L’insistenza (e l’eredità) di Sparta

Matteo Nucci, ora in minima&moralia, già in “Venerdì di Repubblica”, 26 maggio 2015

“Concava, avvallata” la definivano i cantori omerici all’inizio dell’Iliade. E così appare ancora oggi, la grande Sparta, per chi s’introduca, provenendo da nord, fra le montagne che cingono la valle del suo fiume sacro: l’Eurota. A ovest il Taigeto svetta oltre i 2.400 metri. A est, il Parnone si ferma poco sotto i 2000. In mezzo, è ancora fertile la vallata inespugnabile, la fortezza naturale che rese inutile qualsiasi cinta muraria per la città che dominò militarmente, produsse istituzioni invidiate e celebrate da immensi scrittori, retori e filosofi (su tutti, Platone) e la cui fortuna nei secoli è decaduta in senso inversamente proporzionale rispetto a quella che era stata la sua importanza. Forse la colpa è di quell’ “atenocentrismo” attraverso cui nei secoli i moderni hanno voluto rileggere la storia dell’Ellade antica. Forse è stata una presunzione democratica contro l’indefinibile assetto costituzionale di una polis dominata da due re e che pure non si poteva definire un regno; una polis governata da un consiglio di 28 anziani (la gerusia) e che pure non si poteva definire oligarchia; una polis animata da un’assemblea popolare e che pure non si poteva definire democrazia. Forse è stato un pregiudizio contro gli uomini che sconfissero Atene, contro la chiusura alle novità, il loro conservatorismo. Tucidide, il grande storico del V secolo, aveva scritto: “se oggi la città dei Lacedemoni venisse abbandonata e rimanessero solo i templi e le fondazioni degli edifici, i posteri difficilmente potrebbero credere alla potenza e alla fama di Sparta”. Qualche decennio più tardi, Senofonte scrisse: “Riflettevo su come Sparta, una delle città meno popolose, sia divenuta una delle più potenti e celebri della Grecia e mi stupivo di come fosse accaduto. Poi pensai alle istituzioni degli Spartiati e finii di stupirmi”. Oggi, per chi penetra tra le vie della città che fu rifondata nel 1834 da Ottone di Baviera, primo re della Grecia indipendente, le parole degli storici antichi risuonano di un’eco funesta. Dove sono quei pochi monumenti pubblici? E dove si possono rintracciare le grandi istituzioni antiche?

Le vie a scacchiera progettate dall’architetto bavarese Fr. Stauffert, tra magnifici edifici neoclassici e i palazzoni che a decine li hanno sostituiti negli anni ’70, sono contrassegnate di continuo da un’unica indicazione: Museo dell’Olivo e dell’Olio d’Oliva. Per il resto è necessario domandare. E poiché è ancora viva l’arte che duemilacinquecento anni fa veniva insegnata ai ragazzi fra i sette e i quattordici anni, ossia l’esprimersi attraverso risposte brevi e concise (il modo di parlare laconico: dalla regione di Sparta, la Laconia), è possibile seguire le veloci indicazioni, districarsi fra le strade alberate per raggiungere il viale Paleologou percorso da palme, raggiungere il monumento a Leonida, eroe che nel 480 assieme a trecento concittadini s’immolò alle Termopili contro i Persiani, e salire poi verso le rovine dell’antica città. Certo, a parte l’espressione laconica, non molto altro è rimasto oggi di tutto quel che si insegnava ai ragazzi quando, estromessi dalle famiglie di origine, venivano ripartiti in branchi per essere forgiati a una vita comunitaria ascetica imperniata sul rispetto dello Stato, e combattere in sua difesa. Il senso civico, l’idea della cosa pubblica, il rispetto fra pari. Tutto sembra perduto in una regione che accoglie turisti interessati più che altro alle straordinarie rovine di Mystras, la città fondata dai Franchi a metà del XIII secolo, con i suoi monasteri, i suoi affreschi, gli acciottolati che paiono vivi. L’antica Sparta invece sembra sepolta in un tempo assolutamente irripetibile. Mentre ci si inerpica tra ulivi secolari disseminati attorno al teatro ellenistico, resti di santuari la cui identificazione è dubbia, mura di porticati e stradine perdute, l’impressione è che la Sparta moderna si sia riplasmata su un ideale opposto a quello antico. Osservando la città che, come una linea d’ombra, si affaccia oltre alla distesa di verde dell’area archeologica, sospesa nella sera che cala dal Taigeto, la lacerazione sembra soltanto fisica. Ma in città, essa diventa qualcosa che con la fisica non ha più a che fare.

Nella bella piazza del municipio, il piano basso della palazzina neoclassica disegnata da G. Katsaros è occupato da un moderno bar. “Un piano del municipio ai privati? Si stupisce?” domanda una ragazza che sorseggia il suo caffè frappè, “Qui tutto è possibile. Si è superato qualsiasi limite. Ognuno fa quel che crede”. Dietro l’angolo, l’Inokratis è un’istituzione. Un bar, pasticceria, vineria, di altri tempi. Come un re, al suo tavolo, domina un tal Ephtimios che preferisce essere chiamato Tom. Ha superato gli ottant’anni e gran parte li ha vissuti a Chicago dove ha fatto fortuna. È il perfetto esemplare degli spartani fuggiti da un’economia depressa nel dopoguerra e tornati a godere delle bellezze della madrepatria. Racconta i cambiamenti della sua città, dei bellissimi palazzi che ne costituivano l’ossatura, ora in gran parte soltanto memoria storica o fotografica e scuote il capo desolato per la perdita di tanta bellezza (da visitare l’antica bottega di fotografie in bianco e nero lì accanto o la Biblioteca centrale della città). Poi mi racconta della sua casa. Era un’eccezionale palazzina antica, ma per renderla un po’ più grande ha dovuto ricostruirla daccapo, e adesso i piani sono otto. Fiero della fortuna con cui è tornato a trasformare (e a rimpiangere) la propria città, lo spartano americano aspetta l’estate per andarsene sulle isole vicine. Non so se avrebbe apprezzato una delle più celebri istituzioni della Sparta antica, Tom. I sissizi, ossia i pasti in comune, erano l’anima della città: fortificavano il senso di appartenenza a un ideale. Si mangiava pane di orzo, zuppa nera (sangue di maiale), e un dessert costituito da formaggio, fichi o cacciagione. Vino in misura moderata. Tutti dovevano contribuire. Chi non aveva i soldi per farlo perdeva i diritti di cittadinanza. E la cittadinanza era tutto, molto più di qualsiasi possesso privato, per gli spartiati, ossia i “pari”, dediti solo alla guerra. Sotto di essi stavano i perieci, gli “abitanti dei dintorni”, liberi ma privi di diritti civici, commercianti e artigiani. Infine, venivano gli iloti, i “conquistati”, schiavi che coltivavano le terre degli spartiati. Per chi non potesse informarsi preventivamente sugli usi, i costumi e la storia dell’antica città (E. Baltrusch, Sparta, il Mulino, pp. 141, euro 11, 50) il bel museo archeologico – il più antico costruito fuori da Atene – offre spunti necessari a percorrere la nostra strada nella Sparta che fu. Le strade migliori però sono due e entrambe portano fuori città.

La prima sale su verso i monti del Taigeto, dove ogni mese, uomini in lotta perenne con il loro naturale senso di pietà, erano costretti a portare i corpicini dei neonati giudicati fisicamente inadatti da un collegio di vecchi saggi. È una strada affascinante e cupa. I tornanti salgono tra rocce impervie per cinque chilometri oltre l’ultimo paese, Trypi, finché uno slargo attrezzato non segna l’inizio di passeggiate che portano su per i monti prima che ci si affacci sul mare di Kalamata. Il sentiero principale è ben segnalato fra i pungitopo e le macchie di timo selvatico. Il ronzio degli insetti spegne l’eco dei motori e in una mezzoretta di salita, si aprono nella roccia lacerazioni simili a caverne. È qui, secondo le ricostruzioni, che venivano lasciate morire le vittime dell’eugenetica spartana. Si può sempre prendere un’altra strada, però, se il solo pensiero delle grotte di Langada mette i brividi. È la via che scende per una quarantina di chilometri verso sud, verso il mare, verso Gythio, il porto di Sparta che potenza marinara non fu mai e che pure il colpo di grazia all’acerrima nemica Atene lo diede proprio sul mare, a Egospotami nell’agosto del 405 a.C. Attraverso la valle che si restringe e si fa più chiara, fra canneti e file di eucalipti, aria di iodio e brezza improvvisa, il nostro pensiero abbandona d’incanto la potenza militare, le istituzioni e le glorie perdute di Sparta per lascare spazio libero al dio che dominò ovunque nell’Ellade, più di Ares, più di Apollo, più dello stesso Zeus. C’è solo Eros, infatti, a Gythio. Impossibile non vederlo volare lì davanti al bel golfo, sull’isoletta microscopica che si staglia contro l’orizzonte. Ormai legata alla terraferma attraverso un lembo sottile di terra, l’isola si chiama oggi Marathonisi ma gli aedi omerici la conoscevano come Cranae. È lì che Elena e Paride passarono la loro prima notte d’amore, quando la donna più bella dell’Ellade lasciò le stanze del re spartano Menelao sognando un futuro di felicità accanto al superbo re troiano. Rigogliosa di piante e odori dolciastri di lascivia, l’isola è dominata da un fiore tra il viola e il nero quasi vellutato. “Kiria si chiama” dice la donna che cura il roseto accanto alla torre Tzanetakis (un museo etnologico). Kiria significa “signora” e la donna mi spiega che è la nobiltà dell’unica vera signora che si riflette attraverso il velluto di quelle foglie sensuali e lugubri. Non le domando se si tratti di Elena. Ne sono certo. Del resto, Elena ebbe tempo di ricredersi, di abbandonare l’effeminato Paride capace solo “nei passi di danza”  e di tornarsene a casa. C’è una collina nei dintorni di Sparta che celebra l’amore ritrovato fra Menelao e la sua donna. Stavolta però per trovarla non bastano laconiche indicazioni. Serve la tenacia spartana. La forza di resistere. L’insistenza. Quel desiderio trasformato in determinazione che trovò la sua espressione massima nei versi di Tirteo, il poeta che infiammava i guerrieri cantando “Resista ognuno ben piantato sulle gambe al suolo / mordendosi le labbra coi denti”.

