Brixia. Roma e le genti del Po

Santuario Repubblicano a Brescia
Arte e battaglie così nacque la prima Italia
Quasi cinquecento reperti raccontano una vita culturale vivace che formò anche poeti come Virgilio e Catullo

Giuseppe M. Della Fina, “La Repubblica”,  9 maggio 2015
LA MOSTRA Brixia. Roma e le genti del Po presenta un filo rosso costituito dalla documentazione archeologica: un mondo di oggetti, rinvenuti per caso o a seguito di scavi programmati (alcuni recentissimi), che riesce a fornire un’idea concreta sui tempi e i modi della romanizzazione dei Liguri, dei Celti e dei Veneti ovvero di alcuni dei popoli che costituirono il mosaico etnico e culturale della prima Italia.
Opere d’arte o semplici utensili che — seppure con una forza diversa — riescono a parlare di uomini e donne che si scontrarono e incontrarono riuscendo a trovare un equilibrio pienamente soddisfacente e destinato a durare per secoli.
Una storia che iniziò sul campo di battaglia di Sentino (presso Sassoferrato, nelle Marche attuali) dove un esercito costituito da Celti, Etruschi, Umbri e Sanniti affrontò quello di Roma e dei suoi alleati in uno degli scontri più sanguinosi dell’Italia antica: 100.000 sarebbero stati i morti per lo storico greco Duride, 25.000 per Tito Livio. Un’intera generazione venne segnata da quella battaglia: una parte consistente vi cadde, un’altra ne portò i segni, o il triste ricordo.
Una vicenda che proseguì su un altro campo di battaglia nei pressi di Talamone, in Toscana, dove un esercito composto da diverse tribù celtiche (Boi e Insubri alleati con Taurisci e Gesati) venne circondato e distrutto da quello romano settant’anni dopo Sentino. Una rivoluzione — la romanizzazione — i cui esiti finali furono, comunque, “campi arati da orefici” ricorrendo a una definizione di Pier Paolo Pasolini; città degne di nota come suggeriscono, tra l’altro, proprio i monumenti di epoca romana di Brescia (il Capitolium, il teatro, alcune domus) valorizzati negli ultimi anni, o le collezioni stabili del Museo di Santa Giulia; una vita culturale vivace nel cui ambito si formarono poeti latini di primo piano: Catullo e Virgilio, su tutti.
Lungo il percorso espositivo, articolato in dodici sezioni, il racconto di questo incontro di culture è affidato a quasi 500 reperti. Tra essi spicca sicuramente il frontone di Talamone fatto realizzare dai vincitori per celebrare — ancora decenni dopo — lo scontro del 225 a. C. valutato come decisivo per l’espansione nella Valle Padana.


L’opera realizzata in terracotta rappresenta il mito dei Sette contro Tebe: ai lati sono i carri da guerra di Anfiarao, trascinato agli Inferi, e di Adrasto, in fuga dalla battaglia, entrambi accompagnati da demoni e furie; in posizione centrale, in basso, si trova Edipo tra i due figli morenti, Eteocle e Polinice: il primo è sorretto dalla madre Giocasta, l’altro da un compagno d’armi; il vertice del frontone è occupato da Capaneo raffigurato nel tentativo di scalare le mura della città con accanto altri due guerrieri e una portatrice di fiaccola. Sullo sfondo del frontone, in secondo piano, sono altri guerrieri. Il mito dei Sette contro Tebe , riproposto in chiave simbolica, alludeva al fallimento dell’attacco ad una città e alla sua forza sociale, militare e culturale. Tebe, quindi, come Roma e viceversa.
D’impatto minore, ma altrettanto significativa è la stele di Ostiala Gallenia proveniente dall’area veneta: l’epigrafe è in latino, le due figure maschili indossano tunica e toga, mentre la donna è raffigurata ancora nel suo costume venetico.

Un altro reperto attrae l’attenzione: si tratta di un grande ciottolo di fiume che reca un’iscrizione tracciata in maniera non curata e su una sola riga: vi si ricorda il consolato di Marco Tullio Cicerone nel 63 a. C., nell’anno della congiura di Catilina.

Quelle antiche civiltà che incrociavano Roma sulle rive del Po
Da oggi al Museo Santa Giulia di Brescia un percorso archeologico e multimediale sugli scambi tra la Repubblica e i popoli del nord
Marino Niola

