I legami lievi di Ovidio


Pietro Citati, Nell’«Arte di amare» dominano la felicità passeggera e il dolce ricordo, non il vincolo coniugale o la folle passione,

Corriere della Sera”, 2 aprile 2015

Leopardi non amava la poesia di Ovidio. Ammirava, certo, la sua prodigiosa ricchezza verbale, la sua immensa volubilità, che ricorda, a volte, la ricchezza e la volubilità dello Zibaldone. Ma non tollerava che Ovidio fosse un temperamento non tragico né drammatico; e che l’amore fosse, per lui, invece che una passione profondissima del cuore, un gioco, un’arte, un sistema intellettuale.
Questo è l’amore, per Ovidio: un’ Arte di amare, come chiamò uno dei suoi libri più famosi (ottimamente curato da Emilio Pianezzola, Gianluigi Baldo, Lucio Cristante, Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori, p. LXVI-442, e 14); un’arte, che si può conoscere con la mente, insegnare e imparare. Essa assomiglia all’arte della guerra, della caccia e della pesca: a quella dell’auriga e del timoniere. «Questa è la pista che traccerà il mio carro, questa sarà la meta da sfiorare con la ruota veloce». «Il cacciatore sa bene dove porre reti per i cervi, sa bene in quale valle si aggiri grugnendo il cinghiale; e chi tende la lenza conosce i fondali più pescosi». Se erano stati composti manuali sull’arte della guerra e della caccia, Ovidio intende scrivere un trattato sull’arte dell’amore, con la stessa tensione didascalica, la stessa passione di insegnare, sebbene la gravità didascalica si rovesci molto spesso in ironia.