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Pompei. Così l’Europa scoprì e amò la città antica

Nell’area degli scavi e a Napoli si apre mercoledì una grande rassegna sulla fortuna dei siti vesuviani
Tomaso Montanari, “La Repubblica”,  24 maggio 2015

«CHI parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!». La morale cartesiana di Michele (Nanni Moretti) in Palombella Rossa potrebbe stare in epigrafe a tutto lo sgangherato discorso pubblico italiano sul patrimonio culturale: basti pensare alla distorsione del fatale termine “valorizzazione”, o all’osceno ritornello del “petrolio d’Italia”. Ma è a Pompei che essa si adatta in modo tutto speciale: da anni le parole con cui ne parliamo e ne scriviamo sono infatti consumate, scivolose, fallaci.
Sono parole che ci hanno fatto pensare che Pompei fosse un’”emergenza” (magari per giustificarne il commissariamento da parte della Protezione Civile) o un «tesoro» (che potesse legittimare faraonici progetti di luna park dell’archeologia, e speculazioni di ogni tipo). Trovare altre parole per Pompei è urgente: tanto da far accogliere con grande favore persino una mostra, nonostante che il desiderio di una moratoria assoluta delle esposizioni si faccia acutissimo nel momento in cui tonnellate (letteralmente) di opere d’arte vengono irresponsabilmente tradotte al gran bazar dell’Expo.
Ma «Pompei e l’Europa» è un’altra cosa. Perché dietro c’è un solido progetto culturale e scientifico: un primo frutto intellettuale del governo affidato al generale Giovanni Nistri (direttore del Grande Progetto Pompei) e all’archeologo Massimo Osanna, soprintendente e ora curatore di questa mostra insieme alla storica dell’arte Maria Teresa Caracciolo e allo storico dell’architettura Luigi Gallo.
La mostra non vuole sciorinare i “capolavori” restituiti dalla terra che copriva Pompei, né esserne una sostituzione, un succedaneo commerciale da far girare per il mondo (come è invece accaduto anche molto di recente). È, invece, un invito a ritornare nelle strade della città antica, o ad andarci per la prima volta: ma vedendola attraverso gli occhi dei pittori, degli architetti e degli scrittori europei che la amarono dal tempo della sua scoperta, alla metà del Settecento, fino al terribile bombardamento del 1943. Nel 1839 l’architetto tedesco Johann Daniel Engelhardt affermava che «un giovane architetto dovrebbe assolutamente visitare Pompei, anche se questa si trovasse in Giappone». Visitare la mostra significa ritrovare le parole con cui l’Europa, per due secoli, ha parlato di Pompei: per poterle ritessere in un discorso nuovo.
La prima di queste parole è «contesto». Nel 1747 fu il grande antiquario veronese Scipione Maffei a intuire perché la scoperta di Pompei fosse un evento fuori scala: «O qual grande ventura de’ nostri giorni è mai che si discopra non uno ed altro antico monumento, ma una città!». Riavere Pompei significava conoscere l’antichità non attraverso una somma di oggetti disparati, ma poter camminare, respirare in una città antica “resuscitata”. Ci volle un secolo, e il genio di Giuseppe Fiorelli, perché questo diventasse possibile: ma intanto Pompei aveva fatto capire che il patrimonio culturale è una rete di relazioni che va conosciuta tutta intera. Quando, cinquant’anni dopo, Napoleone smontò il contesto vivo dell’arte italiana per portarne il fior fiore al museo imperiale del Louvre, un grande intellettuale francese — Antoine Quatremère de Quincy — gridò che «il paese stesso è il museo… senza dubbio non crederete che si possano imballare le vedute di Roma!». Era la lezione di Pompei: una lezione che oggi abbiamo dimenticato.
La seconda parola, tutt’altro che banale, è «conoscenza». Di fronte alle lettere in cui il grande Winckelmann denunciava gli errori delle autorità napoletane, tutta l’Europa colta — la Repubblica delle Lettere, come si diceva allora — rivendicò la sovranità della conoscenza contro quella giuridica della dinastia borbonica: Pompei apparteneva a tutti coloro che la volevano conoscere. Ancora oggi è urgente chiedersi “di chi è Pompei”, e ancora oggi è rivoluzionario rispondere che è di chi la studia, aprendone a tutti la conoscenza.
Un’altra parola terribilmente urgente è «lavoro». Il 20 dicembre del 1860 il grande soprintendente Giuseppe Fiorelli (l’inventore del nuovo metodo per ottenere i celeberrimi calchi dei corpi dei pompeiani: calchi restaurati, e resi nuovamente visibili, in occasione della mostra) annota di aver scritto ai «sindaci dei comuni vicini, onde tutte le persone bisognevoli di lavoro fossero inviate agli scavi, riservandomi di determinare il numero dei lavoratori». Quella era la manovalanza degli scavi: ma quanto lavoro — a partire da quello per i nostri famosi cervelli in fuga — potrebbe oggi dare una Pompei che torni ad essere una città aperta della ricerca!
Potrà sorprendere, ma un’ultima parola che scaturisce dalla città morta è «politica». Nel 1848 «i custodi delle rovine di Pompei, usati a vivere taciturni tra gli squallidi avanzi di un popolo che da 18 secoli è scomparso dalla terra, hanno ivi giurato fedeltà al Re e alla costituzione con un grido che rimbombando fra queste solitudini troverà un’eco nel cuore di tutti gli italiani, della cui antica gloria, potere e indipendenza qui gelosamente conserviamo molte sacre reliquie». E noi? Qual è il nostro posto in questo cortocircuito continuo tra l’Italia del passato e quella del futuro? Tra le opere esposte c’è un bellissimo quadro di Filippo Palizzi che mostra una ragazza in bilico sul ciglio degli scavi di Pompei, un’immagine che fa salire alle labbra un famoso verso di Hölderlin: «Dove c’è il pericolo, cresce anche ciò che salva». Ci ripetiamo che Pompei è in pericolo: ebbene, questa mostra serve a ricordarci perché dobbiamo salvarla. Perché possa essere Pompei a salvare noi: ancora una volta.

 

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Le umanissime impronte della storia

I calchi di chi morì a causa dell’eruzione hanno sempre suscitato ogni genere di racconto

Maurizio Bettini, “La Repubblica”,  24 maggio 2015 
 
ORME e impronte non sono segni come gli altri. «Mai tagliare con un coltello l’orma di un uomo!» prescriveva un precetto attribuito a Pitagora; il quale suggeriva anche di cancellare dal materasso l’impronta del proprio corpo, quando al mattino ci si alza dal letto. In Grecia poi si raccomandava ai ragazzi di lisciar bene la sabbia su cui si erano seduti, in palestra, per non lasciare tracce della loro bellezza agli amatori. Il fatto è che orme e impronte nascono attraverso un contatto fisico, di conseguenza danno l’impressione di trattenere in sé qualcosa della persona che le ha impresse — di lei non si limitano a suggerire un’immagine o un ricordo, ma ne suscitano direttamente la “presenza”. E questo è per l’appunto Pompei: una gigantesca, tragica, vivente impronta lasciata dall’antichità sul suolo della Campania. Il tempo, che ineluttabilmente cancella le orme del passato, a Pompei è stato preceduto da una cascata di cenere e lapilli: che queste impronte ha preservato intatte fino al momento in cui gli scavi hanno riportato alla luce la città sepolta. Per tale motivo Pompei ha sempre esercitato su chi la visita un’attrazione del tutto speciale, diversa da quella suscitata da altri monumenti, fin anche il Partenone o il Colosseo: perché nelle sue vie, nelle sue case, nelle sue piccole tabernae la vita antica — paradossalmente congelata da una colata di fuoco — ha lasciato non solo una memoria, ma una presenza.
Che poi orme e impronte, non metaforiche ma reali, dagli scavi di Pompei ne sono fiorite numerose. Gli oggetti di materiale deperibile, come infissi, mobili o stoffe, nel loro secolare consumarsi all’interno della coltre di cenere vi hanno lasciato la cava effigie delle proprie forme. Fu Giuseppe Fiorelli, direttore degli scavi di antichità nel Regno di Napoli, che nel 1863 ebbe l’idea di far colare gesso liquido in queste cavità, ricavandone calchi pieni e perfetti. E non solo di oggetti, ma soprattutto di persone: uomini e donne sorpresi dall’eruzione, fuggiaschi che non ce l’avevano fatta, fissati nelle pose più dolorose e svariate. Come si può immaginare il ritorno alla luce di questi scomparsi suscitò ogni genere di fantasie e di racconti. A questi “doppi” degli antichi abitatori di Pompei, miracolosamente riemersi attraverso le impronte che di sé avevano lasciato, si vollero attribuire nomi, qualifiche, occupazioni, sentimenti: perfino identificare con commozione l’ultimo atto da essi compiuto prima della fine, si trattasse d’amore o di disperazione. «La morte ha plasmato le sue vittime alla maniera di uno scultore», scrisse René de Chateaubriand con meravigliosa, francese retorica. Solo che, assai paradossalmente, i poteri dell’orma tanto più si rivelano forti, quanto meno definita è la figura della persona che l’ha impressa.
È ciò che testimonia la singolare vicenda di un’impronta pompeiana che (si diceva) fu lasciata da un seno femminile. Nel 1772 il Giornale dello Scavo riferisce infatti di aver ravvisato, nella cosiddetta Villa di Diomede, la traccia del «petto di una donna ricoperto da una veste». A dispetto del tenore di questa registrazione, invero assai poco sensuale, una volta esposta nel museo di Portici, la misteriosa impressione darà vita a ogni sorta di sogni e fantasie letterarie. Come documenta Giuseppe Pucci nel bel saggio dedicato ai calchi, pubblicato nel Catalogo della mostra, di questa impronta scrissero fra i tanti Sir William Hamilton, l’abbé de Saint-Non e ancora René de Chateaubriand: che la vide nel 1801 e di quel seno mantenne un ricordo assai vivo. Cinquant’anni dopo Théophile Gauthier, in un racconto dal titolo Arria Marcella. Souvenir de Pompéi, immaginerà perfino un incontro fra il giovane Octavien — anche lui affascinato da quell’impronta — e una fanciulla il cui seno gli sembra corrispondere in tutto e per tutto a quello contemplato al museo. Nel frattempo attorno a Octavien, preso d’amore, Pompei si ripopola miracolosamente dei suoi antichi abitanti, di nuovo presenti; e la vita, quella autentica, torna a scorrere nelle vie e nelle piazze della città. Potenza suscitatrice di un’impronta.
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Il dolore di Palmira, Waterloo dell’Occidente