Il Po ha un’anima e la gente di fiume la conosce bene. È la vox populi che scorre e si rincorre dalle Alpi al mare. Diramandosi tra correnti e affluenti, campagne rigogliose e popoli ingegnosi. Quelli che nei secoli hanno dato vita alle civiltà che sono nate da queste acque generose. E che ne hanno mutuato il carattere. Forza tranquilla e perseveranza incrollabile, senso pratico e visionarietà poetica. Quella di Cesare Zavattini e di Enzo Ferrari. Di Carlo Emilio Gadda e di Ermanno. Olmi. Per non dire del sommo Virgilio mantovano.
Per risalire verso le sorgenti materiali e spirituali dell’ethos e dell’etnos padani la Soprintendenza Archeologia della Lombardia, con la Direzione Generale Archeologia del Mibact e il Comune di Brescia e Brescia Musei organizzano la mostra intitolata Roma e le genti del Po. Un incontro di culture. III-I secolo a. C. (Museo di Santa Giulia, Brescia, da oggi al 17 gennaio 2016) con la coproduzione di GAmm Giunti, che pubblica anche il catalogo.
In realtà quello fra l’antica Roma e gli abitanti del grande fiume è stato un incontro epocale, destinato a disegnare con un tratto indelebile il profilo dell’Italia. Fra paci e guerre, colonizzazioni e ribellioni. Fondazioni e distruzioni di città. Scambi di conoscenze e rivoluzioni territoriali. Come le centuriazioni augustee che hanno lasciato un segno decisivo nel paesaggio agrario padano, assieme a tutti quei disboscamenti e bonifiche che hanno messo a coltura queste terre. Il risultato è quell’immensa distesa produttiva che Napoleone definiva la pianura più feconda del mondo. Solcata da grandi strade consolari, come la via Emilia, che scorre anche lei come un fiume di pietra attraversando presente e passato di questo straordinario intreccio di epoche e di culture. Che spiana il tempo nello spazio, la durata nella distesa. Ci sono luoghi dove la stratificazione è verticale, pietra su pietra, ricordo su ricordo. Dove la storia prende l’aspetto immemoriale di una geologia. E luoghi come la Pianura padana dove invece la stratificazione è orizzontale, e le tracce delle epoche differenti si dispongono le une accanto alle altre, in itinerari spaziali percorribili. Allineando, come suggerisce questa mostra, reperti preistorici, elmi italici, manufatti camuni, falere celtiche, bronzi veneti e affreschi romani, mosaici bizantini e sculture romaniche. In fondo il mormorio lento del Po ci ricorda che la storia stessa ha l’andamento e il comportamento del fiume. Ora impetuoso, ora placido, a tratti tortuoso a tratti lineare.
Giovanni Guareschi, creatura fluviale fin nel midollo, amava dire che sul Po accadono cose che non accadono in nessun altro luogo. Anche perché le voci della pianura corrono liquide e trasfigurano le persone, i ricordi, i luoghi, le opere. Li trasformano in personaggi, in epica, in mitologia, in musica. Dalla morte di Fetonte, il figlio del Sole caduto nell’Eridano, antico nome del fiume, al passaggio degli elefanti di Annibale. Dalle gesta di Adelchi ed Ermengarda, eroi della Longobardia manzoniana, alla calata dei Lanzichenecchi, fino a quella delle truppe naziste. Dagli splendori dei Gonzaga che fanno di Mantova un’autentica capitale acquatica, liquida come la polifonia di Claudio Monteverdi e raffinatamente erotica come gli affreschi mitologici di Giulio Romano. Alle meraviglie della Ferrara estense che trasformano in materia architettonica i palazzi incantati delle maliarde ariostesche.
Grande regno del frumento e del latte, diceva Guido Piovene di questa terra. Ma non solo. Perché qui il dolciastro estenuante della barbabietola si mescola all’odore d’acqua scaldata dall’estate, trasformando questa campagna in un’iperbolica anguria che svapora sotto un sole giaguaro. È il miraggio padano, la bellezza narcotica di una pianura totale, dove i borghi, le contrade e le frazioni sono perdute in uno sprofondo vegetale rigato dai canali che saettano tra i campi come bisce e dai mille bracci splendenti, in cui la grande acqua dirama fino ad aprirsi nel ventaglio del delta.
E alla fine del fiume si distendono le valli, oscillanti tra periodi di magra e periodi di grassa, come in un pendolo biblico obbediente al volere del dio liquido. Che le genti del Po hanno imparato a blandire e a pregare. Come Don Camillo, il parroco nato dalla fantasia di Guareschi, che porta il paese in processione per scongiurare la piena. Non senza il sostegno del comunista Peppone. Esattamente quel che ha fatto qualche tempo fa il parroco di Brescello don Evandro Gherardi, che ha portato il Cristo sulla riva del fiume alla presenza del sindaco e delle autorità.
In realtà quella delle genti del Po è una storia colta e popolare, di corti signorili e di lotte contadine, fatta apposta per produrre racconto. In fondo come dice Paolo Rumiz nel suo bel libro Morimondo, un fiume è una narrazione già fatta.
E non a caso il cinema ha sempre amato queste rive e il popolo che le abita. Da Gente del Po, il primo film di Michelangelo Antonioni, a La donna del fiume di Mario Soldati, altro grande cantore della valle del Po, cui dedicò un memorabile viaggio televisivo che resta un esempio insuperato di come si può raccontare una cultura attraverso il cibo che ama. Fino a Riso amaro , di Giuseppe De Santis che risale le correnti dell’immaginario socialista per celebrare l’epopea del lavoro in risaia. Immortalata nell’acuto dissonante e tagliente di cantanti folk come la mondina Giovanna Daffini, la “proletaria che giammai tremò” davanti a nessun padrone dalle belle braghe bianche. Tanto che al suo funerale, quando il prete pronunciò la formula rituale “Signore accogli l’anima della tua serva Giovanna”, il marito sbottò, “Mai fatto la serva a nessuno!”.
Anche se il grande monumento cinematografico del riscatto contadino resta Novecento, il capolavoro di Bernardo Bertolucci, drammatico affresco verdiano che trasforma il patire e il sentire padani in un tratto caratteristico dell’anima nazionale. Proprio come le melodie di Verdi. Che danno parole e musica all’unità del paese. Ecco perché, proprio in quanto italiani, non possiamo non dirci gente del Po.

