezza di civiltà «abbastanza vasta da contenere una folla» incessante di popoli.
Con la caduta, all’inizio e alla fine del Novecento, degli imperi — quello ottomano a sudest, quello zarista, poi sovietico, a nordest — , questo terzo modello di Europa è approdato al suo collaudo politico. Il referendum cui i cittadini greci sono chiamati nella giornata di domenica può considerarsi, da un lato, una grande e plateale messa in scena di due diverse filologie della democrazia; d’altro lato, un’eco dell’appello di Renan ai governanti dell’Europa nordica: resistere allo scetticismo, ai calcoli e alle abitudini oligarchiche; non dubitare del popolo, dei non possidenti, non paventare il potere che abdica alla delega a favore di quell’antica e temibile espressione del kratos popolare che è lo strumento referendario.

Print Friendly, PDF & Email
Pubblicato in Attualità dell'antico, Civiltà classica, Storia greca | Contrassegnato | Lascia un commento

Il viaggio psichedelico che comincia da un filo

Maurizio Bettini e Silvia Romani dipanano gli intrecci secolari che dal tessuto mitologico della storia di Arianna generano infinite varianti

Nadia Fusini, “La Repubblica”,  28 giugno 2015

Anni fa mi innamorai di Fedra, la tragica protagonista dell’ Ippolito di Euripide. Scrissi un libro, La Luminosa , dove investigavo la funesta genealogia che la stringeva alla figlia del Sole Pasifae, sua madre, e alla sorella Arianna; lei, Fedra, la terza della famiglia a fare l’esperienza dell’amore infelice, o meglio sconveniente. Adultero. Incestuoso. Niente, a ben guardare, in confronto alla madre, che s’era innamorata del toro, e s’era fatta costruire da Dedalo la macchina erotica per copulare con l’affascinante animale. Quanto alla sorella, Arianna, anche lei sventurata, per Teseo aveva tradito l’isola patria, e poi dall’eroe libertino era stata abbandonata durante una sosta del viaggio verso Atene…
Ora torno a innamorarmi di quest’ultima, leggendo Il mito di Arianna, che Maurizio Bettini e Silvia Romani firmano insieme per Einaudi. E scopro che aveva assolutamente ragione Karl Kerényi – il tessuto mitologico è privo di orli, si tira un filo e mille altri vengono al pettine. Nel caso di Arianna, il filo è proprio ciò che la nostra eroina tiene in mano, con il filo salva Teseo dal labirinto. Ma non ne avrà la ricompensa dell’amore eterno. Sarà piuttosto piantata in (n)asso, e lì avrà inizio l’erratica avventura del personaggio che l’affabile ricercatrice in Mitologia Classica, Silvia Romani, ricostruisce con acribia filologica e in stile brioso e avvincente, collezionando immagini e racconti dalla Grecia ad oggi. Mentre a mo’ di certificato doc, Maurizio Bettini, illustre accademico studioso del mondo antico, in questo caso in veste di narratore, decora il prezioso artefatto con un suo racconto. A conferma della lampante verità secondo la quale a simbolo risponde simbolo. In effetti, da che mondo è mondo questo è il funzionamento del mito: il mito produce altro mito. Il che ne spiega le infinite varianti.
Nel caso in questione le varianti tutte si dipanano intorno al modo in cui giocano oggetti concreti, quali il gomitolo e il filo, ipnotici attributi della femminilità, e figure astratte come il labirinto, che sono rimaste confitte nel nostro immaginario, producendo altre immagini ancora; servendo, appunto, da filo d’avvio per tramare altre storie; sì che l’isola di Creta ci appare come uno dei grembi meravigliosi ed eterni da cui viene partorito un corpus di favole che popolano a tutt’oggi il nostro mondo interiore.
Con inesausta e contagiosa passione Silvia Romani viaggia da Creta all’Europa, dall’isola di Shakespeare fino alla Russia della Cvetaeva, per rintracciare altre, ulteriori e nuove versioni delle gesta mirabili della principessa cretese, e regina, e dea, e signora del labirinto, in un trip incalzante di peregrinazioni fantastiche, che il lettore non può che seguire incantato, e che alla fine si configurano come un vero e proprio viaggio psichedelico.