palmyra

Francesco Merlo, “La Repubblica”, 23 maggio 2015

SOLO ora che non c’è, sappiamo che c’era e dov’era. Purtroppo solo ora che l’abbiamo persa, Palmira è per noi geografia che si fa storia: Palmira come Waterloo e come Danzica, come Sarajevo e come Dallas, come le Twin Towers e come Mostar, luoghi che segnano il tempo più degli anni, illuminano l’epoca più della filosofia. Dunque solo ora che comincia il “dopo Palmira” scopriamo che nella Palmira di prima c’era un pezzo della nostra identità. Innanzitutto nelle palme, nei tronchi alti e snelli che si piegarono per fare ombra a Maometto bambino e nelle foglie larghe ed aggraziate che si intrecciarono come un arco di trionfo al passaggio di Gesù.
Ebbene, da oggi il bellissimo nome di Palmira non parlerà più di quelle palme. Racconterà invece la guerra islamica all’Occidente, evocherà il terrorismo che si è fatto esercito e che si sta facendo Stato. Molto più delle date che si dimenticano e si confondono tra loro sono infatti i luoghi che riassumono la storia senza bisogno di aggiungere altro.
TIENANMEN per esempio, e piazza Fontana, nomi di isole come Sant’Elena ma anche Ustica e le Falklands, paesini come Lockerbie o come Salò. Forse la storia non è quella filosofia che ci insegnava Benedetto Croce, forse è geografia in cammino: Lepanto, Weimar, la Baia dei porci … E da oggi anche Palmira.
Ma sono quelli dell’Is che hanno ritrovato Palmira prima di noi. Eppure loro non distinguono tra le archeologie, vogliono distruggere con la dinamite e con i picconi tutto ciò che resta delle civiltà, non solo preislamiche. Si accaniscono infatti su colonne e statue ma anche sulle antiche moschee perché vorrebbero cancellare l’intera storia prima della Rivelazione, e dunque — se potessero — le Piramidi e persino la casa del profeta. Insomma combattono l’idea stessa di storia antica senza sapere che è un concetto romano anche la devastazione fisica e simbolica che non ha rimedio: la “tabula rasa”.
Palmira e Palmina e Palma sono anche i nomi di grazia e di delicatezza che hanno le ragazze italiane con gli occhi e i capelli neri, nomi di Terra Santa e di carovana. E Palmiro è il nome che l’ex seminarista Antonio Togliatti mise al figlio per ringraziare Dio che l’aveva fatto nascere nella domenica delle palme. Anche lui non sapeva nulla della città delle palme che ci mette i brividi solo adesso che ce l’hanno rubata perché, prima, la gran parte di noi, proprio come Antonio Togliatti, non la conosceva nemmeno.
E avevamo dimenticato che viene dalla città delle palme anche l’esotismo con cui i romani decorarono i mosaici nelle loro ville, come a Piazza Armerina per esempio. E sono palme colorate dai bizantini gli alberi della vita della Cappella Palatina di Palermo, alberi che nel Mediterraneo tengono testa agli ulivi. Le palme sono gli alberi della lussuria che in Asterix e Cleopatra sbucano improvvisamente dalla sabbia, alberi del sole ma anche delle oasi d’acqua, piante robustissime che neppure il punteruolo rosso riesce ad abbattere. E ci sono le palme nane, a cespuglio, quelle altissime che danzano nelle tempeste, tutte danno legno debole e dolce per ricoprire le capanne, foglie per i soffitti, palmeti per i datteri e paesaggi per le nostre sconfitte come sapevano i soldati italiani aspettando gli inglesi nell’oasi di Giarabub: “inchiodata sul palmeto / veglia immobile la luna”.
E però a Palmira i soldati dell’Is hanno trovato l’icona che noi avevamo perduto. Noi infatti dimentichiamo la bellezza, qualche volta la rinchiudiamo nei musei, in genere non ce occupiamo. Loro invece la distruggono. E noi scopriamo e rimpiangiamo le nostre pietre solo quando loro le riducono in polvere. E infatti anche le decapitazioni e i massacri, che sono ormai immagini di ordinaria ferocia che loro stessi divulgano, neppure ci sorprenderebbero se non fossero ambientate a Palmira. È la scenografia che ci mette una gran paura addosso. Eravamo abituati a vedere i macelli consumati negli scannatoi, in luoghi senza storia, nell’aridità dei deserti, nel degrado delle periferie, tra mura sbrecciate e piazzette di polvere e sporcizia. A Palmira invece le teste rotolano in un contesto di assoluta bellezza. È una novità che neppure Sade aveva immaginato. Le atrocità naziste, di regola, non venivano commesse sotto i monumenti ma in remoti boschetti, in appartamenti fuori mano, Birkenau vuol dire “bosco di betulle”, e la polizia stalinista torturava nei gulag inaccessibili della Siberia dove anche lo sputo gelava in aria. Mai gli assassini divulgavano immagini, tutti si fingevano buoni perché avevano la coscienza del misfatto, nascondevano la storia cancellando la geografia nel recondito e nell’indefinito. A Palmira invece il delitto è al quadrato: sacrilegio, profanazione, bestemmia di qualsiasi Dio. Sembra il mondo di Hieronymus Bosch, carne, scheletri e mostruosità nella luce accecante del giardino delle delizie.

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Giù le mani da Ovidio

Columbia University: segnalare i «rischi» della lettura di testi greco-romani
La lettura delle Metamorfosi di Ovidio può arrecare gravi disturbi alla psiche dei laureandi.

Eva Cantarella, “Corriere della Sera”, 23 maggio 2015

Povero Ovidio, non bastava l’esilio nella desolata Tomi, sul Mar Nero, dove lo spedì Augusto e dove finì i suoi giorni. La colpa, quella volta, fu l’aver dedicato un libro all’«Arte di amare»: un cattivo esempio, una lettura pericolosa per l’onestà delle donne romane. Adesso a fargli rischiare di essere messo al bando, questa volta non da Roma ma dalla cultura classica, sono le Metamorfosi. Un assoluto capolavoro: se esistesse un elenco delle opere letterarie patrimonio dell’umanità le Metamorfosi dovrebbero rientravi. Composte di circa 12.500 versi divisi in 15 libri (e spesso giustamente definite una «enciclopedia della mitologia classica»), esse raccolgono e rielaborano più di 250 miti greci: tra i quali quelli di Dafne e di Proserpina, per colpa dei quali sono finiti nell’elenco dei libri della cui potenziale pericolosità, in alcune università americane, i professori dovrebbero allertare gli studenti. Leggerli potrebbe provocare un trauma, nella specie in chi, come Dafne e Proserpina, avesse subito una violenza sessuale. Con tutto il rispetto per chi ha subito un atto così ignobile, come non valutare la gravità delle conseguenze di una simile pratica? Nella Columbia University di New York, una delle più prestigiose del Paese, il corso nel cui programma i professori dovrebbe avvertire del rischio è quello chiamato Great Books (opere letterarie da Omero a oggi), obbligatorio per tutti gli studenti del College. Se la pratica si diffondesse quanti sarebbero, nel giro di qualche anno, i giovani americani che conoscerebbero l’esistenza di una della opere più importanti della cultura occidentale, che ha ispirato autori come Dante, Boccaccio, Chaucer e Shakespeare? Spaventa davvero, in questo episodio, il disprezzo per la cultura classica di Paesi (purtroppo non solo al di là dell’ oceano) che in quella cultura affondano le proprie radici e che sembrano non rendersi conto di cosa significhi dimenticarle.

La richiesta di alcuni studenti della Columbia University è presentata nell’articolo Our identities matter in Core classrooms, pubblicato il 30 aprile sul “Columbia Spectator”. CLICCA QUI per leggere l’articolo.

Ovid’s “Metamorphoses” is a fixture of Lit Hum, but like so many texts in the Western canon, it contains triggering and offensive material that marginalizes student identities in the classroom. These texts, wrought with histories and narratives of exclusion and oppression, can be difficult to read and discuss as a survivor, a person of color, or a student from a low-income background.

L’approfondimento del “Washington Post”. CLICCA QUI.

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Save Palmyra

Se si calpesta la storia antica
Roccaforte inespugnabile faro della cultura ellenistica Palmira sopravvisse alle mire di Marco Antonio e Aureliano. La città che sfidò l’esercito romano

Luciano Canfora, “Corriere della Sera”, 22 maggio 2015

La storia antica sembra non interessare nessuno, per lo meno a giudicare dalla indifferenza con cui il cosiddetto mondo civile assiste alla distruzione di uno dei più importanti siti archeologici del mondo. Dinanzi a questa inerzia senza scusanti conviene ricordare che Palmira non è una realtà antica ma antichissima.
Il suo nome ricorre nell’Antico Testamento nelle Cronache. La sua realtà è centrale in quel quadrilatero cruciale che collega la Mesopotamia e il Golfo Persico col Mediterraneo, in un alternarsi di paesaggi fertili e deserto. Le località che delimitano tale quadrilatero sono Babilonia, Edessa, Antiochia e Gaza. Al centro di questo quadrilatero vi è Palmira. Per familiarizzarsi con la topografia e la storia di questo centro, la più celebre delle cosiddette città carovaniere, conviene rifarsi al grande libro dello storico russo Rostovtzeff (1870-1952): libro particolarmente felice e molto fortunato in Italia, grazie alla traduzione che ne fece prontamente l’editore Laterza (Città carovaniere, Bari 1934).
Le città carovaniere erano stazioni commerciali delle carovane che trasportavano merci e uomini dal deserto arabico al Mediterraneo. In Siria, oltre Palmira, va ricordata almeno Damasco. Al tempo stesso va ricordato che tali realtà gravitarono inevitabilmente verso il regno seleucide, fondato da Seleuco I dopo la morte di Alessandro Magno. Sin dall’epoca seleucide (III a.C.) una colonia macedone, uomini e soldati parlanti greco, si era insediata a Palmira. Ma col decadere della potenza seleucide finì per essere una sorta di Stato cuscinetto tra l’impero partico e la provincia romana di Siria.
La prima notizia esplicita, nelle fonti classiche, riguarda il saccheggio di Palmira da parte delle legioni del triumviro Marco Antonio (41 a.C.), in quegli anni — siamo dieci anni prima della battaglia di Azio — padrone della parte orientale della repubblica imperiale romana. Antonio tentava di rilanciare il controllo romano al di là della provincia di Siria, perennemente minacciata dalle incursioni partiche. È sintomatico della complicata realtà etnica, religiosa e politica di quell’area il fatto che i Romani non siano mai riusciti ad avere il controllo pieno delle campagne, ma si siano attestati nelle principali realtà urbane. In momenti di inquietudine politica i Parti irrompevano nell’area a sostegno dei nemici di Roma e se del caso si ritiravano. Quando Palmira viene saccheggiata dalle legioni di Antonio accade il fenomeno inverso: gli abitanti si sottraggono alla morsa delle truppe romane e, portandosi dietro le loro ricchezze, si rifugiano al di là dell’Eufrate, sotto protezione partica.
Quando Augusto, divenuto unico padrone della repubblica imperiale, decise di avviare una entente cordiale con i Parti, accettò di buon grado che Palmira costituisse un territorio neutro e inaugurò un lungo periodo di pace. Nel frattempo i palmireni, che erano arabi, avevano ormai realizzato un insediamento stanziale ed un grado di civiltà elevatissimo; si difendevano dai predoni beduini per proteggere il loro commercio. Fu un grande pacificatore quale Adriano a ridare sicurezza alla regione. Al tempo della sua visita a Palmira (129 d.C.) la città assunse l’epiteto di Hadriana. Da Marco Aurelio a Settimio Severo ci fu invece un crescendo di tensione romano-partica con reiterati conflitti, ed è a seguito di quella prolungata tensione che a Palmira si venne costituendo una realtà politica nuova di tipo monarchico intorno alla famiglia di Odenato.
Il seguito della vicenda è noto. Odenato, buon amico dei Romani, e gratificato del titolo di corrector totius Orientis, cui aggiunse di suo il titolo di «re dei re», fu liquidato da una congiura che portò al potere il figlio Valballato, sotto reggenza dell’ambiziosa e abilissima madre Zenobia. Siamo negli anni della cosiddetta «seconda anarchia militare» (III secolo d.C.). Solo con la ascesa al trono di Aureliano il governo romano riuscì a porsi il problema di contenere l’espansionismo palmireno: ormai Zenobia controllava parte della penisola arabica, l’intero Egitto, la Siria e l’Asia minore fino alla Bitinia.
Dapprima Aureliano accettò lo stato di fatto e concluse un accordo con Zenobia sulla base del riconoscimento da parte di Roma del dominio di Zenobia su tutte le regioni conquistate. Palmira intanto era anche un faro di cultura ellenistica e intorno alla regina si raccolse una élite culturale il cui più noto esponente fu il filosofo Cassio Longino. L’accordo durò pochissimo. Nell’anno 271 Aureliano sferrò un attacco frontale contro il regno palmireno, prendendo a pretesto la assunzione da parte di Valballato, del titolo Imperator Caesar Augustus. L’attacco fu concentrico: da un lato la rapida riconquista dell’Asia minore e dall’altro la durissima campagna in Egitto che comportò la distruzione, ad Alessandria, dell’intero quartiere del Bruchion, dove era il palazzo reale dei Tolomei, comprendente un patrimonio inestimabile dell’umanità quale la grande biblioteca, situata dentro il palazzo reale. È bene ricordare infatti che il distruttore della biblioteca più importante del mondo antico non fu Giulio Cesare, ma Aureliano: ne parla ancora, circa mezzo secolo dopo, lo storico di origine siriaca Ammiano Marcellino.
Dall’Egitto, Zenobia fuggì a Palmira e organizzò l’ultima resistenza. Quando i Romani erano sul punto di espugnarla, infliggendo perdite e distruzioni alla città, Zenobia tentò di fuggire presso i Parti, ma fu raggiunta e arrestata mentre varcava l’Eufrate. Secondo le fonti romane avrebbe cercato di salvarsi accusando i suoi consiglieri, Longino incluso. Nulla di preciso si sa sulla sua fine. Forse, imitando Cleopatra, riuscì ad evitare di ornare il trionfo di Aureliano.