 
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Elena in versi

Dante Gabriel Rossetti, Elena di Troia, 1863, olio su pannello, 31 x 26,6 cm, Amburgo, Kunsthalle.

Dante Gabriel Rossetti, Elena di Troia, 1863, olio su pannello, 31 x 26,6 cm, Amburgo, Kunsthalle.

Edgar Allan Poe,  To Helen, 1831. La lirica è dedicata a Elena Jane Stannard

HELEN, thy beauty is to me
Like those Nicæan barks of yore,
That gently, o’er a perfumed sea,
The weary, wayworn wanderer bore
To his own native shore.

On desperate seas long wont to roam,
Thy hyacinth hair, thy classic face,
Thy Naiad airs, have brought me home
To the glory that was Greece
And the grandeur that was Rome.

Lo! in yon brilliant window-niche
How statue-like I see thee stand,
The agate lamp within thy hand!
Ah, Psyche, from the regions which
Are Holy Land!

La tua bellezza Elena è per me 
Come quei legni di Nicea d’un tempo,

Che adagio per un odoroso mare
Portavano lo stanco e tediato viaggiatore
Alla riva natia. 

Per mari disperati abituato a errare, 
I tuoi capelli di giacinto, il puro viso, 
Le grazie tue di Naiade mi han riportato
Alla gloria che fu di Grecia
Alla grandezza di Roma. 

Ed ecco! nella nicchia splendente 
Simile ad una statua tu m’appari 
Con la lampada d’agata in mano! 
Ah! Psiche, venuta da quelle regioni 
Che sono Terra-Santa!

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Filosofia dello straniero


“Come è stato ormai definitivamente dimostrato, nelle lingue indoeuropee il termine che designa lo straniero contiene contemporaneamente in sé l’intero repertorio delle accezioni semantiche dell’alterità, e cioè il forestiero, l’estraneo, il nemico – ma anche lo strano, lo spaesante – in una parola tutto ciò che è altro da noi, anche se con noi viene comunque in rapporto. Questa indistinzione di significati risulta con particolare evidenza dai termini che ritroviamo in latino e greco, e che poi ricompaiono, sia pure con variazioni lessicali e semantiche significative, anche in alcune lingue moderne.

In latino, per un lungo periodo, straniero si dice hostis. Contrapposto al cittadino, all’ingenuus, a colui che appartiene per nascita, dunque per sangue e cultura, alla comunità originaria di riferimento, il termine hostis, che indica lo straniero, concentra in se’ tutte le figure dell’alterità, senza tuttavia coincidere affatto – come accadrà invece molto più tardi – con una caratterizzazione “ostile”, senza cioè riferirsi unicamente a colui che venga dall’esterno con intenzioni “bellicose”.

Dell’originaria polivalenza del termine hostis troviamo una esplicita testimonianza in un passo del De Officis (I, par. 37), nel quale Cicerone ricostruisce il processo storico che ha condotto a sovrapporre al termine hostis quel significato di inimicus, o perduellis (e cioè “nemico pubblico”), che è invece assente nell’accezione primitiva dello straniero-hostis. Tutto ciò è confermato anche dagli altri termini impiegati per indicare lo straniero. Egli è, infatti, l’advena, vale a dire “colui che viene da fuori”, ovvero è il peregrinus, colui che è al di fuori dei limiti della comunità. In tutti i casi, “non esistono ‘stranieri’ in sé. Nella diversità di queste nozioni, lo straniero è sempre uno straniero particolare, colui che è sottoposto ad uno statuto distinto” [1].

Nella Legge delle XII Tavole, l’hostis era semplicemente colui che non apparteneva al popolo romano, verso il quale tuttavia occorreva far valere i diritti previsti per i cittadini romani [2]. Da questo punto di vista, l’hostis indicava lo straniero quod erat pari iure cum populo romano, vale a dire colui che ai fini del diritto civile era equiparato ai romani. Lo stesso verbo che ritroviamo alla radice di hostis, vale a dire hostire, equivale ad aequare, contraccambiare, uguagliare, o compensare. Entro questo contesto, hostis viene a indicare colui con cui si è in relazione di compenso (hostia prima di avere un valore religioso – sacrificio di bovini che si fa prima di un evento – aveva un significato giuridico e indicava il pareggio dei doni ospitali). Ciò significa che l’hostis era colui che, proveniendo dall’esterno, era stato eguagliato in diritto al cittadino rimano, sulla base di qualche accordo o patto.

Nel suo significato arcaico, l’hostis rinvia dunque all’idea di un rapporto con l’altro, di un legame non originario né naturale, basato sull’obbligo di compensare una qualche prestazione, della quale uno dei contraenti del patto sia stato beneficiario. Solo successivamente il termine hostis assumerà una connotazione antagonistica, agonica, e si caricherà di significato ostili; solo allora lo “straniero” diventerà un nemico. Insomma, “le nozioni di nemico, di straniero, di ospite, che per noi formano tre unità distinte – semantiche e giuridiche – presentano strette connessioni nelle lingue indoeuropee antiche”[3].

Nel mondo latino la non coincidenza tra lo straniero e il nemico risulta anche più evidente se si analizza l’evoluzione dell’espressione hostis, espressione che comunemente indica il nemico. Secondo il celebre “criterio” del politico enunciato da Carl Schmitt nel 1932, “nemico non è il concorrente o l’avversario in generale. Nemico non è neppure l’avversario privato che ci odia in base a sentimenti di antipatia.Nemico è solo il nemico pubblico..il nemico e l’hostis[4]. In una fase successiva, la fase della vera e propria civiltà romana, testimoniata appunto da Cicerone, il termine hostis viene ad indicare il nemico e dalla stessa radice (ghosti) viene coniato il termine hospes per indicare l’ospite.