Print Friendly, PDF & Email
Pubblicato in Attualità dell'antico, Mitologia | Contrassegnato | Lascia un commento

Affascinati da Annibale

Ermanno Bencivenga, “Il Sole 24 ore – Domenica”, 21 giugno 2015

In due delle sue satire Giovenale parla di studenti cui è assegnato il compito di dibattere se Annibale avrebbe dovuto marciare su Roma dopo la vittoria di Canne. Nel 1891 lo storico Theodore Ayrault Dodge pubblicò un’importante ricostruzione delle gesta di Annibale e documentò che all’epoca esistevano già 350 pubblicazioni sull’epico attraversamento delle Alpi da parte del generale cartaginese. Sono due fatti citati da Eve MacDonald, archeologa e lettrice all’Università di Reading, in Inghilterra, nel suo Hannibal, un libro frutto di diligente e meticolosa ricerca che a poco più di duecento pagine di testo ne accompagna sessanta di note e quasi venti di bibliografia.
Non sono fatti che riguardano direttamente Annibale; appartengono piuttosto alla cronaca dello straordinario fascino che questo personaggio ha sempre esercitato. E sono fatti significativi, perché evocano i due avvenimenti, le due decisioni, che hanno reso Annibale un’icona immortale nella nostra civiltà, un simbolo più vivido di quanto mai siano stati gli stessi romani e lo stesso Scipione che lo sconfissero. Un simbolo di che cosa? Dell’irriducibile ambiguità della condizione umana, del conflitto che si agita in ognuna delle nostre anime, il cui esito nessuno potrà mai prevedere.
Secondo il mito, la decima fatica di Ercole lo aveva portato all’estremità occidentale del Mediterraneo, là dove Europa e Africa quasi si uniscono (e dove eresse le sue colonne), per catturare i buoi rossi del gigante Gerione. Con i buoi in suo sicuro possesso, si trattava di tornare indietro, e per farlo Ercole attraversò le Alpi. L’unico precedente cui Annibale poteva fare riferimento per la sua impresa, dunque, era un leggendario semidio; realizzandola, entrò a sua volta nella leggenda e annunciò il carattere divino degli esseri umani. Testimoniò che nulla di quel che veniva giudicato per loro impossibile lo era davvero. Due millenni dopo il suo emulo Napoleone avrebbe scritto che «a ventisei anni Annibale concepì ed eseguì quel che non era concepibile» e «sacrificò metà del suo esercito solo per avere il diritto di combattere».