PER APPROFONDIRE: Eugenia Equini Schneider, Septimia Zenobia Sebaste, Roma, «L’ERMA» di BRΕΤSCΗΝΕΙDER , 1993

“Zenobia… regina, tam eximie virtutis femina, priscis testantibus literis, ceteris gentilibus inclita fama preponenda sit…” BOCCACCIO

Palmira, addio al gioiello che il raiss Assad ha protetto e l’Occidente ha lasciato solo

La città patrimonio dei monumenti ellenistici

Franco Cardini, “La Stampa”, 22 maggio 2015

Probabilmente quelli dello «Stato islamico» di Al Baghdadi ci sopravvalutano, hanno un troppo alto concetto di noi.
Nella loro barbara ma lucidissima logica e nell’intento di provocarci e d’indignarci fino al punto di farci reagire alla cieca per dimostrare al resto dell’Islam sunnita che i «crociati occidentali» li odiano, dal momento che le decapitazini non bastano adesso provano con le distruzioni di splendide, insostituibili opere d’arte. Non riusciranno nemmeno in tale intento. Ma, in attesa che ci privino di una delle Meraviglie del Mondo, riflettiamo: che cos’è Palmira, che molti italiani conoscerebbero se non le avessero preferito le Seychelles o le Mauritius?
Semplicemente una gloria del genere umano, una città ellenistica di assoluta bellezza e molto ben conservata. In Siria, tra Eufrate e Mar di Levante, s’incrociavano fino dall’antichità remota le vie commerciali che collegavano la Cina con il Mar di Levante (la «Via della Seta») e quelle che dai porti meridionali della penisola arabica, dove approdavano le flottiglie provenienti dalla Indie, risalivano fino a Damasco per proseguire verso l’Anatolia (la «Via delle Spezie», o «degli Aromi»). I romani conoscevano poco del subcontinente indiano, che fino dal tempo di Alessandro Magno i geografi avevano fasciato di fantastiche leggende, mentre i Seres, i cinesi, erano per loro poco più di un puro nome. Eppure le sete, i bronzi, le gemme, gli aromi pregiati per farne profumi e unguenti arrivavano in quantità sino al Caput mundi.
E tutto passava da quei fasci di piste carovaniere che convergevano in un’area ristretta fra gli odierni Libano, Siria e Giordania. Fungevano da collettori di essi alcune città-mercato, le «città carovaniere» ch’erano altrettante città-stato rette da un’aristocrazia di mercanti-predoni di stirpe araba, come gli idumei, i sabei, i nabatei. Queste città carovaniere, che l’opulenza dei loro padroni aveva fatto diventare degli autentici capolavori dell’eclettica arte ellenistica, si chiamavano Baalbek, Jerash, Petra: e ancor oggi le loro rovine incantano, ci lasciano senza parole.
Ma Palmira, al centro di una sterminata oasi dal quale prendeva il nome (Tadmor, «la città dei datteri») era senza dubbio la più splendida. Il piccolo prospero regno che essa si era costruito attorno, «cuscinetto» tra l’impero romano e quello parto-persiano, assurse nel corso del III secolo d.C. a una tale fama e a una tale potenza che i romani, suoi confinanti occidentali, si resero conto di non poter fare a meno di conquistare se volevano dominare le vie carovaniere e assicurarsi la frontiera che guardava la loro grande avversaria, la Persia.
Era allora sovrano di Palmira l’abile e colto Odenato, che morì lasciando il regno nelle mani del figlio. Ma la vera padrona del potere era una donna, la terribile e affascinante Zenobia: una di quelle inquietanti figure femminili che hanno dominato il mito e la storia orientale antica – da Hautshepet alla leggendaria regina di Saba, a Semiramide, a Pentesilea, a Sofonisba, a Tomiri, a Cleopatra, fino alla stessa Giulia Domna moglie di Settimio Severo – tutte memoria, forse, di fasi arcaiche segnate dal matriarcato regale.
Contro l’autocratica signora che trattava da pari a pari i Cesari di Roma e i Gran Re di Persepoli dovette scendere in guerra l’imperatore Aureliano, il cui culto monoteistico-solare trionfa anche negli stessi splendidi monumenti dell’arte palmirena. Zenobia, sconfitta nel 272, venne condotta a Roma dove rifulse come la preda più splendida del trionfo imperiale.
Da allora, Palmira si avviò lentamente sul viale del tramonto: che fu tuttavia lungo, perché ancora nel XII secolo il sultano Saladino l’arricchì di una formidabile fortezza. Più tardi dimenticata e ridotta a cava di pietre come altre sue consorelle, fu riscoperta nel secolo XIX grazie a scavi soprattutto inglesi e tedeschi. Fino a ieri, costituiva uno dei siti archeologici più noti e visitati del mondo. Il governo siriano manteneva in perfetto stato la sua area archeologica e aveva dotato il territorio circostante di ottimi alberghi e di eccellenti strutture turistiche. Ma nel 2011 il presidente francese Sarkozy e il premier britannico Cameron decisero che Bashar al Assad era un dittatore da abbattere e appoggiarono a tale scopo i suoi oppositori armati, tra i quali forti erano gli jihadisti. Adesso abbiamo dinanzi agli occhi, a Palmira, gli esiti di tale dissennata politica: che naturalmente molti media occidentali cercano di attribuire al solo fondamentalismo islamico.

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Wisława Szymborska e Alessandro Magno

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LEZIONE, in Sale, 1962

Chi cosa il re Alessandro con chi con cosa con la spada
taglia chi cosa il nodo gordiano.
Non era venuto in mente a chi a cosa a nessuno.

C’erano cento filosofi – non l’hanno sciolto.
Niente di strano che ora siano rossi in volto.
La soldataglia per la barba li piglia,
i bianchi pizzi tremanti gli striglia,
e scoppia chi cosa una sonora risata.

Basta. Il re guarda di sotto la visiera,
monta a cavallo e via di gran carriera.
E dietro, tra clangore di trombe e di ferraglia,
chi cosa l’esercito fatto di chi di cosa di piccoli nodi
lo segue in chi in cosa in battaglia.

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Che cosa perdiamo se perdiamo Palmira