L’ambivalenza racchiusa nel significato originario ( la reciprocità poteva dar luogo all’ospitalità come alla guerra) si scioglie: l’hostis indica in modo univoco lo straniero con cui si ha un rapporto di belligeranza, l’hospes quello con cui si stabiliscono rapporti di ospitalità. Contemporaneamente, si assiste ad una differenziazione dei termini con cui si definisce colui con cui si hanno rapporti di ostilità a seconda della sua posizione rispetto alla civitas e alle istituzioni politiche: se hostis è il nemico esterno e pubblico, nemico della città di Roma, con cui si combatte, inimicus è il nemico interno e privato, il concittadino con cui si ha una relazione antagonistica fino alla possibilità dell’annientamento fisico, competitor è invece l’avversario in un conflitto d’interessi [5]. In questo senso è lo straniero, in primo luogo, colui che può divenire hostis. Ma l’hostis non esaurisce in alcun modo il significato dello straniero per il quale resta sempre aperta la possibilità di divenire ospite, oggetto di dono e di accoglienza”.

U. CURI, Università di Padova  LEGGI TUTTO…

PER APPROFONDIRE: CLICCA QUI

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Wisława Szymborska e Cassandra

Aiace rapisce Cassandra, 440-430 a.C.,  Museo del Louvre, Parigi

Aiace rapisce Cassandra, 440-430 a.C., Museo del Louvre, Parigi

Wisława Szymborska, Monologo per Cassandra, da Uno spasso, 1967. Traduzione a cura di Pietro Marchesani.

Sono io, Cassandra.
E questa è la mia città sotto le ceneri.
E questi i miei nastri e la verga di profeta.
E questa è la mia testa piena di dubbi.

È vero, sto trionfando.
I miei giusti presagi hanno acceso il cielo.
Solamente i profeti inascoltati
godono di simili viste.
Solo quelli partiti con il piede sbagliato,
e tutto poté compiersi tanto in fretta
come se non fossero mai esistiti.

Ora lo rammento con chiarezza:
la gente vedendomi si interrompeva a metà.
Le risate morivano.
Le mani si scioglievano.
I bambini correvano dalle madri.
Non conoscevo neppure i loro effimeri nomi.
E quella canzoncina sulla foglia verde –
nessuno la finiva in mia presenza.

Li amavo.
Ma amavo dall’alto.
Da sopra la vita.
Dal futuro. Dove è sempre vuoto
e da dove nulla è più facile del vedere la morte.
Mi dispiace che la mia voce fosse dura.
Guardatevi dall’alto delle stelle – gridavo –
guardatevi dall’alto delle stelle.
Sentivano e abbassavano gli occhi.

Vivevano nella vita.
Permeati da un grande vento.
Con sorti già decise.
Fin dalla nascita in corpi da commiato.
Ma c’era in loro un’umida speranza,
una fiammella nutrita del proprio luccichio.
Loro sapevano cos’è davvero un istante,
oh, almeno uno, uno qualunque
prima di –

È andata come dicevo io.
Però non ne viene nulla.
E questa è la mia veste bruciacchiata.
E questo è il mio ciarpame di profeta.
E questo è il mio viso stravolto.
viso che non sapeva di poter essere bello.

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Simic e la guerra di Troia

Hector and the two Ajaxes fight over Patroclus' body

Charles Simic, My Weariness of Epic Proportions, in Hotel insonnia, Adelphi, 2002 (da AUSTERITIES, 1982)

I like it when
Achilles
Gets killed
And even his buddy Patroclus –
And that hothead Hector –
And the whole Greek and Trojan
Jeunesse dorée
Are more or less
Expertly slaughtered
So there’s finally
Peace and quiet
(The gods having momentarily
Shut up)
One can hear
A bird sing
And a daughter ask her mother
Whether she can go to the well
And of course she can
By that lovely little path
That winds through
The olive orchard

Stufo di proporzioni epiche

Mi piace quando
Achille
viene ucciso
e anche il suo compagno Patroclo –
e quella testa calda di Ettore –
e quando tutta la jeunesse dorée
greca e troiana
con maggiore o minore
perizia è trucidata
così che infine
regnano pace e quiete
(gli dèi per un istante
tengono il becco chiuso)
si può sentire
un uccello cantare
e una figlia chiedere alla madre
se può andare al pozzo
e lei, certo, può andarci
per quel grazioso sentiero
che serpeggia
nel boschetto di ulivi

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Il valore delle “humanae litterae”: il dibattito

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Fareed Zakaria, Riumanesimo Dagli Stati Uniti si è scatenata una campagna a favore delle discipline tecniche e scientifiche contro quelle filosofiche e letterarie. È un errore storico Se l’America è leader nel mondo è grazie alla sua capacità di pensarlo e scriverlo

In Francia Fumaroli: “Il latino? Vittima del fanatismo digitale e utilitarista” intervista di Vincent Tremolet De Villers

CLICCA QUI  per leggere gli articoli pubblicati sulla Repubblica” del  12 aprile 2015

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Nascita di Dioniso, il più ambiguo di tutti gli dei