Ovidio si muove in quel territorio che i greci chiamano metis, dove si combinano l’intuito, la sagacia, la previsione, la spigliatezza mentale, la finzione, la vigile attenzione, il senso dell’opportunità: applicati a realtà fugaci, mobili e ambigue, che non si possono portare alla misura precisa né al calcolo esatto. Così l’arte dell’amore è la scienza dell’indefinibile: dove la tendenza al sistema si combina con la coscienza che gli amori mutano, cambiano, sono diversi tra loro, e dunque bisogna applicar loro metodi ogni volta diversi. Un trattato amoroso (dunque anche l’Ars amandi) è qualcosa di impossibile: esistono solo gli infiniti, i singoli amori, i singoli eventi, i singoli incontri, e chi ne scrive deve possedere una mente pieghevole e cedevolissima, quella appunto che esige la metis. La conseguenza ultima dell’ Arte di amare è il racconto; ed essa si trasformerà, negli anni, in quella meravigliosa enciclopedia di racconti che sono Le metamorfosi.
In Ovidio, le Muse non dominano soltanto il regno della Memoria. Il loro regno è molto più vasto: comprende la vita e la morte. Se accettiamo la discussa etimologia, esse sono le «ninfe dei monti»; e all’inizio della Teogonia, le vediamo ancora danzare, con i loro tenerissimi piedi, attorno alla fonte dall’acqua scura come il mare. Esse hanno un rapporto con l’acqua: l’immensa liquidità dell’universo. Non con l’acqua sterile delle piogge, ma con quella primordiale dell’Oceano, che scende nello Stige, e risale in tutte le sorgenti, in tutti i fiumi e i pozzi, come nella sorgente Cassotide, a Delfi. Dove c’è una sorgente, c’è una Musa. L’acqua dell’Oceano è supremamente fecondatrice: ha un potere vitale; è una forza oracolare purificatrice e guaritrice. Per questo Pindaro diceva che l’acqua è «la migliore delle cose».
Così comprendiamo perché la poesia, specialmente in Esiodo e in Pindaro, sia una sostanza liquida. Tutti i poeti, fino ai tempi moderni, l’hanno saputo: scrivere poesie è l’esperienza della liquidità; e Pindaro beveva acqua — acqua di una sorgente, acqua dell’Oceano — prima di comporre versi. La poesia, in Esiodo e in Pindaro, è un «nettare distillato»: un continuo scorrimento; le Muse versano sulla lingua del re-poeta «dolce rugiada», dalla sua bocca scorrono «dolci parole», dalla bocca di chi è amato dalle Muse «dolce scorre la voce». In quest’acqua che non sta mai ferma non c’è nulla di effimero: anzi è proprio lo scorrere incessante della sostanza oceanica, che rende eterni i versi e chi li compone.
Nell’Arte di amare, le Muse hanno un rilievo infinitamente minore. Scompare Apollo, il dio dell’ispirazione poetica e della morte: Venere attutisce il suo fascino; Dioniso perde la sua forza distruggitrice e diventa un gioco incessante col vino. «L’ebbrezza, se vera nuoce, ma gioverà se è simulata». Mentre tutto ciò che è divino scompare o si rifugia in alcuni exempla, trionfa l’esperienza amorosa di Ovidio: la sua esperienza singola, come nell’ Odissea trionfa l’esperienza di Ulisse. Questa esperienza lascia cadere qualsiasi lato tragico o drammatico dell’amore: o lo confina nelle storie scorciate, rapidissime, tratte dalla mitologia classica. Ovidio cerca di cancellare e di eludere ogni traccia di amore immoderato e passionale, e lo riserva alle donne.
L’amore di Ovidio è sopratutto diurno. La notte non è adatta a giudicare la bellezza. Con la luce del giorno e a cielo aperto Paride osservò le tre dee, quando disse a Venere: «La vincitrice, Venere, sei tu». Di notte non si vedono i difetti e si perdona ogni manchevolezza. L’amore non è mai solitario: esso nasce, si sviluppa e viene coltivato nelle ampie distese, come i Fori, dove si raccolgono le folle. L’amore è felice: le sue vicissitudini, inquietudini, incertezze non interessano Ovidio, che racconta solo l’amore lieto e dei tempi lieti. «L’animo festoso, e non oppresso dal dolore, si apre da sé, spontaneamente, e Venere si insinua, con arte di lusinga». L’uomo, al quale in primo luogo Ovidio si rivolge, non deve mai temere che la donna gli sfugga: ogni donna può essere presa. «Tendi solo la rete e sarà presa». Con il soccorso dei precetti di Ovidio, tutte le difficoltà cadono: nessuna difesa resiste, nessun rischio inquieta, nessun rivale fa temere.