Stiamo perdendo la perla del deserto. L’Onu mandi i Caschi blu a difenderla

Paolo Matthiae, “La Repubblica”,  16 maggio 2015

«PALMIRA è una città splendida per la posizione, la ricchezza del suolo, la gradevolezza delle acque. Da tutti i lati le sabbie assediano l’oasi e la natura l’ha sottratta al resto del mondo. Gode di una sorte privilegiata tra i due grandi imperi, quello dei Romani e quello dei Parti e sia l’uno che l’altro la corteggiano non appena riemergono i conflitti tra loro».
Così Plinio il Vecchio rievoca la straordinaria bellezza della perla del deserto, celebre per il colorito rosa delle pietre dei suoi monumenti, che risplendono di un indicibile incanto sotto il sole cocente che avvampa i palmizi che le hanno dato il nome dall’età di Hammurabi di Babilonia nel XVIII secolo avanti Cristo. Ma la città è ancora più antica e sondaggi archeologici recenti hanno provato che esisteva già nell’età di Ebla, almeno dal XXIV secolo avanti Cristo.
Le fonti antiche ricordano che Marco Antonio solo venti anni dopo la costituzione della provincia di Siria, poco dopo la battaglia di Filippi, aveva inviato la sua cavalleria per saccheggiare la ricca città e che i suoi abitanti, messi al corrente, abbandonarono la città, salvandola dalla distruzione. I suoi famosissimi arcieri furono un nerbo dell’esercito di Tito alla conquista di Gerusalemme e Adriano la proclamò città libera, mentre Caracalla all’inizio del III secolo le conferì l’ambito titolo di colonia romana. Fu soprattutto sotto gli Antonini e i Severi che Palmira cominciò, per la sua eccezionale prosperità derivante dalla funzione di protettrice delle carovane che attraversavano il Deserto Siro-Arabico, a erigere monumenti spettacolari. La sua potenza militare e politica emerse quando, dopo la disastrosa sconfitta di Edessa nel 260, l’imperatore Valeriano cadde prigioniero dei Parti e il signore di Palmira Odeinato assunse risolutamente l’iniziativa, attaccò i secolari nemici di Roma e, dopo averli respinti oltre l’Eufrate, li inseguì fino a Ctesifonte e assunse il titolo regale. Poco più tardi, nel 271, la sua vedova, Zenobia, che aveva concepito il disegno di conquistare la provincia imperiale dell’Egitto arrivò ad assumere il titolo di Augusta. La sfida contro Roma fu raccolta da Aureliano che, portando le legioni imperiali a trionfare delle agili ma inferiori schiere palmirene a Emesa, l’odierna Homs, domò le ambizioni della temeraria regina, che sembra aver finito i suoi giorni in un dorato esilio a Tivoli. Secondo lo storico Flavio Vopisco Aureliano fu implacabile con la città ribelle e così si sarebbe espresso in una sua lettera «Non abbiamo avuto pietà delle sue madri; abbiamo ucciso i loro figli, i loro vecchi, massacrato gli abitanti delle campagne».
Oggi Palmira, con i suoi monumenti leggendari, dal Tempio di Baal che, miracolosamente conservato nel suo temenos quasi intatto, è una testimonianza unica dell’architettura imperiale d’Oriente, al piccolo santuario di Baalshamin ancora oggi quasi integro, dagli spettacolari colonnati che spiccano dall’arco trionfale a tre portali e a quel gioiello raccolto di estrema suggestione che è il piccolo teatro romano fino alla valle delle tombe costellata delle diroccate torri funerarie ricchissime di sculture di uno stile provinciale tra i più significativi dell’intero impero, corre di nuovo un pericolo mortale, quello stesso della macabra sorte in cui è incorso un altro gioiello dell’architettura d’Oriente tra Romani e Parti, Hatra.
Nel 1751 il viaggiatore inglese R. Wood, riscoprendo i resti di quella città spettacolare, scrisse soltanto «scoprimmo allora in un solo momento la più grande concentrazione di rovine, tutte di marmo bianco, che ci fosse mai capitato prima di vedere». E poco più tardi, un filosofo francese, Costantin François conte di Volney, avventuratosi fino a Palmira «per interrogare i monumenti antichi sulla saggezza dei tempi perduti», arrivò ad affermare, lui stesso incredulo, che «l’Antichità nulla ci ha lasciato né in Italia né in Grecia che sia comparabile alla magnificenza delle rovine di Palmira».
Un sensazionale patrimonio culturale è oggi di fronte ad un inaccettabile destino di morte. Il Segretario Generale dell’Unesco ha già inequivocabilmente definito crimini di guerra le efferate e ripetute distruzioni di siti storici imperdibili in Iraq e in Siria. Per l’Italia il Ministro Franceschini ha chiesto giustamente la costituzione di Caschi blu dell’Onu a difesa di monumenti che sono tesoro ineguagliabile del patrimonio mondiale, come solennemente affermato dall’Unesco. Il grido di dolore del Direttore Generale delle Antichità di Damasco, Maamoun Abdulkerim, non può cadere nel vuoto.
Il Consiglio di sicurezza dell’Onu sta per affrontare questo tema. I grandi del pianeta devono essere concordi per affermare che Palmira non può essere abbandonata ad un destino di morte, perché sarebbe un’onta incancellabile su tutti i massimi responsabili politici dei nostri tempi per tutti i secoli a venire.

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La pia ipocrisia di Enea eroe di regime

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Una rilettura del personaggio virgiliano dall’abbandono di Didone al mito di Augusto

Gustavo Zagrebelsky, “La Repubblica”,  14 maggio 2015

L’intervento di Zagrebelsky letto Bologna nell’ambito della XIV edizione de “I Classici”, intitolata “Homo sum”.

SIAMO sinceri! Enea non ci piace. Se dovessimo fare una graduatoria tra i personaggi dell’epopea troiana, in cima metteremmo probabilmente non lo spocchioso Achille, ma “il domator di cavalli Ettorre” dell’Iliade. In fondo alla graduatoria, metteremmo proprio Enea il “pio”. In mezzo, l’astuto e inquieto Ulisse. Questo nostro atteggiamento ci dice che sono mutati i paradigmi. Ciò che piaceva allora, oggi infastidisce. E, in primo luogo, non ci piace la poesia al servizio del potere. Neppure Virgilio, infatti, ci è mai troppo piaciuto, perché fece della sua arte strumento di persuasione politica. Scrive bene, è levigato.
Ma non riusciamo a dimenticare che è stato un poeta di regime, stipendiato dal committente interessato a farsi tessere panegirici «di natura quasi mussoliniana» (Canfora). Il suo eroe letterario è Enea, ma l’eroe politico è Augusto, il destinatario del mito. Instauratore il primo; restauratore, il secondo, dopo i torbidi delle guerre civili e il disfacimento della Repubblica. Non una poesia civile, ma una poesia interessata, dunque, e, perciò malsana.
“Pio” è Enea, anzi di più: la pietas è la ragione della sua esistenza. Questa pietas è ciò che Virgilio propone come la virtù del principe. Gli Dei sono sensibili alle prove di pietas e rispondono con due prodigi archetipici, il fuoco che non brucia e la stella cometa. Entrambi riguardano il piccolo Ascanio e lo consacrano come il capostipite della gens di Augusto. Dentro Ascanio c’è dunque il futuro di Roma.
Ma, sulla strada accidentata verso la nuova patria, Enea incontra la contraddizione maggiore: eros. Eros e pietas sono nemici. Eros impone la sosta; pietas, la partenza. È la storia con Didone, cui è attribuito uno spazio capitale nell’architettura del poema. Anche Ulisse, nel ritorno verso la “petrosa Itaca”, incontra l’amore. È la storia di Calipso. Dopo la caduta di Troia, tutti e due hanno una missione, ma molto diversa: il ritorno alla casa di Itaca; la fondazione di un regno nel Lazio. La differenza è grande. L’Odissea è l’epopea delle radici; l’Eneide, della potenza politica. Odisseo deve ritornare per ricostruire la sua casa e trovare la sua pace. Il disegno di Enea è fondare un regno guerriero, sulle rovine d’altri regni. Di più: il ritorno a Itaca è il compito che Ulisse dà a se stesso da se stesso. Per Enea è diverso: egli, “profugo del fato”, ma salvato dagli Dei, è portatore d’un destino che gli è imposto dalla sentenza di Zeus. La sua pietas è la soggezione fedele a questo destino.
Basta mettere a confronto l’Ulisse nell’isola di Calipso e l’Enea nella città di Didone. Dopo sette anni di amori, Ulisse è preso dalla nostalgia della sua casa che Calipso non era riuscita a fargli dimenticare. Una forza irresistibile nasce dentro di sé, che lo chiama alla partenza. “Dentro di sé”: Ulisse è artefice delle sue proprie fortune e sfortune. Piange, Ulisse, in preda a vivo dolore, come quando la scelta sembra impossibile.
Ben diverso il distacco tragico e lacerante dell’eroe da Didone. Enea è costretto a lasciare Cartagine e la fuga, che a Didone appare come la crudele ricompensa del bene ricevuto, non può che essere da lei tacciata di perfidia: «La lealtà non è più al sicuro», dice la regina. Ma Virgilio ci fa sentire anche la voce di Enea; e lo fa in un verso emblematico: «Arde di andarsene via e di lasciare quelle amate regioni». Nella prima metà del verso vediamo Enea con gli occhi di Didone: un uomo che non vede l’ora di andarsene; nella seconda metà del verso, vediamo invece Enea con gli occhi di Enea stesso: ne è spia un aggettivo, «amate (dulcis) regioni», che Virgilio usa tutte le volte che deve esprimere lo strazio dell’abbandono. Partire, dunque, non è la sua vera volontà, e l’Italia, checché ne dicano gli Dei, potrà essere la sua nuova patria, ma non sarà mai veramente il suo amor. E qui sta la pietas come virtù che sacrifica il singolo e i suoi sentimenti. Il desiderio di Enea sarebbe un altro, però, e lo dice, cercando di giustificarsi con Didone viva («non inseguo di mia volontà l’Italia») e con Didone morta: nell’ultimo e impossibile dialogo con l’ombra della regina, Enea dirà: «Dalla tua terra, regina, sono partito contro la mia volontà».
Aleggia, su questa storia, l’ombra dell’ipocrisia. In verità, Enea è dipinto con i tratti del codardo, al quale importa soltanto di salvare la faccia: vuole consolare “con giuste parole”, mostra grande amore, dice che non è colpa sua. Non segue di sua volontà l’Italia. Però, di nascosto fa preparare la flotta per partire. Sarà pure per evitare ch’ella faccia bruciare le navi: resta il fatto che è Didone che lo affronta e, forse, se non l’avesse fatto, se ne sarebbe andato alla chetichella. La dedizione totale al fato si accompagna al cinismo verso chi ama. Piacerebbe poter pensare che nell’episodio di Didone sia nascosto un messaggio a non esagerare nella pietas spietata di cui Enea è campione: un messaggio rivolto ai potenti dell’Impero.
Didone è solo la prima vittima di una lunga serie di ammazzamenti. Il progetto della Roma fondata dai discendenti dei Troiani si scontra con l’ordine dei Latini, ed è la guerra; una guerra che, in certo senso, è una guerra civile ante litteram, perché i due popoli sono destinati a fondersi. Il poema si chiude con l’uccisione di Turno, il re dei Rutuli, rivale di Enea. Turno, vicino a essere ucciso, ricorda a Enea il suo vecchio padre Anchise. Ed Enea sembra quasi rinunciare a sferrare il colpo fatale: Turno, infatti, è subiectus, sottomesso; e l’indicazione che Enea ha ricevuto da Anchise è di «avere pietà di chi si sottomette». Poi però qualcosa trasforma Enea: l’ultima immagine che ne riceviamo è quella di lui che, «infiammato di rabbia furibonda» per avere visto il bàlteo, la cintura di cuoio che era stata di Pallante, il suo alleato, pendere dalla spalla del suo nemico, l’uccide. Il pio Enea non rifugge dalla vendetta, dall’inutile crudeltà.
Alla fine, siamo dunque consapevoli del potenziale di violenza che la fedeltà assoluta alla propria patria, ai propri dei, ai propri penati implica: una pietas empia per chi sta fuori di quelle cerchie. E che l’apologeta cristiano del III secolo Lattanzio rimprovera senza mezzi termini a Virgilio: «Non sapevi che cosa fosse la pietas, e hai ritenuto che proprio ciò che quello ha compiuto in modo disumano e odioso fosse un dovere imposto dalla pietà. Chi potrebbe dunque attribuire a Enea anche un briciolo di valore, lui che si è acceso di rabbia come paglia dimenticando lo spirito del padre, nel cui nome veniva supplicato, non è stato capace di tenere a freno l’ira? Non è affatto pius chi uccide qualcuno che non solo ha deposto le armi, ma gli rivolge una preghiera. La pietas è quella di chi non conosce guerre, di chi è in armonia con tutti, di chi è amico anche dei propri nemici, di chi ama tutti gli uomini come fratelli». Così, entriamo in un nuovo mondo segnato dalla fratellanza universale, un mondo in cui alla pietas imperiale si contrappone la charitas cristiana.