Ottenuto questo diritto, Annibale sbaragliò i romani al Ticino, al Trebbia e al Trasimeno, e il 2 agosto 216 li affrontò nella piana di Canne, nell’entroterra di Barletta. Roma intendeva chiudere definitivamente i conti con lui e aveva mandato oltre 80 mila soldati; Annibale ne aveva a disposizione circa la metà. Aveva anche, però, una superiore intelligenza strategica: lasciò che il nemico sfondasse al centro e quindi lo accerchiò dai fianchi e da dietro con i suoi uomini migliori. Fu un macello: i romani ebbero 50mila morti, inclusi un console e ottanta senatori; i cartaginesi ottomila. Roma era in ginocchio: per difenderla vennero arruolati ragazzi con ancora addosso la toga praetexta, la quale veniva abbandonata a sedici anni. Ci sarebbero volute tre settimane per raggiungere l’Urbe, ma niente avrebbe potuto arrestare i trionfatori di Canne. Annibale scelse invece di fermarsi e un suo luogotenente dichiarò: «Sai vincere una battaglia, ma non sai usare la vittoria». Da quel momento iniziò per lui una lunga agonia, tanto più lunga in quanto la sua abilità militare e organizzativa gli permise di sopravvivere in armi per tredici anni in un territorio che diventava sempre più ostile. Quando tornò in patria trovò ad aspettarlo forze (soprattutto di cavalleria) preponderanti e fu sconfitto a Zama.
La scelta di Annibale di non andare a Roma cambiò la storia. Roma controllava buona parte della penisola italiana e poco d’altro: i suoi unici possedimenti «d’oltremare» erano in Sicilia. Evitata la catastrofe imminente e guadagnato tempo, fu in grado di attaccare e debellare i cartaginesi in Spagna e, dopo Zama, di estendere il suo dominio anche in Africa, trasformandosi in una superpotenza priva di rivali che, un passo dopo l’altro, avrebbe fatto del Mediterraneo il mare nostrum.
Non è però solo in questo senso cosmico che la vicenda di Annibale continua ad attrarci. Anche in ambienti molto più limitati e situazioni molto più modeste, tutti noi conosciamo l’inquietante, spesso incomprensibile alternanza di audacia ed esitazione di cui lui ci ha dato un esempio estremo. Tutti noi, forse, abbiamo lavorato con coraggio e con successo per raggiungere una meta ambita e, quando finalmente l’avevamo alla nostra portata, le abbiamo volto le spalle. Tutti noi, forse, abbiamo avuto quella che in gergo sportivo si chiama «paura di vincere»: paura della felicità, dell’approvazione, dell’amore. È per questo motivo che Annibale ci parla: nella sua inconcepibile avventura e nel suo tragico epilogo leggiamo il nostro destino e rabbrividiamo pensandoci. Pensando a come il fatto di non cogliere l’occasione propizia, quell’unica volta che si presenta, possa avere come conseguenza che il tuo popolo non esisterà più e la tua storia sarà scritta da coloro che ti hanno umiliato.