Ovidio ha un’alta idea della propria opera di poeta e di maestro. Ma non ha un’idea grande dell’amore: l’amore, quale egli lo consiglia e lo sistema, evita l’ambizione e l’orgoglio, ed è sempre pieno di moderazione, discrezione, flessibilità, pieghevolezza. Il tono resta basso: «alla mia navicella convengono vele modeste»; «da me si imparano soltanto amori spensierati»; come è basso il tono della bucolica virgiliana, per la quale Ovidio nutre una nascosta passione. Così egli dà dei piccoli, deliziosi consigli: come acconciare i capelli, come sorridere; e accompagna la sua coppia di innamorati a passeggio per la grande città, con l’aria del tutore discreto, affezionato ed ironico.
Il tempo passa rapidamente: fugge via tra le dita; e bisogna godere il tempo che passa. «Finché vi è consentito, godete la vita: gli amori se ne vanno come acqua che scorre: l’onda che è corsa via non torna più indietro, non torna più indietro l’ora che è passata». E gli amori non durano: Ovidio non parla mai di lunghe relazioni coniugali, che occupano tutta la vita; ma soltanto di piccoli amori, spesso contemporanei tra loro, che conoscono poche battute, e subito si esauriscono, lasciando nella mente un ricordo delizioso.
Sebbene l’amore sia limpido, comprende in sé, anzi chiede e ricerca, la simulazione. «Devi fare l’innamorato, fingere a parole le ferite d’amore: cerca in ogni modo di dare alla tua donna questa convinzione». L’Ars insegnata aggiunge convenzione a convenzione, teatro a teatro, simulazione a simulazione. Come il poeta nasconde l’arte raffinata della sua mente nella semplicità apparente dei versi, così l’innamorato nasconde l’infinitamente complessa rete delle sue tecniche in una modulazione dolce e discreta. Non soltanto egli deve celare le proprie infedeltà: ma tutte le sue parole sono una serie di velature successive, maschere che coprono maschere, fino a quando il vero volto non è completamente dimenticato. «Noi cerchiamo, se non completa oscurità, almeno la penombra, un tono più smorzato della luce vera». Questo smorzato è il tono che Ovidio vuole raggiungere, mescolando le parole scritte, le parole parlate, i diversi atteggiamenti, le infinite arguzie che si compiace di ostentare e di occultare.
L’Arte di amare può venire scritta soltanto in un luogo: Roma, che è la capitale erotica del mondo, negli anni in cui Ovidio scrive. «Roma è un luogo affollato di ragazze. Roma ti offrirà tante ragazze, e così belle, che tu dirai: “questa città possiede tutto quello che c’è nel mondo intero”». Ovidio ama appassionatamente la Roma del suo tempo: disprezza «la rozza semplicità» del passato repubblicano, mentre le ricchezze immense del mondo soggiogato affascinano la sua mente. «Il Palatino, che ora rifulge sotto il segno di Apollo, altro non era un tempo che pascolo di buoi per l’aratura. Piacciano ad altri le cose del passato: d’essere nato al giorno d’oggi io mi rallegro. Al mio stile di vita questa è l’epoca adatta». La politica di Augusto, che cercava di fermare il tempo e far risorgere nei suoi anni la moralità di Roma repubblicana, gli pare assurda, fuori luogo e insensata.
A un tratto, l’Ars amandi si interrompe: per qualche decina di versi Ovidio si attarda a decorare un episodio storico o mitologico, come il ratto delle Sabine, il volo di Dedalo ed Icaro, la storia di Cefalo e di Procri: o il meraviglioso incontro tra Ulisse e Calipso, che chiede all’amato di raccontargli ancora una volta la storia di Troia e della sua caduta. Sulla sabbia del mare, Ulisse disegna di nuovo la distruzione e l’incendio della grande città asiatica, quando un’onda improvvisa cancella la scena e lo interrompe. Con quale eleganza, con quale miele, Ovidio mescola il racconto e la sentenza amorosa, il facile, il leggero, l’erudito, il criptico, il tono basso e il tono alto, il mito, l’oggi, l’intelligente, il comune. La sua Arte di amare era, nel profondo, un’Arte della Metamorfosi .