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La sua follia per Platone era un privilegio offerto ai mortali
Secondo il mito fu partorito da Zeus. E contraddittori furono gli effetti della bevanda che donò agli uomini
Alla Gran Guardia di Verona un viaggio in 170 opere racconta il rapporto tra l’ispirazione e il mondo di Bacco

Maurizio Bettini, “La Repubblica”, 12 aprile 2015

SEMELE, la figlia di Cadmo re di Tebe, chiese un giorno a Zeus di mostrarsi a lei nelle sue vere sembianze. Il padre degli dèi l’aveva amata ed Hera, gelosa, per vendicarsi della rivale le aveva dato questo perfido consiglio: ben sapendo che una mortale non avrebbe mai sostenuto la vista di un dio. Fu così che la donna, non appena Zeus si disvelò alla sua vista, fu avvolta da una spirale di fiamme. Il Padre degli dèi ebbe pietà del bambino che Semele aveva concepito da lui, Dioniso: e lo strappò dal grembo della madre un attimo prima che il fuoco lo divorasse. Ma come garantire al feto la possibilità di sopravvivere? Zeus si aprì la coscia con un coltello, vi cacciò dentro il piccolo e ricucì la ferita. Fu così che Dioniso, compiutisi i mesi regolari della gestazione, venne al mondo.
Se volessimo guardare a questa vicenda con gli occhi di oggi, potremmo dire che la nascita del futuro dio del vino aveva anticipato non una, ma ben due pratiche ginecologiche moderne: il taglio cesareo e l’impianto dell’embrione. Solo che il mito non si muove secondo le categorie della scienza, e neanche sta lì per prefigurarle. L’essere stato strappato dal grembo della madre, e soprattutto nutrito nella coscia del padre, aveva ben altra funzione: quella di far diventare Dioniso ciò che altrimenti non sarebbe mai stato, un dio. Se infatti fosse stato partorito da madre mortale e nutrito da lei, Dioniso sarebbe stato solo un eroe, un semidio, come tutti gli altri figli di Zeus e di una donna. In questo modo, invece, al corpo di Dioniso fu risparmiata la componente materna, mortale – Zeus gli fece da padre e da madre. Ma non c’è dubbio che, fin dal primo momento, il futuro dio del vino venisse al mondo sotto il segno dell’ambiguità.
Così come ambiguo fu il dono che egli fece agli uomini, il vino: e contraddittorio, spesso violento, fu il modo in cui venne introdotto. Si raccontava infatti che Dioniso fosse giunto, in Attica, nella casa di Icario e Erigone, padre e figlia. Accolto generosamente, fece loro dono di un otre pieno di vino, esortandoli a far conoscere questa meravigliosa bevanda anche agli altri uomini. Icario ne donò dunque a un gruppo di contadini che, ubriachi, credettero di essere stati avvelenati, e lo uccisero. La cagna di Icario, Mera, ululando presso il corpo del padrone guidò fino a lui Erigone: che disperata si impiccò. Fu così che molte altre ragazze ateniesi seguirono il suo esempio, impiccandosi a loro volta, e fu solo dopo un solenne sacrificio a Dioniso che quella folle epidemia ebbe fine. Il fatto è che il vino entra con dolore fra gli uomini, suscitando morti e violenze, e spesso la follia lo accompagna. Così come follia, sangue e disperazione segnarono la visita che Dioniso fece a Tebe, la città di sua madre. Aveva assunto le sembianze di un giovane dai riccioli biondi e profumati – i suoi occhi d’un cupo azzurro spiravano il fascino di Afrodite. Gli abitanti furono afferrati dalla frenesia, le donne si mutarono in baccanti, disperdendosi fra le selve, perfino i vecchi presero i tirsi e indossarono pelli di cerbiatto. Disgustato da questo spettacolo il re Penteo tentò di far arrestare quel misterioso straniero ma il dio delle allucinazioni (perché Dioniso era anche questo) si prese gioco di lui nel modo più atroce. Il re, che si era travestito da baccante per spiare che cosa facevano le donne, fu scambiato per un cerbiatto da sua madre, Agave: venne ucciso, fatto a pezzi, esibito a brani da una folla di donne impazzite. Quella dionisiaca, diceva Platone, è una follia che gli dèi offrono ai mortali come un privilegio. Resisterle è spesso impossibile, cederle può essere terribile.

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Eleusi antica e contemporanea

Agelastos Petra (Mourning Rock), un documentario del 2000 diretto da Filippos Koutsaftis, presenta sovrapposte e dialoganti l’antica e la moderna Eleusi.

Un articolo sul film-documento, proiettato a Roma, a Palazzo Altemps, di F. Demichelis, su doppiozero.