Eve MacDonald, Hannibal: A Hellenistic Life, New Haven e Londra, Yale University Press, pagg. xvi+332

PER APPROFONDIRE CLICCA QUI.

Print Friendly, PDF & Email
Pubblicato in Storia romana | Contrassegnato | Lascia un commento

Il vino e l’eros, passioni dei Greci coltivate con senso della misura

Giovane che gioca al "cottabos". Kylix a figure rosse, 480–460 a.C. , Chiusi

Giovane che gioca al “cottabos”. Kylix a figure rosse, 480–460 a.C. , Chiusi

Eva Cantarella, “Corriere della Sera”,  19 giugno 2015

In Grecia il simposio era la riunione di un gruppo di cittadini che trascorrevano la serata mangiando, ascoltando poesie liriche, assistendo a spettacoli di danza e di acrobati, ma soprattutto bevendo. Come dimostra il nome simposio (da syn pinein, bere insieme) al centro non stava la condivisione del cibo, ma quella del vino, che si gustava al termine della cena, quando aveva inizio una conversazione che, come tutti gli altri momenti del simposio, era regolata da norme minuziose.
Il simposio infatti era un rito, una cerimonia composta di atti programmati prima del suo inizio, che oltre al valore sociale e culturale aveva anche una dimensione religiosa, immediatamente svelata dalla libagione iniziale agli dei, ai quali veniva offerto un assaggio del vino che sarebbe stato poi condiviso dagli invitati.
Ciò premesso, vediamo come si preparava e si svolgeva il simposio: il primo passo era un invito, che indicava il luogo dove si sarebbe svolto e la ragione per cui veniva convocato. Arrivati il giorno e l’ora fissata, gli invitati giungevano nel luogo convenuto e venivano introdotti in un locale apposito, detto triclinio, dove si trovavano dei letti (in greco kline ) predisposti lungo tre pareti, su ciascuno dei quali si accomodavano tre persone (donde il nome triclinio, che passò a indicare oltre al letto anche la stanza in cui si cenava). Ad Atene si cenava stando sdraiati, tutti in direzione del centro della stanza (in modo da consentire a tutti la vista degli altri convitati) stando appoggiati sul lato sinistro del corpo, con il gomito sinistro appoggiato su un cuscino.
Quando tutti gli ospiti erano arrivati, si procedeva alla nomina del simposiarca, al quale, oltre al compito di fissare i divertimenti e i giochi della serata, spettava quello più importante di stabilire il numero delle coppe da bere e le proporzioni della mescolanza tra vino e acqua. I Greci, infatti, non bevevano mai vino puro. Il loro vino era molto alcolico, a causa della vendemmia tardiva. Bere vino puro, dunque, portava molto facilmente all’ubriachezza, che i Greci ritenevano indegna di un uomo civilizzato. Solo i barbari bevevano fino a ubriacasi, da cui l’espressione popolare «bere alla scita», come gli Sciti, vale a dire come dei barbari. Infatti il racconto di una prima grande ubriacatura si trova nell’Odissea, e chi si ubriaca è il Ciclope, il simbolo stesso dell’inciviltà.
Nonostante l’orrore per l’ubriachezza, i Greci consideravano il vino un dono divino, fatto ai mortali da Dioniso. Le proporzioni tra vino e acqua variavano a seconda del rapporto tra una saggia lucidità (e dunque saggezza) e la dolce follia di una ebbrezza controllabile, che si intendeva raggiungere, in quella determinata occasione, secondo le indicazioni del simposiarca.
Ma c’è ancora qualcosa da ricordare sul vino, il suo legame con l’aspetto erotico del simposio. Uno dei giochi che venivano fatti era quello del cottabo, che consisteva non nel bere, ma nel lanciar vino dalla coppa, tenuta abilmente con le dita, verso un bersaglio, in genere un oggetto in bilico, che se colpito cadeva, o anche delle barchette che galleggiavano su un piccolo specchio d’acqua, che il lancio doveva affondare.
Prima di lanciare il vino, chi lo faceva dedicava il gesto a qualcuno (una donna o un ragazzo). Accanto ai maschi adulti, infatti, nella sala del simposio erano presenti, tra le persone che rallegravano l’atmosfera, anche alcune donne (etere, vale a dire prostitute) e i paides kaloi, i bei ragazzi che i Greci come ben noto corteggiavano e amavano. E chi lanciava il cottabo dedicava il lancio a uno di loro: «Questo lancio è per te», diceva, in una specie di dichiarazione d’amore, anche se magari valida solo per una sera, che rivela chiaramente l’aspetto anche erotico del simposio.
Nel corso del simposio, dunque, si sperimentavano i diversi piaceri della vita, imparando quella misura che era la regola di vita dei Greci. La mescolanza del vino e dell’acqua, che consentiva di non superarla, era una specie di sperimentazione sociale della morale dei Greci che non prevedeva né un ideale di ascesi, né uno di frustrazione. Realizzando l’ideale dell’equilibrio e della misura, il simposio era strumento dell’educazione civica dei Greci.