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Quanto è moderna Pompei. Il mito ha sedotto l’Europa

Picasso e Le Corbusier, Martini e Moreau.

Così la tragedia cambiò la sensibilità degli artisti

Paolo Conti

                                “Corriere della Sera – La Lettura”, 29 marzo 2015

Una, cento, mille Pompei. Non solo quella oggettiva, emersa dagli scavi dopo il 1748. Ma anche quella sognata, reinterpretata, metabolizzata in mille vicende culturali in Europa e in tutto l’immaginario dell’Occidente, citata e rivista attraverso il filtro della fantasia e del gusto del momento. Pablo Picasso, Arturo Martini, Gustave Moreau, solo per citare tre artisti di periodi e sensibilità diversi e lontani, ebbero in Pompei, nei suoi scavi, nei suoi colori una fonte di poetica ispirazione. Ma l’aria di Pompei spira fortissima, e anche qui bastano come esempi, nel comune gusto di due sovrani come Ludwig I di Baviera, che nel 1840 volle un Pompeianum tutto per sé al castello di Aschaffenburg, e l’imperatrice Elisabetta d’Austria, che nel suo Achilleion a Corfù fuse citazioni del mondo greco con altre dell’universo pompeiano. 
È la suggestiva scommessa della mostra Pompei e l’Europa 1748-1943 che aprirà il 27 maggio tra il Museo Archeologico nazionale di Napoli e gli scavi di Pompei, per chiudere il 2 novembre. La curatela è affidata a Massimo Osanna, titolare della Soprintendenza speciale di Pompei, Ercolano e Stabia, con Maria Teresa Caracciolo e Luigi Gallo. La macchina organizzativa coinvolge anche il Grande Progetto Pompei (crocevia di collaborazioni tra diversi dicasteri), la Soprintendenza per i beni archeologici di Napoli, Electa per l’organizzazione (e il catalogo) e l’architetto Francesco Venezia per l’allestimento. 
Nel 2013 si polemizzò a lungo, in Italia, sul gran successo della mostra londinese Life and death in Pompeii and Herculaneum, organizzata al British Museum dal 28 marzo al 29 settembre di quell’anno (mezzo milione di visitatori, dieci milioni di sterline di ricavi dal merchandising). Furono in tanti a chiedersi come mai un museo britannico fosse in grado di organizzare una rassegna così ricca e attraente, mentre noi italiani, con Pompei ed Ercolano sul territorio, sembriamo capaci solo di litigare sui fondi, sulle proteste sindacali, sui cancelli chiusi, sull’assenza di infrastrutture, sui frequenti cedimenti strutturali. Inevitabile pensare che la risposta arrivi da questa articolata mostra, dai 17 prestiti di musei francesi (compresi il Louvre, il Musée D’Orsay e il Musée Picasso, nonostante la recente riapertura a ottobre 2014 dopo cinque anni di chiusura), dai cinque britannici (compresi il British Museum e il Victoria and Albert) e dagli altri invii da Germania, Svizzera, Austria, Danimarca e Svezia. 
Sorride, su questo punto, Massimo Osanna: «Non vivrei la nostra proposta con un senso di competizione. Mi sento un cittadino europeo e il successo della mostra del British Museum, che fu frutto di una collaborazione con noi, non mi ha sorpreso. Posso però dire che questa è la prima grande e organica mostra su Pompei da dieci anni a questa parte. E non si tratterà del prevedibile appuntamento sulla vita quotidiana, ma di una riflessione approfondita su come e quanto il mondo emerso dagli scavi abbia influenzato tutta la cultura europea, anche nella nostra contemporaneità. Due esempi tra i tanti, e li racconteremo: Le Corbusier che visita Pompei e poi prende spunto dalle case di quella città per il “suo” modello di abitazioni. O Picasso che scopre Pompei e ne resta rapito, come dimostra Due donne che corrono sulla spiaggia del 1922, prestato dal Musée Picasso». 
Il fascino emanato da Pompei comincia quando l’aristocrazia intellettuale del Settecento apprende, meravigliata e incuriosita, degli scavi e delle scoperte. Nel 1747, parlando di Ercolano appena un anno prima dell’inizio degli scavi pompeiani, l’intellettuale veneto Scipione Maffei, fondatore del museo epigrafico di Verona, scrive: «O qual gran ventura dei giorni nostri è che si discopra non uno o altro antico monumento, ma una città!». 
È esattamente qui il magnetismo emanato da Pompei. Dalla grandiosa monumentalità romana (il Colosseo, i Fori) si passa alla scoperta di una civiltà sepolta dalla lava in un qualsiasi giorno di normale vita. Scrivono in una nota i tre curatori: «Sigillate dalla lava e dai lapilli, le antiche città e la loro ricca messe di reperti e di affreschi, dagli inediti accordi cromatici, accesi e perfettamente conservati, restituivano con immediatezza il mondo che le aveva create. Le case sembravano rianimarsi e raccontare la quotidianità degli uomini che le avevano abitate, i loro miti, i loro eroi, il loro credo. Tutta una vita, brulicante, troncata dall’implacabile falce dell’eruzione e della morte». Ecco perché Pompei è stata così capace di dialogare, da città viva, con il mondo di volta in volta contemporaneo: il Settecento e i Lumi, il Romanticismo dell’Ottocento, la modernità del Novecento. Si diceva dello stupore di Picasso e di Le Corbusier dopo le loro visite. Erano stati preceduti da Chateaubriand che dichiarò l’area degli scavi «il più meraviglioso museo della terra». La fortuna di Pompei nell’immaginario europeo sarà testimoniata, nella mostra, da 250 sculture, dipinti, disegni, stampe, fotografie, oggetti e libri riuniti tutti insieme per la prima volta. 
Probabilmente buona parte della prevedibile fortuna della rassegna riguarderà la riproposizione dei calchi dei corpi degli abitanti della città, genialmente ricavati nel 1860 da Giuseppe Fiorelli dalle orme lasciate nel materiale lavico. Gli straordinari e drammatici pezzi (che ispirarono Arturo Martini: vedremo la sua scultura La sete o Uomo che beve del 1934) verranno esposti nell’Anfiteatro di Pompei dopo il recente restauro curato dalla Soprintendenza. 
Ma Pompei sarà protagonista anche a Milano durante l’Expo. Si stanno definendo i dettagli della mostra Natura, mito e paesaggio dalla Magna Grecia a Pompei che aprirà il 22 luglio a Palazzo Reale per chiudere il 10 gennaio 2016. Spiega Osanna: «Nel contesto proporremo, oltre agli affreschi della Casa del Bracciale d’Oro, alcuni reperti organici: resti di frutta, di uova, di pane carbonizzato, e poi i vasetti dei pittori con i loro pigmenti miracolosamente salvati». Ancora una volta, Pompei contemporanea. 