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Il bello dei Greci

Dorella Cianci, “Il Sole 24 ore”, 5 aprile 2015Come si può persuadere all’acquisto? Semplicemente tenendo presente le regole della comunicazione di massa che risalirebbero al retore Corace (V secolo a .C.), il quale aveva intuito che si può persuadere la massa con gli stessi argomenti di come si persuade il singolo. «Sono la bella kylix di Isodemo e Eutiche», si legge su un’iscrizione della fine del VII sec. a.C. e questa è una delle tante testimonianze di kalòs (bello) dei manufatti nel mondo greco: un concetto inizialmente di matrice plastica che si è poi traslato direttamente dall’oggetto all’acquirente. Aristofane definisce, nella commedia Le Rane, un vaso «molto bello e molto buono» tale da rendere lodevole anche il compratore e il kalòs, affiancato all’agathòs (buono) negli oggetti, rientra nella tipica ottica mercantile greca. La bellezza era, ed è, un argomento convincente nella retorica, ma il kalòs è soprattutto una categoria inventata dai Greci che da Platone ha subito una dilatazione bipolare: da un lato verso la sfera celeste, dall’altro verso la materialità. Ma cos’è stata la bellezza prima di Socrate, si chiede David Konstan? Egli esamina la fortuna di un’idea nata in Grecia attraverso alcuni passi tratti dalle opere di Omero e, con un balzo temporale, la analizza alla luce della cerchia socratica (Platone e Senofonte in primis), fino ad arrivare al pensiero pedagogico di Plutarco. Da questi passi si scorge una chiara evoluzione del concetto che nel mondo arcaico si è legato precipuamente alla materia: agli oggetti, ai luoghi geografici e soprattutto ai corpi degli eroi. Fra Omero e Platone si colloca la riflessione della poetessa Saffo, la quale legge la bellezza in chiave erotica, intravedendo la discutibilità di un concetto fin troppo ieratico in epoca omerica. Il bello materiale, così solido e immutabile, inizia a vacillare con Saffo, ma non in senso «etico», secondo Konstan, cosa che invece accadrà con Socrate e Platone, i quali, pur considerando la sfera erotica della bellezza, pongono la loro riflessione oltre i sensi, dando vita a una bellezza ideale che diverrà un concetto chiave per tutta la cultura occidentale, in particolare nel Rinascimento (un periodo esaminato anche da Konstan nel capitolo sulla sua traslazione concettuale). Nell’ultima parte del volume, non ancora tradotto in italiano, l’autore si concentra sull’idea contemporanea della bellezza e su come la nostra concezione estetica derivi da un passaggio antico legato a qualcosa che c’è sulle stelle, il de-siderio, che si potrebbe sintetizzare con alcune parole di Lyotard: «nel giorno in cui la Bellezza viene al mondo c’è una sorta di co-nascita del desiderio e del desiderabile». La trasfigurazione contemporanea della bellezza risente ancora dell’ottica greca, anche se da essa ha voluto trarre una visione carnale che non sempre le appartiene, ma che invece si lega ben più alla retorica dei corpi e all’arte di raccontarli.
David Konstan, Beauty. The Fortune of an Ancient Greek Idea, Oxford University Press, Oxford, pagg.280

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Carlo Carena: “È in un piccolo mondo classico che ho cercato la mia felicità”