PER APPROFONDIRE

Il Simposio in sintesi, a c. di G. REALE: CLICCA QUI. 

D. Musti, Il simposio nel suo sviluppo storico, Laterza, 2001

M.L. CATONI, Bere vino puro. Immagini del simposio, Feltrinelli, Milano 2010

https://studiahumanitatispaideia.wordpress.com/2013/01/14/il-simposio-origine-ambiente-caratteristiche/

Print Friendly, PDF & Email
Pubblicato in Attualità dell'antico, Civiltà classica, Filosofia antica, Storia greca | Contrassegnato , , | Lascia un commento

I Greci erano misteriosi e irrazionali

Eva Cantarella, “Corriere della Sera”, 5 giugno 2015

È un’associazione inconsueta quella tra la magia e gli antichi, cui è dedicato l’ultimo libro di Giulio Guidorizzi intitolato La trama segreta del mondo (il Mulino, pp. 242). È un’associazione inconsueta perché il libro presenta un aspetto dei greci al quale non siamo abituati a pensare. Per effetto di una lunga tradizione, i greci sono per noi un popolo che sa dominare le passioni, controllato e razionale: i primi illuministi della nostra storia. Così ci hanno insegnato a pensarli autori come B. Snell e W. Jaeger, per citare i più famosi. E anche se a farci dubitare che essi non fossero totalmente ed esclusivamente razionali è arrivato nel 1951 I greci e l’irrazionale di E.Dodds, nell’immaginario collettivo la Grecia è rimasta legata a un’ideale incrollabile di perfezione, serenità e imperturbabilità.
Questo libro invece racconta una Grecia popolata da persone reali, non immuni da quelle incertezze e quelle angosce che anche in loro, trovavano conforto nella fiducia nel potere della magia. Sono questi infatti i greci che incontriamo -dopo i primi capitoli del libro dedicati alla storia degli studi sul pensiero magico e sui principi della magia – quando Guidorizzi inizia la ricognizione delle più svariate credenze magiche inframmezzata alla storia degli intermediari tra il mondo sensibile e quello occulto, vale a dire dei maghi e delle maghe. delle fattucchiere e dei negromanti.
Tra i tanti possibili esempi, limitiamoci a un paio: una maga, Medea, figlia del re della Colchide e innamorata di Giasone, lo aiuta a riportare in Grecia il famoso vello d’oro. Un’impresa famosa, che peraltro richiede una serie di magie. La prima: Giasone riceve in dono da Afrodite un incantesimo, che le fa dimenticare amore e rispetto per la famiglia e la patria. La seconda: Giasone sconfigge il drago che custodisce il vello d’oro grazie agli incantesimi che gli ha insegnato Medea). La terza: durante il viaggio di ritorno in Grecia, la nave di Giasone è inseguita dalla flotta del padre di Medea. Che per rallentare l’inseguimento uccide suo fratello smembrandolo e gettando uno a uno i pezzi del cadavere in mare, con una procedura densa di elementi magici. La quarta: giunta a Iolco, patria di Giasone, dopo aver dimostrato di poter ringiovanire esseri viventi gettando un caprone in un calderone bollente assieme a delle erbe magiche, usa la stessa magie per uccidere bollendolo lo zio-rivale di Giasone…
Certo, trattandosi di storia mitica, quella di Medea non dimostra la storicità delle magie evocate: in effetti, è difficile immaginare un uso sociale della magia di ringiovanimento. Ma poco importa: al di là dei dettagli, il mito rinvia sempre a una realtà sociale: nella specie la diffusa fiducia popolare nell’esistenza di un mondo occulto e della possibilità, grazie alla magia, di raggiungere effetti altrimenti irraggiungibili. E veniamo a un esempio, tra i tanti, di una magia realmente, socialmente praticata, il celebre machalismos: per evitare che le anime dei morti ammazzati tornassero a vendicarsi di loro, gli assassini tagliavamo al morto naso, mani, piedi, orecchie e genitali (dove risiedeva la forza) e li legavano dietro alle sue spalle con una fune che passava sotto le loro ascelle(in greco maschalai). La vendetta non era più possibile. Infine, una domanda: quale sarà lo spazio dell’occulto in un futuro nel quale i progressi scientifici possono far pensare a una sua riduzione? Guidorizzi sembra escludere una simile eventualità, e personalmente non posso che condividere la sua opinione.

Print Friendly, PDF & Email
Pubblicato in Attualità dell'antico, Mitologia, Storia greca | Contrassegnato | Lascia un commento