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ILIADE, Libro XXIV. Traduzione di M. G. Ciani

Si sciolse l’assemblea e si dispersero gli uomini verso le navi veloci; pensavano con gioia alla dolcezza del cibo e del sonno. Ma Achille piangeva pensando all’amico, non cedeva al sonno onnipotente, e non aveva requie rimpiangendo Patroclo, la sua forza, il suo nobile ardore, ricordando le molte pene che avevano patito insieme nelle battaglie degli uomini o sulle acque crudeli del mare; ricordava e versava lacrime fitte, stando disteso ora su un fianco, ora supino, ora bocconi; a volte si alzava e andava errando, smarrito, lungo la riva del mare; ma non appena sorgeva l’alba, sul mare e sulla riva, allora aggiogava al carro i cavalli veloci e dietro attaccava Ettore per trascinarlo: tre volte lo trascinava intorno alla tomba del figlio di Menezio, poi ritornava nella sua tenda e lasciava il cadavere nella polvere con la faccia contro la terra.
Ma dell’eroe morto Apollo aveva pietà e dall’oltraggio difendeva il suo corpo, coprendolo con l’egida d’oro perché Achille, nel trascinarlo, non gli scorticasse la pelle.
Così, nel suo furore, Achille oltraggiava il corpo di Ettore glorioso; ma gli dei beati, vedendolo, furono mossi a pietà ed esortavano Hermes, il dio dall’occhio acuto, perché rapisse il cadavere. Acconsentivano tutti gli dei, ma non Era né Poseidone né Atena dagli occhi lucenti; come prima, essi odiavano la sacra città di Ilio, odiavano Priamo con tutto il suo popolo per la follia di Alessandro che osò insultare le dee: quando si recarono infatti al recinto dove sorvegliava il bestiame, egli scelse colei che gli fece dono della lussuria funesta.
[…]
Disse così e acconsentì la dea dai piedi d’argento, dalle vette dell’Olimpo scese di slancio e giunse alla tenda del figlio; lo trovò che piangeva a dirotto mentre intorno i compagni si affaccendavano a preparare il cibo; sacrificavano anche un ariete, grande e lanoso, là, nella tenda. Si sedette accanto all’eroe la nobile madre, lo accarezzò con la mano e chiamandolo per nome gli disse:

«Figlio mio, fino a quando ti consumerai nel dolore e nel pianto, senza pensare né al cibo né ai piaceri del letto? E bello unirsi a una donna, in amore; e tu non vivrai a lungo, già ti è vicina la morte, il destino inesorabile. Ma ora prestami ascolto, io vengo a te messaggera di Zeus: ti manda a dire che tutti gli dei sono in collera e lui stesso più di tutti è adirato perché tu con animo folle trattieni Ettore presso le concave navi e non vuoi restituirlo; rendilo, dunque, e del suo corpo accetta il riscatto».

A lei rispose l’eroe dai piedi veloci:

«E sia! Chi porterà il riscatto si porterà via il corpo, se è la mente saggia di Zeus che ordina e impone».
[…]
Dopo aver detto queste parole, tornò al vasto Olimpo il dio Hermes. E Priamo scese a terra dal carro, lasciò Ideo a sorvegliare muli e cavalli e si diresse alla tenda dove sedeva Achille, amato da Zeus; lo trovò che era solo, stavano in disparte i compagni: due di loro soltanto, l’eroe Automedonte ed Alcimo, stirpe di Ares, gli si affaccendavano intorno; egli aveva appena finito di mangiare e di bere; la tavola era ancora apparecchiata. Entrò il gran re, senza essere visto, e quando fu accanto ad Achille gli abbracciò le ginocchia e gli baciò le mani, le mani terribili che tanti figli gli avevano ucciso. Come quando un’acuta follia travolge un uomo, che in patria ha commesso omicidio e si rifugia in terra straniera, nella casa di un uomo ricco, e coloro che lo vedono restano attoniti; così Achille restò stupefatto nel vedere Priamo simile a un dio; stupirono tutti, guardandosi gli uni con gli altri; e Priamo si rivolse a lui con parole di supplica:

«Ricordati di tuo padre, divino Achille, tuo padre che ha la mia stessa età ed è alle soglie della triste vecchiaia; e quelli che vivono intorno forse lo insidiano e non c’è chi lo difenda dalla sventura e dalla rovina. Ma lui, almeno, si rallegra in cuor suo sentendo che tu sei vivo, e di giorno in giorno spera di rivedere suo figlio di ritorno da Troia. Ma la mia sventura è immensa: ho messo al mondo valorosi figli nella grande città di Troia e di loro non me n’è rimasto nessuno; cinquanta ne avevo, quando giunsero i figli dei Danai; diciannove erano figli di una sola madre, gli altri nacquero da altre donne nella mia reggia; a molti di loro Ares ardente ha tolto la vita; l’unico che mi restava, colui che proteggeva la città e i cittadini – Ettore – tu l’hai ucciso mentre difendeva la patria; è per lui che io vengo ora alle navi dei Danai, per riscattarlo, e porto doni infiniti. Abbi rispetto degli dei, Achille, e abbi pietà di me, ricordando tuo padre; io sono ancora più sventurato, io che ho osato – come nessun altro fra i mortali su questa terra – portare alle labbra le mani dell’uomo che ha ucciso mio figlio».

Così parlò Priamo, e in Achille fece sorgere il desiderio di piangere per suo padre; prese il vecchio per mano e lo scostò da sé, dolcemente; tutti e due ricordavano: Priamo, ai piedi di Achille, piangeva per Ettore uccisore di uomini, e Achille piangeva per suo padre e piangeva anche per Patroclo: alto si levava, dentro la tenda, il lamento.

Ma quando Achille glorioso fu sazio di lacrime, quando il desiderio di pianto abbandonò le sue membra e il suo cuore, allora si levò dal seggio, prese il vecchio per mano e lo fece alzare; e compiangendo i capelli bianchi e la bianca barba del vecchio, si rivolse a lui con queste parole:

«Infelice, quante sventure hai patito nell’animo; come hai osato venire alle navi dei Danai, da solo, presentarti agli occhi dell’uomo che ti ha ucciso tanti figli valenti? Hai un cuore di ferro. Ma ora siedi su questo seggio, chiudiamo nell’animo, per quanto sia grande, la nostra angoscia; a nulla servono pianti e lamenti: hanno stabilito gli dei che gli infelici mortali vivano nel dolore, mentre loro non conoscono affanni. Nella dimora di Zeus vi sono due grandi orci che ci dispensano l’uno i mali, l’altro i beni; li mescola il dio delle folgori, e colui a cui ne fa dono riceve ora un male ora un bene; e chi riceve dolori diventa un miserabile, una insaziabile fame lo spinge per tutta la terra e lui va errando, disprezzato dagli dei, odiato dagli uomini. Ecco: gli dei diedero a Peleo splendidi doni fin dalla nascita; era superiore a tutti gli uomini per ricchezza e fortuna, era re dei Mirmidoni, e benché fosse mortale gli diedero come sposa una dea; ma poi gli inflissero anche una sventura, perché nel suo palazzo non sono nati figli destinati a regnare, un solo figlio è nato, dal breve destino; e io non sono lì per aver cura di lui nella sua vecchiaia, sono qui a Troia, molto lontano dalla mia patria, sono qui per la rovina tua e dei tuoi figli. E anche tu, vecchio, lo sappiamo, eri felice un tempo: nella terra racchiusa fra Lesbo, sede di Macaro, la Frigia e il vasto Ellesponto, eri superiore a tutti, per la tua ricchezza, per i tuoi figli; ma poi gli dei celesti ti hanno inflitto questo dolore, di vedere intorno alla tua città battaglie e carneficine. Fatti forza e non tormentarti senza tregua nell’animo; a nulla ti servirà piangere su tuo figlio, non lo farai rivivere e forse dovrai patire qualche altra sciagura».

Gli disse allora il vecchio re Priamo simile a un dio:

«Non farmi sedere, prediletto da Zeus, fino a che Ettore giace nella tenda, insepolto, ridammelo presto, che io lo veda con i miei occhi; e tu accetta i doni che ti ho portato in gran quantità; che tu possa goderne e possa tornare nella tua terra, tu che mi hai lasciato vivere e vedere la luce del sole».

Lo guardò irritato e rispose Achille dai piedi veloci:

«Non provocarmi, ora, vecchio; so che devo ridarti il corpo di Ettore, è venuto a dirmelo un messaggero di Zeus, mia madre, colei che mi ha dato la vita, la figlia del vecchio dio del mare. E so anche, Priamo, so bene che è stato un dio a guidarti fino alle navi veloci dei Danai; nessun uomo mortale oserebbe venire al nostro campo, neppure se giovane e vigoroso; non sfuggirebbe alle guardie e non smuoverebbe facilmente la sbarra della mia porta. Non provocare, dunque, il mio animo che soffre o non ti lascerò rimanere nella mia tenda, vecchio, anche se sei un supplice, e trasgredirò così il volere di Zeus».

Così disse, e il vecchio tremò di paura e obbedì al comando.

Come un leone intanto il figlio di Peleo si era slanciato fuori dalla porta; non era solo, lo seguivano due scudieri, il guerriero Automedonte ed Alcimo: dopo la morte di Patroclo erano quelli che Achille amava di più tra i suoi compagni; essi staccarono dal giogo i muli e i cavalli, fecero entrare l’araldo del vecchio e lo fecero sedere; tolsero dal carro ben lavorato l’immenso riscatto per il corpo di Ettore; ma lasciarono due teli di lino e una tunica dal fine tessuto per avvolgere il corpo quando Achille lo avesse restituito perché lo riportassero a casa. E l’eroe chiamò le schiave e ordinò che lavassero e poi ungessero d’olio il cadavere, ma prima lo fece portare lontano perché Priamo non lo vedesse, e vedendolo, per il dolore, non riuscisse a trattenere la collera ed egli allora non si irritasse al punto di ucciderlo, trasgredendo così il volere di Zeus. Lavarono il corpo e lo unsero d’olio le schiave, poi lo vestirono con la tunica e nel telo splendente lo avvolsero; Achille stesso lo sollevò e lo depose sul letto funebre; i compagni lo misero poi sul carro ben fatto. E Achille pianse chiamando per nome l’amico:

«Non adirarti con me, Patroclo, se nel regno di Ade verrai a sapere che ho restituito il valoroso Ettore al padre, in cambio di un riscatto non disprezzabile; di questo darò anche a te la parte che ti è dovuta».