Nico Orengo (primo a sinistra) insieme a Carlo Carena, Italo Calvino e Guido Davico Bonino
«Il mito è uno dei grandi regni della fantasia. Creazione geniale del mondo greco-romano. Non è un regno di mostri del sonno e della ragione come in Egitto o tra i Germani, bensì l’ideale dell’uomo».
colloquio con Antonio Gnoli
La Repubblica”,  5 aprile 2015
NEL più romantico dei laghi, il lago d’Orta, si affaccia il più romantico degli studiosi: Carlo Carena. L’uomo che minimizza se stesso. Che sussurra al mondo antico e ai classici, con la discrezione di un signore abituato al silenzio e alla moderazione. Un romanticismo tenue e senza protagonismo: «Le nostre esistenze sono del tutto trascurabili. Qualche eccezione certo. Ma per la gran parte che senso ha agitarsi, ponendosi al centro di storie che, se va bene, ci vedono marginali?», dice con una punta di leggero anacronismo. Siamo irrilevanti. Ed è per questo che Carlo Carena – ormai prossimo ai novant’anni (li compirà a novembre) – si è per tutta la vita mimetizzato nei libri e in quegli autori che lo hanno educato, migliorato, in una parola guidato verso una moderazione che per gli antichi a volte ha preso la forma della felicità.
Caro professore, ho tra le mani La vita felice di Plutarco che lei ha curato per Einaudi…
«Le piace Plutarco?».
In fondo è stato il primo a dirci “stai sereno”. Dedica perfino un capitolo alle norme per mantenersi in buona salute.
«Era anche un medico».
Non si cura il corpo senza curare l’anima. Come avrebbe scoperto secoli dopo la psicoanalisi.
«Non ho idee precise in proposito, anche perché confesso di saperne poco o nulla».
È sorprendente la sua onestà intellettuale. Disarmante.
«La chiami modestia o temperanza».
Parole insolite. Davvero, come credeva Plutarco, anche noi possiamo aspirare alla felicità?
«Non so a cosa oggi si possa aspirare visto come si è trasformato il nostro mondo. Ma certamente in quello antico la felicità era un tema molto sentito. Nel lessico greco poteva rivelarsi tanto nella benevolenza di un dio quanto nel caso o nella fortuna».
Platone paragonò la vita a una partita di dadi.
«È sorprendente questa immagine che ha il sapore dell’azzardo. Ma intendeva dirci che dopo un lancio vantaggioso occorre sfruttare con sapienza l’esito. E Plutarco, qualche secolo dopo, si mise sulla scia di quella riflessione. Pochi oggi conoscono il pensiero di questo tardo platonico che non fu un filosofo originale ma esperto di vita».
L’originalità non era poi un valore così apprezzato.
«Poteva anzi dimostrarsi un’insidia. Plutarco fu un grande affabulatore. Capace di proporre soluzioni ai problemi che assillano l’uomo. Per essere felici, ci dice, occorre raggiungere la tranquillità d’animo, che non si ottiene con lo smodato appagamento dei sensi, come volevano gli epicurei, ma neppure col rigore arcigno e triste degli stoici. Amava la vita riservata e detestava le vanità degli ambiziosi».
Si riconosce in quei precetti?
«Erano fondamentali venti secoli fa e per me lo sono ancora oggi. Un grazie va certamente ai miei maestri».
Chi sono stati?
«Ho studiato a Torino in una facoltà di lettere allora strettamente filologica. Maestro di letteratura latina e di filologia era Augusto Rostagni, grande studioso di Virgilio e Orazio. Il greco era affidato ad Angelo Taccone. E poi c’era Vincenzo Ciaffi, assistente di Rostagni. Un ingegno capace di farci amare autori come Petronio e Apuleio. Ricordo che ci faceva tradurre in latino Il Principe di Machiavelli. Devo ancora conservare da qualche parte le dispense di quei lontani esercizi».
Racconta di un mondo sparito.
«L’università era davvero qualcosa di diverso. Devo aggiungere, tra le figure che hanno contato nella mia formazione, monsignor Michele Pellegrino, il futuro cardinale e arcivescovo di Torino. Mi indirizzò verso sant’Agostino».
Nella sua formazione c’è stato anche Clemente Rebora, uno dei quattro o cinque grandissimi poeti italiani del Novecento.
«Lo ebbi come padre spirituale e insegnante di religione negli anni della guerra al collegio rosminiano di Domodossola. Era entrato da poco, dopo la conversione del 1928, in quell’ordine religioso. Del suo passato non parlava quasi nessuno, tanto meno lui».
Che ricordo ne ha?
«Viveva in mezzo a noi da mistico, camminando in punta di piedi col volto aquilino sempre arrossato e un’espressione fanciullesca. Non era molto popolare tra gli allievi. Forse perché non giocava a pallone o perché le sue messe in latino erano lunghissime. Teneva in tasca una scorta di minuscoli foglietti su cui di tanto in tanto scriveva qualche parola. Un deposito preziosissimo di cui, più tardi, è stato pubblicato qualche estratto che ci dà la misura della straordinaria profondità del suo animo».
La sua inattualità affascina.
«Cosa ci trova?».
Va controcorrente. Il piacere e la felicità degli antichi non sono i medesimi che siamo disposti a condividere.
«Penso che l’aggettivo “naturale” nel piacere degli antichi era fondamentale. Non affrontavano grandi viaggi, non avevano profonde conoscenze del mondo, né comodità, né diffusi rimedi alle malattie. Potevano cercare la felicità soprattutto nella quiete interiore. Oggi si è passati dall’esortazione della parola a quella dell’immagine».
Con quali conseguenze?
«Si sono create figure spettacolari ma culturalmente inconsistenti. Viviamo di impressioni epidermiche. La prevalenza dell’immagine mi spaventa. Ci rende personaggi distorti, irreali, impalpabili. E soprattutto senza verifica. Le mie sono constatazioni di un uomo che vive appartato. Questo destino forse avrà in futu ro i suoi valori, ma oggi si trasmette nella piattezza del presente». Non crede al progresso?
«Al contrario, proprio perché ci credo vorrei che diventasse la nostra sfida morale. Quando l’immoralista Talleyrand diceva che chi non ha conosciuto gli anni che precedettero la Rivoluzione francese non poteva sapere come può essere felice la vita, alludeva al desiderio dei signori non certo alle aspirazioni dei contadini e dei servi».
Il suo cinismo si accompagnò a un immenso talento.
«Fu una canaglia come poche ma di genio».
Reagì al progresso e si adeguò ogni volta schierandosi dalla parte del vincitore.
«Ciò che in lui era ancora un’arte oggi è diventato miserabile opportunismo».
Sono le facce meno nobili della nostra epoca contemporanea.