Da Ettore a Cobain il legame tra noi e l’eros divino

Silvia Ronchey, “La Repubblica”,  31 maggio 2015

C’È chi dice che la parola eroe, in greco heros, abbia a che fare con la radice di eros, in greco amore. Degli dèi anzitutto: «Muore giovane chi è amato dagli dei», secondo un verso di Menandro reso celebre da Leopardi, che lo mise in exergo a Amore e morte. In effetti gli eroi muoiono giovani, o comunque prima del tempo. Ettore, Patroclo, Pallante, Lauso, Mezenzio. James Dean, Charlie Parker, Jim Morrison, Kurt Cobain, River Phoenix. Guerrieri coraggiosi, arcieri dalla mira infallibile, attori sul palcoscenico del mito degli antichi e dei moderni, la morte precoce è l’essenza del loro eroismo. Prima della forza bellica, dei poteri e delle abilità che li portano a compiere gesta straordinarie, è eroica la loro capacità di cogliere la vita in controtempo; di prevenire l’agguato della morte; di anticipare la fine di una vicenda perfetta, di un idillio col mondo e le sue forze. L’eroe coglie la morte con il tempismo con cui l’amante sapiente tronca una perfetta storia d’amore: senza lasciare ricordo di imperfezione o decadimento, ma solo sorpresa e rimpianto.
Troppo bello per essere vivo: questo si può dire sempre dell’eroe. Ma l’eroe è bello come un vaso zen: è fallato, ha un’imperfezione congenita, un’impercettibile incrinatura che fa riconoscere subito in lui l’affinità con la morte. Che sia il tallone di Achille o lo spleen, il marchio somatico di un’indole depressa, ogni eroe ha in sé, visibile nel corpo, leggibile nel carattere ancora prima che nell’interpretazione postuma del destino terreno, l’inizio della fine, l’indizio della morte. È per eccellenza infelice: nel mondo greco è sottomesso al volere degli dèi, a un karma cui si adegua con feroce e malinconica vitalità. È bello e buono, kalòs kai agathòs: coniuga la bellezza fisica all’agathìa aristocratica, l’audacia con la fedeltà ai vincoli di un’origine ibrida, spesso semidivina. Sospeso tra il sovramondo degli dèi e il mondo infero verso cui si affretta, il suo temporaneo passaggio nell’umanità si traduce in uno scambio simbolico: sopprimendo l’istante, lo consegna all’eternità; introduce nella precarietà dell’esisten- za il desiderio della bellezza; suggerisce quello che James Hillman chiamava l’istinto dell’anima al suicidio; rivela che è la morte, alla fine, la vera impresa che l’eroe compie, che l’impresa eroica per eccellenza è il morire — l’impresa di tutti noi.
Nell’epica greca e latina che ha messo in scena i nostri primi eroi la morte dell’eroe è quasi più importante del valore che ha la sua vita, dell’obiettivo che ha raggiunto. Nell’Iliade come nell’Eneide ogni volta che un eroe muore la narrazione improvvisamente dimentica la ragione profonda della guerra, il conflitto si addensa intorno alle sue spoglie: il suo corpo e la sua armatura diventano per centinaia e centinaia di versi il più vero e urgente motivo di combattimento. Se la morte dell’eroe non è ritualmente allestita, se il guerriero caduto non è sepolto o cremato secondo il rito, la sua anima sarà tormentata e non potrà entrare nell’Ade; sarà un vampiro, un non morto, una vaga ombra; la collettività non potrà usare il suo sacrificio. Perché tra l’eroe e il suo popolo, il suo pubblico, la sua audience millenaria, oltre che uno scambio simbolico c’è un’identificazione sacrificale. L’eroe muore per noi e così facendo sconfigge la morte, come Cristo, nell’inno pasquale bizantino che ancora la liturgia ortodossa esegue spargendo eroiche foglie di alloro, “con la sua morte calpesta la morte”. Dopo questo sacrificio, con le parole di Giovanni Crisostomo, «noi, è vero, moriamo ancora come prima ma non rimaniamo nella morte, e questo non è più morire».
In realtà la morte eroica tradizionale è solo una delle varie possibilità di metamorfosi. Non c’è mai il nulla alla fine della storia, ma sempre qualcos’altro che la psiche accoglie. Il mito si rinnova sempre, fuori ma soprattutto dentro di noi. L’idillio interrotto, il corpo trafitto, il sipario abbassato, lo spegnersi della musica sono immagini mitiche che parlano all’anima di se stessa. Gli eroi che muoiono sono forme archetipiche nelle quali riconoscersi: infondono il coraggio quotidiano di non arrendersi alla morte.

Print Friendly, PDF & Email
Pubblicato in Attualità dell'antico, Epos | Contrassegnato , | Lascia un commento

Lirici greci: «E io dormo sola» (Saffo)

«Sola in le piume / io giaccio in pianto» traduceva Foscolo
Solo Quasimodo ci ha restituito la voce di quei versi
Carlo Carena, “Il Sole 24 Ore – Domenica”,  31 maggio 2015