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Augusto, il camaleonte spietato che si fece adorare dai Romani

Un testo di Luciano Canfora sul primo imperatore

Giovanni Brizzi

                                            “Corriere della Sera”, 20 marzo 2015

Libro ricchissimo, complesso e affascinante, Augusto figlio di Dio di Luciano Canfora (Laterza, pp. 567, e 24); che tratta di due non dirò eroi (l’autore, in una delle tante sue felicissime formule, ricorda come quella del periodo sia inevitabilmente, in Appiano, una «storia pragmatica e senza “eroi”, che “va al fondo delle cose”»), ma certo figure di riferimento per l’età delle guerre civili a Roma. Il primo in maniera solo indiretta, trattandosi di quell’Appiano che, circa due secoli dopo i fatti narrati, ha lasciato il resoconto più completo e prezioso degli anni fondamentali successivi alla morte di Cesare. L’altro, Ottaviano poi Augusto, protagonista vero, solo vincitore e (come proprio Appiano sottolinea) creatore del successivo regime monarchico.
Dopo aver fatto la storia dell’autore greco e del suo testo, a lungo dimenticati e talvolta sottovalutati ancor oggi, Canfora affronta, di Appiano, il metodo di lavoro; e rivela come questo «parassita» — così lo ha definito Giuseppe Giusto Scaligero —, il fucus che dei lavori altrui riporta, traducendole ad uso di un pubblico eminentemente greco, intere porzioni, abbia in realtà saputo scegliere assai bene le sue fonti, affidandosi, oltre che a Timagene, il discusso alessandrino suo conterraneo, a due opere preziosissime per noi perdute, le Historiae ab initio bellorum civilium di Seneca padre e i Commentarii de vita sua , le cosiddette Memorie di Augusto. La prima, che nel titolo stesso cercava un initium all’interminabile conflitto civile, risalendo fino ai prodromi graccani, era, su quei fatti, la fonte forse migliore e più indipendente; l’altra restituiva le preziose note personali del primo imperatore. Opere di segno opposto, dunque, che — pur non riuscendo sempre a conciliare — Appiano maneggia però con qualche attenzione critica.
Ma, per venire alla figura del secondo, gigantesco personaggio, e cioè di Augusto, occorre ora accennare al metodo non di Appiano, bensì di Canfora stesso, capace di un prodigioso (e oggi impensabile quasi per tutti…) lavoro di Quellenforschung, di paziente recupero storiografico. Per usare le sue stesse parole, si dovrà rinunciare «al vezzo di mescolare i dati delle fonti onde creare un (fittizio) racconto di “sintesi” anziché cercare di farle parlare distintamente, capirne le differenze ed eventualmente coglierne la consapevole contrapposizione». Proprio così si muove Canfora, sottoponendo il testo di Appiano ad un paziente confronto incrociato con ogni altro autore alternativo della letteratura antica, Dione e Velleio, Plutarco e Svetonio, i poeti augustei e l’infinito epistolario di Cicerone; e, grazie alle sue smisurate conoscenze, giunge non solo a proporre ipotesi acute e sempre puntuali circa l’origine degli asserti appianei, ma anche a far emergere un Augusto almeno in parte inedito; e, direi, talvolta quasi inatteso (come nel rapporto con Cicerone, forse davvero abbandonato al suo destino obtorto collo e non senza rammarichi…).
Del vincitore di Azio, Canfora viene costruendo un profilo complesso e affascinante nella sua fosca grandezza. Capace dei più acrobatici equilibrismi politici, poi giustificati sempre con estrema disinvoltura dialettica; pronto a piegarsi come un giunco, assecondando le situazioni, per riemergere ogni volta; spietato con gli avversari, della cui morte non esita a sincerarsi di persona; gelido e razionale sempre, persino con gli amici; mai esente da calcolo, Ottaviano Augusto — il «camaleonte», secondo l’azzeccata definizione che ne dà l’imperatore Giuliano — è, ben più del padre adottivo Cesare, il politico perfetto, capace di concepir la finezza di «“restaurare” la Repubblica nell’atto stesso di seppellirla per sempre» sotto il nuovo regime.
«Le analogie sono diagnosi compendiarie», osserva infine Canfora, proponendo un suggestivo raffronto tra la mummia di Lenin nel mausoleo sulla Piazza Rossa e il sidus Iulium, la cometa apparsa in morte di Cesare che fa di Ottaviano il Divi filius, anticipando non tanto il titolo di Augustus, quanto l’altro e più compromettente, il greco Sebastòs, «colui che deve essere adorato». È il preludio alla nascita del formidabile impianto ideologico che farà definitivamente di lui il «figlio di Dio», impianto e modello del quale resteranno ostaggi a lungo i successori.