Così parlò Achille glorioso e tornò alla sua tenda, prese posto sul trono prezioso da cui si era alzato – il trono che si trovava di fronte a quello di Priamo – e si rivolse al re con queste parole:

«Ti è stato reso il figlio, vecchio, come chiedevi, ora giace sopra il letto funebre; al sorgere dell’alba lo vedrai, quando sarà il momento di portarlo via. Ma ora pensiamo a mangiare. Anche Niobe, Niobe dai bei capelli, si ricordò del cibo, lei che perdette dodici figli nella sua casa, sei fanciulle e sei giovani nel fiore degli anni. Adirato con Niobe, Apollo le uccise i figli con il suo arco d’argento, le figlie gliele uccise Artemide, signora dei dardi, perché lei si vantava di essere uguale a Latona, la dea dal bellissimo volto; Latona aveva generato due figli – diceva -, lei invece molti di più; ma fu rono proprio quei due a uccidere tutti i suoi figli. Per nove giorni giacquero a terra i figli di Niobe, immersi nel sangue, non c’era nessuno che potesse dar loro sepoltura perché il figlio di Crono aveva trasformato gli uomini in pietra; gli dei celesti li seppellirono, il decimo giorno. E tuttavia anche Niobe pensò al cibo, dopo essersi saziata di lacrime; e adesso, tra le rocce, nella solitudine dei monti, sul Sipilo dove si narra vi siano le dimore delle ninfe divine che danzano in riva all’Acheloo, qui Niobe, mutata in pietra, cova i dolori che le hanno inflitto gli dei. Anche noi ora, nobile vecchio, anche noi pensiamo a mangiare; potrai piangere tuo figlio più tardi, quando lo avrai riportato a Ilio: allora verserai molte lacrime».

Così disse Achille dai piedi veloci; poi si alzò e uccise un candido ariete; i compagni lo scuoiarono e lo prepararono secondo le regole, lo tagliarono a pezzi, abilmente, infilarono i pezzi sugli spiedi, li arrostirono con ogni cura, poi tolsero tutto dal fuoco; Automedonte prese il pane, lo mise nei bei panieri e lo distribuì sulla tavola; Achille divise la carne; ed essi tesero le mani verso i cibi preparati e imbanditi. Quando furono sazi di cibo e bevande, allora Priamo figlio di Dardano guardava Achille, ammirando la sua bella persona: sembrava un dio, a vederlo. Achille a sua volta guardava il figlio di Dardano, Priamo, e ammirava il suo nobile aspetto, ascoltando le sue parole. A lungo si contemplarono l’uno con l’altro, poi il vecchio re Priamo simile a un dio incominciò a parlare per primo:

«Figlio di Zeus, provvedi perché io abbia un letto al più presto ed entrambi possiamo dormire e godere il sonno soave; sui miei occhi le palpebre non si sono mai abbassate dal giorno in cui mio figlio per mano tua ha perso la vita; senza tregua io piango in preda a infinito dolore rotolandomi nel fango del mio cortile; e oggi soltanto ho assaggiato del cibo e ho inghiottito il vino fulgente; prima non riuscivo a mangiare nulla».

Disse, e subito Achille ordinò ai compagni e alle schiave di preparare un giaciglio nel portico, di mettervi sopra belle coperte di porpora, e stendere dei tappeti e ancora mantelli di lana con cui avvolgersi; uscirono dalla tenda le schiave con le fiaccole in mano e prepararono rapidamente due letti. E Achille dai piedi veloci disse a Priamo:

«Tu dormirai là fuori, vecchio: qualcuno degli Achei che prendono parte al consiglio potrebbe venire qui – vengono sempre a sedersi e a tenere consulto -, e se ti vedessero nella notte rapida e oscura subito andrebbero a dirlo ad Agamennone, signore di eserciti, e il riscatto del morto subirebbe un ritardo… Ma ora parla e dimmi chiaramente, quanti giorni desideri per celebrare i funerali del nobile Ettore? Per tutto questo tempo io non voglio combattere e tratterrò anche l’esercito».

Gli rispose il vecchio re simile a un dio:

«Se mi concedi di celebrare il funerale di Ettore glorioso, se lo farai, Achille, avrai la mia gratitudine. Siamo assediati nella città, tu lo sai, sono lontani i monti da cui dobbiamo prendere legna, e i Troiani hanno molta paura. Per nove giorni lo piangeremo nel palazzo reale, il decimo sarà sepolto e avrà luogo il banchetto funebre, l’undicesimo innalzeremo il tumulo, e il dodicesimo, se è necessario, torneremo a combattere».

A lui disse allora il divino Achille dai piedi veloci:

«Sarà così come vuoi, vecchio re Priamo; sospenderò la battaglia per tutto il tempo che hai chiesto».

Così parlò e posò la sua mano sulla mano destra del vecchio perché non avesse più timore nell’animo. Dormirono dunque là, nel vestibolo, Priamo e il suo araldo, uomini dai saggi pensieri; Achille invece dormiva all’interno della sua tenda ben costruita e accanto a lui si distese Briseide, la bella.

Nella notte tutti dormivano, gli dei e gli eroi che montano i carri, tutti erano in preda al sonno soave; ma non dormiva Hermes, il benefico iddio, e meditava nell’animo come allontanare dalle navi il re Priamo, eludendo la guardia delle sentinelle alle porte. Gli apparve dunque in sogno e gli disse:

«Vecchio, poiché Achille ti ha risparmiato la vita, non pensi al pericolo, non pensi che stai dormendo in mezzo ai nemici; hai riscattato tuo figlio, hai pagato un altissimo prezzo; ma per te, se ti prendessero vivo, tre volte tanto dovrebbero pagare i figli che ti sono rimasti, se lo sapesse Agamennone figlio di Atreo, se tutti gli Achei lo sapessero».

Disse così e il vecchio ebbe paura e fece alzare il suo araldo; Hermes aggiogò per loro i muli e i cavalli, lui stesso li guidò velocemente attraverso il campo, nessuno si accorse di loro. Ma quando furono giunti al guado dello Xanto, il fiume dalle belle acque e dai gorghi profondi, figlio di Zeus immortale, allora al vasto Olimpo Hermes fece ritorno.

L’Aurora dal colore dell’oro si stendeva su tutta la terra ed essi, in lacrime, lanciavano i cavalli verso la città mentre i muli trasportavano il corpo. Nessuno li vide, nessuno dei cittadini e delle donne dalla bella figura, solo Cassandra, simile alla bionda Afrodite, Cassandra che era salita sulla rocca di Pergamo, riconobbe suo padre che stava in piedi sul carro, con accanto l’araldo dalla voce sonora; e vide il corpo di Ettore steso sul letto funebre trasportato dai muli; scoppiò in singhiozzi e poi la sua voce risuonò per tutta la città:

«Venite, uomini e donne di Troia, venite a vedere Ettore, se mai un tempo avete esultato vedendolo tornare, vivo, dalla battaglia, per la gioia della città e di tutto il suo popolo».

Queste parole disse, e nessun uomo, nessuna donna, nessuno rimase in città; colpiti da immenso dolore, si raccolsero tutti presso le porte per incontrare colui che portava il corpo di Ettore. Davanti a tutti la moglie e la nobile madre strappandosi i capelli si gettarono sul carro dalle belle ruote, con le mani accarezzavano la testa del morto. Intorno a loro la folla piangeva.