Quando, nel 1910, apparvero i Lirici greci tradotti da Giuseppe Fraccaroli, Renato Serra ne profittò per indagare, in una recensione spietata, «il modo di leggere i Greci». Ancora in una stagione in cui appunto con Fraccaroli e poi almeno fino a Romagnoli, 1932-36 non ci si scostava molto da Monti, Cesarotti, Zanella, Pascoli (un disastro), Serra invocava una rielaborazione formale non effimera bensì il ripristino di una poesia «voce vera di uomini» con un suo bello o brutto, buono o cattivo, da considerare. E invece quelli erano traduttori che procedevano col loro passo pachidermico calpestando le antiche strade senza nemmeno sospettare che al fondo ci possa essere una qualità di «bellezza segreta e ineffabile», legata al suono.
Il colpo di grazia fu inferto, come si sa, dai Lirici greci di Salvatore Quasimodo all’inizio degli anni Quaranta, che s’inebriava della «violenta e rapida musica» di quei lirici frammentari, per la quale avrebbe dato volentieri tutto il «lento romanzo dell’epica». Che fossero perlopiù frammenti accresceva l’arcano e stimolava la ripresa. C’è nel mondo, avvertiva Luciano Anceschi nell’edizione delle versioni di Quasimodo presso lo Specchio Mondadori, 1944, citando Hölderlin, Baudelaire e Leopardi, e «i migliori traduttori di oggi» Ungaretti, Montale, Vigolo, Traverso, una nuova disposizione e dimensione dello spirito, che si riflette nella poetica della parola e nello sforzo di dare con essa contemporaneità artistica nella ripresa di testi lontani.
Come si sa, da allora per quei pachidermi fu finita. Essi ci appaiono oggi patetici, quando non comici, se non ci si pone nella giusta prospettiva storica. Un volume Lirici greci nella collezione dei Diamanti dell’editrice Salerno ne dà spunto, allegando in appendice all’edizione e versione dei testi un’antologia di traduzioni, che da fine Settecento giunge appunto a Quasimodo (escluso). Vi si incuriosisce, e vi si legge di tutto. Dalle tronche per la frenesia degli ottonari di un tal Achille Giulio Danesi a fine Ottocento e di Rodolfo De Maria a inizio Novecento, alla frenesia per le rime del Romagnoli (Romagnoli-Pascoli era il paradigma negativo per Cesare Pavese). Naturalmente, mentre costoro s’impegnavano su elegiaci e giambici come sui lirici puri, dei canti corali e dell’Archiloco guerriero a Quasimodo non importava un bel nulla e traduceva piuttosto il «Con una fronda di mirto giocava | ed una fresca rosa; e la sua chioma | le ombrava lieve e gli òmeri e le spalle».
La nuova versione di Chiara Di Noi restituisce agli originali, riprodotti a fianco, la loro limpidità e la variegata finezza, dove occorre la loro violenza; li rende con chiarità sostenendosi e riparandosi da ogni tentazione su una solida formazione filologica, cedendo raramente a qualche svolazzo. Di fronte ai brandelli di Callino, Tirteo, Mimnermo, Solone, Senofane, Teognide, Archiloco, Semonide, Ipponatte, Anacreonte, Saffo, Alceo, Alcmane, Stesicoro, Ibico, Simonide e tre assaggi di Bacchilide e pochi più di Pindaro, qui allineati non cronologicamente ma per generi letterari, si è spinti ancora una volta a sentire il più vasto amore per la beauté des ruines invocato a suo tempo da Anceschi; grazie anche alla sensibilità della traduttrice pur nel suo rigore. Essa si attiene fino all’estremo possibile alla ripartizione dei versi e alla posizione delle parole, cerca di conservare anche i ritmi distintivi della poesia. Scioglie ma restituisce poi in tutto e per tutto i disperanti ma pregnanti composti greci; tiene conto della storia stessa di certi vocaboli risalenti a volte e imposti da Omero.
Questi sono i quattro versi più noti di Saffo: «Tramontata è la luna |e le Pleiadi, nel mezzo | è la notte; il tempo dilegua, | e io dormo sola». Da cui Ugo Foscolo traeva la cavatina: «Sparir le Pleiadi, | sparìo la Luna, | è a mezzo corso | la notte bruna. | Già fugge rapida | ogni ora, e intanto | sola in le piume | io giaccio in pianto»; mentre Leopardi si cullava con: «Oscuro è il ciel: nell’onde | la luna già si asconde, | e in seno al mar le Pleiadi | già discendendo van». Né si poteva fare diversamente allora, nella continuità di una tradizione letteraria durissima soprattutto in Italia, che investiva lessico e metrica. Che stringeva anche Felice Cavallotti quando nel 1878 rendeva con le cadenze decasillabiche della Battaglia di Maclodio il bardo Tirteo: «Bello al forte, fra i primi caduto | per la patria pugnando morire! | Non v’ha lutto ch’uguagli il soffrire | di chi il lare nativo lasciò…». Che ora nella versione Di Noia suona: «Così è bello morire per l’uomo valente: | combattendo per la patria e cadendo in prima linea; | quello che invece è di tutto più triste | è lasciar la città e i campi fecondi».
Lirici greci, a cura di Chiara Di Noi, Introduzione di Luigi Enrico Rossi, Appendice a cura di Enrico Cerroni, Salerno editrice, Roma, pagg. LXII-632