«Si vive sempre più sotto il segno della mobilità. Fino a cent’anni fa la vita non era diversa da un secolo o cinque secoli prima. Samuel Butler, ai primi del Novecento, venne in Italia con gli stessi mezzi, nello stesso tempo e trovando gli stessi villaggi e gli stessi uomini che, su quella medesima strada, aveva incontrato Edward Gibbon a metà del Settecento. Misuravano il mondo degli uomini alla stessa maniera, perché tutto era così. Sarei tentato di farne l’elegia. Ma davanti ai tuguri degli abitanti del San Gottardo e alle pestilenze che facevano gemere le madri sui bordi delle strade, sono indotto a qualche cautela».
Lei dice: bene il progresso ma non diventi un’ideologia.
«Suggerirei di leggere Montaigne. È il correttivo ad ogni infatuazione, il rifiuto degli estremi, la sostituzione dell’intelligenza alla sentimentalità. Perfino l’amore lo intimorisce. Lettore anch’egli devoto degli scrittori classici – di Livio e di Tacito, come dello stesso Agostino – è un maestro di come se ne deve fare un buon uso».
Anche lei è un maestro del buon uso.
«Non spetta a me dirlo. Devo ai classici la fortuna di aver lavorato per vent’anni nella redazione e nella direzione della casa editrice Einaudi. Fu per me davvero un’altra scuola e un’altra officina veder nascere collane letterarie come i Millenni e la Nue, occuparmi di saggi e di poesia e, soprattutto, delle sezioni antiche. Giulio Einaudi non poneva confini. Era curioso e interessato di sentire l’opinione o l’impressione di tutti su tutto. Vi si aggiravano figure coltissime come Franco Lucentini o Massimo Mila, parlo di due persone con cui condivisi l’amicizia».
C’è una foto che la ritrae in un gruppo einaudiano insieme a Italo Calvino.
«La ricordo benissimo. Eravamo giovani. C’erano anche Nico Orengo e Guido Davico Bonino. Eravamo a Rhemes. Tutte le estati, nel mese di luglio, Einaudi ci portava in questo piccolo villaggio della Valle d’Aosta. Una specie di conclave che riuniva per una settimana redattori e collaboratori. Si discuteva di tutto. Liberamente. Realizzammo in quegli anni opere colossali come la traduzione della Storia naturale di Plinio il Vecchio, cinquemila pagine; e dall’altro capo l’Epistolario di Virginia Woolf, quasi tremila pagine. Roberto Cerati – che fu una delle anime della casa editrice – diceva compiaciuto che quello era il fieno messo in cascina. Furono anni fertili».
Le mancano?
«Non più di tanto. Anche perché l’eredità fu così vasta e lo stampo così vigoroso che quell’aria mitica è rimasta e spira ancora nei corridoi bianchi della casa editrice ».
Che rapporto ha con il mito?
«Il mito è uno dei grandi regni della fantasia. Creazione geniale del mondo greco-romano. Non è un regno di mostri del sonno e della ragione come in Egitto o tra i Germani, bensì l’ideale dell’uomo».
Gli dèi, come gli umani, spesso non danno il meglio di loro.
«È vero. Giunone soffre indispettita al vedere Enea salvo con le reliquie di Troia; e Giove gode della bellezza di Venere sua figlia. Per noi i miti sono un labirinto inesauribile di incontri. E li ritroveremo nelle opere letterarie e artistiche di tutta l’Europa e perfino nel nostro immaginario quotidiano».
A cosa pensa?
«Mi viene in mente ad esempio il futurismo. Nella sua pulizia iconoclasta risale e ricorre a forme mitiche. Quando Marinetti proclama la dipartita da ogni mitologia e da ogni ideale mistico e auspica la loro demolizione, annuncia l’avvento della macchina come il nuovo “Centauro a motore”».
Però oggi la sostanza del mito sembra molto diversa da quella antica.
«Ciò che distingue i miti di oggi è l’essere creati e depositati nelle immagini, in sé e per sé. Non liberano più la realtà, non la fecondano. Ne sono prigionieri».
Nella sua lunga vita di studioso sono pochi i libri che ha scritto e molti quelli che ha curato e tradotto. Che scelta è stata?
«Si imbocca una strada e se si è soddisfatti perché cambiare? Si può dire molto attraverso i giganti sulle cui spalle ho varcato mari e monti. In fondo, ci si esprime anche attraverso la loro scelta ».
Come definirebbe la traduzione? C’è un aspetto etico oltre che estetico?
«Penso proprio di sì. Diceva Madame de La Fayette che una traduzione è un messaggio di una duchessa riferito al destinatario dal suo lacchè. E non c’è altro modo per far giungere a tutti ciò che di grande e importante fu detto ed è detto. Quanto a lui, al lacchè, pensando e ripetendo nella sua mente il messaggio, viene a conoscerlo intimamente, scopre i segreti della sua costruzione, intimi a quelle parole e alla natura di chi lo invia».
Si riscatta dall’essere un puro esecutore.
«Raggiunge il midollo avvolto dalla corteccia, per usare la metafora del principe dei traduttori, San Gerolamo. E così la traduzione diviene un’esegesi stessa del testo. Il pericolo sta semmai nella tentazione di voler prevaricare l’autore, stravolgerlo nella pretesa di renderlo più interessante ».
La nostra cultura è diventata veloce e superficiale.
«Va a scapito del nostro passato. Un tempo essa si reggeva su pochi pilastri. Oggi i pilastri sono più numerosi ma cosa sorreggono? Niccolò Tommaseo – uno scrittore del primo Ottocento – non sapeva chi era Shakespeare. Oggi noi tutti conosciamo le sue grandi imprese letterarie. Ma a cosa ci serve se non abbiamo più un metodo per organizzare il nostro immenso patrimonio di conoscenze? Forse, come annotava La Rochefoucauld, non abbiamo più la forza per seguire del tutto la nostra ragione».
E qui il mondo antico, che lei ha così autorevolmente indagato, si ricongiunge con quello moderno.
«Non autorevolmente, bensì perdutamente. Ed è vero che c’è una linea che congiunge età così diverse e lontane. Per tre anni ho lavorato alla nuova traduzione e cura delle Massime di La Rochefoucald (uscirà credo prima dell’estate nella collana i Millenni dell’Einaudi) ».
E allora concludiamo con un’altra massima di questo grande moralista.
«“I difetti dell’intelletto aumentano invecchiando, come quelli del viso”. Penso naturalmente alla mia età».
Le pesano i suoi novant’anni?
«No, per nulla. Ma a volte mi insospettiscono. “I vecchi”, è sempre La Rochefoucald a ricordarcelo, “amano dare buoni precetti per consolarsi di non essere più in grado di dare cattivi esempi”».

 
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