Priamo

E tutti videro il re rotolarsi nel fango, impazzito dal dolore. Vagava dall’uno all’altro a supplicare che lo lasciassero andare alle navi degli Achei a riprendersi il corpo del figlio. Con la forza, dovettero tenerlo fermo, il vecchio pazzo. Per giorni rimase seduto in mezzo ai figli, chiuso nel suo mantello. Solo pena e lamenti, intorno a lui. Piangevano, uomini e donne, tutti, ripensando agli eroi perduti. Il vecchio aspettò che il fango si indurisse tra i suoi capelli e sulla sua pelle bianca. Poi, una sera, si alzò. Andò nel talamo e fece chiamare la sua sposa, Ecuba. E quando l’ebbe di fronte le disse: “Io devo andare laggiù. Porterò doni preziosi che addolciranno l’animo di Achille. Io devo farlo” . Ecuba prese a disperarsi. “Mio dio, dov’è finita la saggezza per cui andavi famoso? Vuoi andare alle navi, tu, da solo, vuoi finire davanti all’uomo che tanti figli ti ha ucciso? Quello è un uomo spietato, cosa credi, che avrà pietà di te, e rispetto? Stattene qui a piangere nella tua casa, per Ettore noi non possiamo fare più niente, era il suo destino farsi divorare dai cani lontano da noi, preda di quell’uomo a cui strapperei il fegato a morsi.” Ma il vecchio re le rispose: “Io devo andare laggiù. E non sarai tu a fermarmi. Se è destino che io muoia presso le navi degli Achei, ebbene, morirò: ma non prima di aver stretto tra le braccia mio figlio, e pianto tutto il mio dolore su di lui”.
Così disse, e poi fece aprire tutti gli scrigni più preziosi. Scelse dodici pepli bellissimi,  dodici mantelli, dodici coperte, dodici teli di lino candido, e dodici tuniche. Pesò dieci talenti d’oro, e prese due tripodi lucenti, quattro lebeti e una coppa meravigliosa, dono dei Traci. Poi corse fuori e a tutta quella gente che piangeva in casa sua si mise a gridare, furibondo “Andatevene via, miserabili, infami, non avete una casa vostra dove andare a piangere?, dovete proprio stare qui a tormentarmi, non vi basta che Zeus mi abbia tolto Ettore, che di tutti i miei figli era il migliore, sì, il migliore, mi avete sentito bene, mi hai sentito, Paride?, e tu, Deifobo, e voi Polite, Agatone, Eleno, lui era il figlio migliore, miserabili, perché non siete morti voi al posto suo? eh? io li avevo figli valorosi, ma tutti li ho perduti, e mi sono rimasti i peggiori, i vanitosi, i bugiardi, quelli buoni solo a danzare e a rubare. Cosa aspettate, infami, uscite da qui e andate a preparare un carro, subito, io devo mettermi in cammino”. Tremavano tutti, davanti alle grida del vecchio re. E dovevate vederli, come corsero via, a preparare un carro e a caricarlo con tutti i doni, e poi i muli e i cavalli, tutto… Nessuno discuteva più. Quando tutto fu pronto arrivò Ecuba. Teneva nella mano destra una coppa piena di dolce vino. Si avvicinò al vecchio re e gliela porse. “Se proprio vuoi andare”, gli disse, “Contro il mio volere, brinda almeno a Zeus, prima, e pregalo di farti tornare vivo.” Il vecchio re prese in mano la coppa e poiché la sua sposa glielo chiedeva la alzò al cielo e pregò Zeus di avere pietà, e di fargli trovare amicizia e compassione là dove sarebbe andato. Poi salì sul suo carro. Tutti i doni li avevano caricati su un secondo carro, guidato da Ideo, l’araldo pieno di saggezza. Se ne partirono, il
re e il fedele servitore, senza scorta, senza guerrieri, soli, nel buio della notte.
Quando arrivarono al fiume si fermarono, per far bere le bestie. E fu lì che videro  quell’uomo avvicinarsi, sbucato dal nulla, dal buio. “Scappiamo, mio re”, disse subito Ideo, impaurito. “Scappiamo o quello ci ucciderà.” Ma io non riuscivo a muovermi, ero impietrito dalla paura, vedevo quell’uomo avvicinarsi sempre di più, e non riuscivo a far nulla. Venne verso di me, proprio verso di me, e mi porse la mano. Aveva l’aspetto di un principe, giovane e bello. “Dove stai andando, vecchio padre?”, disse. “Non temi il furore degli Achei, tuoi mortali nemici? Se qualcuno di loro ti vede mentre trasporti tanti tesori, che cosa farai? Non siete più giovani, voi due, come potrete difendervi se qualcuno vi assale? Lasciate che vi difenda io, non voglio farvi del male: tu mi ricordi mio padre.” Sembrava che un dio lo avesse messo sulla nostra strada. Credeva che fossimo scappati da Ilio, che la città fosse in preda al terrore, e noi due ce ne fossimo scappati con tutte le ricchezze che eravamo riusciti a prendere con noi. Sapeva della morte di Ettore, e pensava che i Troiani si fossero dati alla fuga. E quando parlò di Ettore, disse: non era inferiore a nessuno degli Achei, in battaglia. “Ah, giovane principe, ma chi sei tu, che parli così di Ettore?” E lui disse che era un Mirmidone, che era venuto in guerra seguendo Achille e adesso era uno dei suoi scudieri.
Disse che lui Ettore l’aveva visto mille volte combattere, e se lo ricordava quando aveva attaccato le navi. E disse che veniva dall’accampamento degli Achei, dove tutti i guerrieri stavano aspettando l’aurora per attaccare nuovamente Troia. “Ma se vieni da lì, allora l’avrai visto, Ettore, dimmi la verità, è ancora nella tenda di Achille o lo hanno già buttato in pasto ai cani?” “né cani né uccelli l’hanno divorato, vecchio”, rispose. “Puoi non crederci, ma il suo corpo è rimasto intatto. Dodici giorni sono passati dalla sua uccisione, eppure sembra appena morto. Ogni giorno, all’alba, Achille lo trascina senza pietà intorno alla tomba di Patroclo, per oltraggiarlo, e ogni giorno il corpo resta intatto, le ferite si chiudono, il sangue sparisce. Qualche dio veglia su di lui, vecchio: anche se è morto, qualche dio lo ama.” Ah, ascoltavo quelle parole con una gioia nel cuore… Gli offrii quella coppa, la coppa che avevo preso per Achille, gliela offrii e gli chiesi se in cambio riusciva a farci entrare nell’accampamento acheo. “Vecchio, non mettermi alla prova”, disse. “Non posso accettare doni da te all’insaputa di Achille. Chi ruba qualcosa a quell’uomo va incontro a grandi disgrazie. Ma senza compenso, io ti guiderò da lui. E vedrai che, con me, nessuno oserà fermarti.” così disse, e salì sul carro, prendendo le redini e spronando i cavalli. E quando arrivò al fossato, e al muro, nulla gli dissero le sentinelle, passò attraverso le porte aperte, e veloce ci guidò fino alla tenda di Achille.
Era maestosa, sorretta da tronchi di abete e circondata da un grande cortile. La porta, enorme, era di legno. Quell’uomo la aprì, e mi disse di entrare. “Non è bene che Achille mi veda, vecchio. Ma tu non tremare, va’ e inginocchiati davanti a lui. Possa tu commuovere il suo duro cuore.” Allora il vecchio re entrò. Lasciò Ideo a sorvegliare i carri. Ed entrò nella tenda di Achille.
C’erano alcuni uomini che si affaccendavano intorno alla tavola ancora imbandita. Achille era seduto in un angolo, solo. Il vecchio re gli si avvicinò senza che nessuno se ne accorgesse. Avrebbe forse potuto ucciderlo. Ma invece cadde ai suoi piedi, e abbracciò le sue ginocchia. Achille rimase stupefatto, impietrito dalla sorpresa. Priamo gli prese le mani, le mani terribili che tanti figli gli avevano ucciso, e se le portò alle labbra, e le baciò. “Achille, tu mi vedi, sono vecchio ormai. Come tuo padre, ho passato la soglia della triste vecchiaia. Ma lui almeno sarà nella sua terra a sperare di
rivedere un giorno il figlio, di ritorno da Troia. Immensa invece è la mia sventura: cinquanta figli, avevo, per difendere la mia terra, e la guerra me li ha portati via quasi tutti; non mi era rimasto che Ettore, e tu l’hai ucciso, sotto le mura della città di cui era l’ultimo ed eroico difensore. Sono venuto fin qui per riportarmelo a casa, in cambio di splendidi doni. Abbi pietà di me, Achille, nel ricordo di tuo padre: se hai pietà di lui abbi pietà di me che, unico fra tutti i padri, non ho avuto vergogna di baciare la mano che ha ucciso mio figlio.” Gli occhi di Achille si riempirono di lacrime. Con un gesto della mano scostò da sé Priamo, con dolcezza. Piangevano, i due uomini, nel ricordo del padre, del ragazzo amato, del figlio. Le loro lacrime, in quella tenda, nel silenzio. Poi Achille si levò dal suo seggio, prese il vecchio re per mano e lo fece alzare. Guardò i suoi capelli bianchi, la bianca barba, e commosso gli disse: “Tu, infelice, che tante sventure hai patito nell’animo. Dove hai trovato il coraggio per venire fino alle navi degli Achei e inginocchiarti davanti all’uomo che ti ha ucciso tanti figli valorosi? Hai un cuore forte, Priamo. Siediti qui, sul mio seggio. Dimentichiamo insieme l’angoscia, che tanto piangere non serve. E destino degli uomini vivere nel dolore, e solo gli dei vivono felici. E la sorte, imperscrutabile, che dispensa bene e male. Mio padre, Peleo, era un uomo fortunato, primo fra tutti gli uomini, re nella sua terra, sposo di una donna che era una dea: eppure la sorte gli diede un solo figlio, nato per regnare, e adesso quel figlio, lontano da lui, corre veloce verso il suo destino di morte, seminando la rovina tra i suoi nemici. E tu, che eri così felice un tempo, re di una grande terra, padre di molti figli, padrone di una fortuna immensa, adesso sei costretto ogni giorno a svegliarti in mezzo alla guerra e alla morte. Sii forte, vecchio, e non tormentarti: piangere tuo figlio non lo riporterà in vita”. E con un gesto invitò il vecchio re a sedersi, sul suo seggio. Ma quello non volle, disse che voleva vedere il corpo del figlio, coi suoi occhi, solo quello voleva, non voleva sedersi, voleva suo figlio. Achille lo guardò irritato. “Adesso non farmi arrabbiare, vecchio. Ti ridarò tuo figlio, perché se sei arrivato vivo fin qui, vuol dire che è stato un dio a guidarti, e io non voglio dispiacere agli dei. Ma non farmi arrabbiare, perché sono anche capace di disubbidire agli dei.” Il vecchio re tremò di paura, allora, e si sedette, come gli era stato ordinato. Achille se ne uscì dalla tenda, coi suoi uomini. Andò a prendersi i preziosi doni che Priamo aveva scelto per lui. E due teli di lino, e una tunica, lasciò sul carro, perché vi avvolgessero il corpo di Ettore quando sarebbe stato pronto per essere riportato a casa. Poi chiamò le schiave e ordinò loro di lavare e ungere il cadavere dell’eroe, e di fare tutto questo in disparte, perché gli occhi di Priamo non vedessero, e non dovessero soffrire. E quando il corpo fu pronto, Achille stesso lo prese tra le braccia, lo sollevò e lo depose sul letto funebre. Poi tornò nella tenda e si sedette di fronte a Priamo. “Ti è stato reso il figlio, vecchio, come tu volevi. All’alba lo vedrai, e te lo potrai portare via. E adesso ti ordino di mangiare con me.” Prepararono una sorta di banchetto funebre, e quando il pasto fu finito, rimanemmo là, uno di fronte all’altro a parlare, nella notte. Non riuscivo a non ammirare la sua bellezza, sembrava un dio. E lui mi stava ad ascoltare, in silenzio, rapito dalle mie parole. Per quanto possa sembrare incredibile, passammo quel tempo ad ammirarci. Tanto che alla fine, dimenticando dov’ero, e perché ero lì, io chiesi un letto, perché erano giorni che non dormivo, trafitto dal dolore: e me lo prepararono, con tappeti preziosi e coperte di porpora, in un angolo, perché nessuno degli altri Achei mi vedesse. Quando tutto fu pronto, Achille venne da me e mi disse: “Fermeremo la guerra per darti il tempo di onorare tuo figlio, vecchio re”. E poi mi prese la mano, e la strinse, e io non ebbi più paura.
Mi svegliai nel cuore della notte, che tutti dormivano, intorno a me. Dovevo essere impazzito perpensare di aspettare l’alba là. Mi alzai, in silenzio, andai ai carri, svegliai Ideo, attaccammo i cavalli e, senza che nessuno ci vedesse, partimmo. Attraversammo nel buio la pianura. E quando l’Aurora dal colore d’oro scivolò su tutta la terra, arrivammo alle mura di Troia. Dalla città ci videro le donne e si misero a gridare che il re Priamo era tornato, e con lui il figlio Ettore, e tutti si riversarono fuori dalle porte, correndoci incontro. Tutti volevano accarezzare la bella testa del morto, piangendo e alzando sordi lamenti. A fatica il vecchio re riuscì a spingere i carri fin dentro le mura, e poi nella reggia. Presero Ettore e lo posero su un letto intarsiato. Intorno a lui si alzò il lamento funebre. E le donne, una ad una, gli andarono accanto, e tenendo la sua testa tra le mani gli dissero addio.

A. BARICCO, Iliade, Feltrinelli, 2004

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