Print Friendly, PDF & Email
Pubblicato in Auctores | Contrassegnato , | Lascia un commento

Tutte le Palmira del mondo (e Cesare Brandi aveva già capito)

Carlo Vulpio, “Corriere della Sera, 30 maggio 2015

Il rischio è che potremmo non vedere più non soltanto Palmira, che è in Siria, ma anche Leptis Magna, Sabratha e Ghirza, che sono in Libia, oppure Baalbek, che è in Libano, o Amman-Gerasc e Petra, in Giordania.
Se il fanatismo jihadista e la barbarie del Califfato nero dell’Isis non verranno fermati, tutto un mondo sparirà e di esso, biblicamente, non rimarrà pietra su pietra.
In tal caso, dovremo accontentarci di «vedere» questi luoghi meravigliosi soltanto attraverso gli scritti di chi li ha raccontati meglio di tutti, e cioè Cesare Brandi — storico dell’arte, critico, scrittore, giornalista — autore del bellissimo e attualissimo, oltre che profetico, Città del deserto, pubblicato nel 1958 e riproposto oggi da Elliot edizioni (178 pagine, con una prefazione di Geno Pampaloni del 1990).
Sarebbe un peccato se questa stolta furia iconoclasta prevalesse, ma se dovesse andare a finire così, ecco una ragione in più per leggere (o rileggere, ancora meglio) questo libro di Brandi, che non solo emoziona, non solo descrive — e con quale finezza — ma spiega anche il perché, già allora, questo patrimonio dell’umanità era in pericolo, e perché oggi quel pericolo è diventato, direbbero i giuristi, «concreto e attuale».
È ingiusto affidare a una frase un intero ragionamento — fra l’altro basato su raffinate riflessioni storiche e filosofiche e su brillanti osservazioni urbanistiche, architettoniche e artistiche — ma la considerazione finale di Cesare Brandi, non sospettabile di anti-islamismo di maniera, come dimostrano le pagine sulla questione israelo-palestinese, è di quelle a cui non ci si può sottrarre. «L’Islam — scrive Brandi — non può esistere nel nostro mondo se non assorbendolo o distruggendolo: nulla ha da sostituire, nulla ha da imprestare se non una forma arcaica della sacralità».
Se questo è vero, non c’è da farsi illusioni che, per esempio, la libica Leptis Magna, «una cannonata anche per chi viene da Roma o da Ostia», «il primo capolavoro della scultura romana», «città lunga tre chilometri, con strade e fognature perfette», «esempio di virtuosismo urbanistico sopraffino e di grande architettura», possa fare una fine diversa da Palmira, le cui tombe costruite in altezza, a quattro o cinque piani, scrive Brandi, ne hanno fatto un caso unico nell’antichità, «la prima città con impresari di pompe funebri e speculatori che compravano in blocco e vendevano a strozzo i loculi». E come Palmira e Leptis Magna, città emporio in mezzo al deserto e tuttavia ricchissime, corrono lo stesso rischio anche Sabratha, che ha una basilica giustinianea il cui mosaico pavimentale «è la più bella opera d’arte superstite della Tripolitania», e tutti gli altri luoghi in cui Brandi davvero riesce a portare per mano il lettore, conquistandolo con le sue similitudini: «Amman come e peggio dei Sassi di Matera» (ovviamente i Sassi di sessant’anni fa) o le case di Gerico e Damasco come i trulli di Martina Franca, la città vecchia di Gerusalemme come quella di Bari intorno alla Basilica di San Nicola, oppure Betlemme con le strade curve come in Calabria e i mosaici simili a quelli di Cefalù. Mondi e civiltà che hanno attraversato il tempo.
«Ma i barbari — avverte Brandi — sono di tutti i tempi». Ricordiamocelo .

Print Friendly, PDF & Email
Pubblicato in Archeologia, Storia greca, Storia romana | Contrassegnato | Lascia un commento