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Idi di Marzo

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COSTANTINO KAVAFIS, Idi di marzo, da La memoria e la passione

Le grandezze paventa,
anima. Le ambizioni, se vincerle non puoi,
secondale, ma sempre cautelosa, esitante.
Quanto più in alto sali,
tanto più scruta, e bada.
E quando all’acme sarai giunto, ormai,
Cesare, quando prenderai figura
d’uomo così famoso, allora bada,
quando cospicuo incedi per via col tuo corteggio:
se mai, di tra la massa, ti s’accosti
un qualche Artemidoro, con uno scritto in mano,
e dica in fretta: «Lèggi questo súbito,
è cosa d’importanza, e ti riguarda»,
allora non mancare di fermarti, non mancare
di differire colloqui e lavori,
di rimuovere i tanti che al saluto
si prostrano (più tardi li vedrai).
Anche il Senato aspetti. E lèggi súbito
il grave scritto che ti reca Artemidoro.

 Plutarco, Vita di Cesare, 65:

“Anche Artemidoro un professore di eloquenza greca nativo di Cnido e per questo fatto entrato in confidenza con alcuni dei compagni di Bruto così da conoscere gran parte di quanto tramavano contro Cesare, si fece avanti con in mano un piccolo rotolo di papiro, dove aveva scritto tutto ciò che intendeva rivelargli. Ma vide che Cesare, ogni rotolo che riceveva, lo passava ad uno dei suoi segretari che aveva al suo fianco. Perciò gli si fece vicino più che poté e disse: «O Cesare questo leggilo tu solo e prontamente. Contiene notizie di straordinaria importanza per te ». Cesare lo prese e disse che l’avrebbe letto, se non ne fosse stato impedito dalla ressa della gente che si faceva avanti. Più volte tentò, ma alla fine entrò in Senato tenendo stretto in mano e conservando, di tutti quel foglio solo.”

P. e V. TAVIANI, Cesare deve morire, 2012

Il luogo della cremazione di Cesare:

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Gran buffet alla romana

Eva Cantarella, Il gusto e gli eccessi ai tempi di Pompei, dove nacque il cibo come fenomeno sociale, “Corriere della Sera”, 8 marzo 2015

Come tutte le conoscenze storiche, anche quelle sull’assunzione del cibo aiutano a comprendere sia la nostra cultura, sia quella degli «altri»: tutti quelli che sono (e sono stati) «diversi» da noi. A dimostrarlo, le pratiche alimentari e la regolamentazione sociale delle cene (convivia) nell’antica Roma.
Per alcuni secoli i pasti dei romani furono molto frugali. Le risorse economiche erano modeste, i valori sociali erano l’austerità e la sobrietà: la colazione mattutina (ientaculum) consisteva in una tazza di latte o di acqua, pane con miele o frutta secca… Meno austero ma ugualmente modesto il pranzo meridiano (prandium: un veloce spuntino, spesso solo gli avanzi della sera precedente.
E ugualmente modesto (anche se meno del prandium) il pasto principale, la cena (cena), consumata nel pomeriggio in famiglia, spesso accanto al focolare, a volte integrata da uno spuntino notturno (vesperna o merenda).
Ma con il tempo da un canto l’economia crebbe, dall’altro i romani impararono ad apprezzare le piacevolezze della vita: «Graecia capta ferum victorem cepit», scrive come ben noto Orazio. Accanto al piacere dei bagni nelle terme i romani avevano appreso dai greci quello della buona cucina: caviale importato dal Mar Nero, pesce, crostacei e ostriche di cui erano abilissimi allevatori, buon vino importato dalla Grecia.
Il pasto serale divenne un momento importante della socialità: vi si incontravano gli amici, si stringevano nuove conoscenze, si concludevano affari e alleanze politiche, spesso legate a scambi matrimoniali. Il cibo veniva servito in una sala (il triclinium), dove ci si sdraiava alla greca. A differenza di quanto accadeva in Grecia, però, potevano parteciparvi anche le donne: o meglio, anche le donne «per bene», intendendo per tali quelle che non vi partecipavano per mestiere (etere, danzatrici, musiciste).
Sempre a differenza che in Grecia, l’enfasi non era posta sul vino (anche se molto apprezzato) bensì sul cibo. A dimostrarlo basta ricordare l’abitudine di liberare lo stomaco, tra un piatto e l’altro, ficcandosi due dita in gola.
Ma al di là di pratiche come questa, per noi non esattamente eleganti, i romani erano diventati dei raffinati gourmet. I primi grandi chef dell’antichità erano stati greci (più precisamente siciliani), ma questo non toglie che a Roma ne esistessero di veramente eccellenti, come il celeberrimo Marco Gavio Apicio, nato circa il 25 d.C. sotto Tiberio, sotto il cui nome è giunto a noi un manuale di cucina intitolato «De re coquinaria». Infine, un’ultima considerazione: a Roma, le cene non avevano la connotazione religiosa che caratterizzava i simposi greci, sempre preceduti, tra l’altro, da un sacrificio agli dèi. Ma avevano una funzione sociale che le avvicina, più che alla Grecia, a noi e alle odierne cene e buffet intesi ad allargare le conoscenze, concludere affari e stringere accordi politici. Nonché, spesso, a esibire il proprio status sociale.
Cosa, questa, che come in tutti i tempi faceva sì che alcuni, che non conoscevano le buone maniere, esagerassero (ed esagerino) cadendo nel cattivo gusto e a volte nel ridicolo. Come accade in una celebre opera letteraria, al famoso Trimalcione, che nel Satyricon di Petronio offre cene proverbiali, nella sua casa tanto sfarzosa quanto volgare. Tra una portata e l’altra descrive orgoglioso e vanesio le sue ville, il danaro che possiede, la ricchezza delle sue terre.
È l’immagine feroce del nuovo ricco che esibisce un benessere troppo rapidamente acquisito e molto mal digerito.
E per concludere qualche parola sull’abbigliamento: a Roma si cenava scalzi. Gli uomini non indossavano la pesante toga, ma un abito più comodo e leggero (synthesis o vestis cenatoria). E a volte (cosa, questa, del tutto inaspettata) indossavano abiti femminili.
Come leggiamo, infatti, nel Corpus Iuris Civilis di Giustiniano, di un senatore che aveva destinato a una certa persona, per testamento, le vesti muliebri di sua proprietà. Ma siccome il senatore amava cenare vestito da donna, nacque un problema: intendeva forse alludere a quelle con cui usava cenare?
I giuristi interpellati non mostrarono alcuna sorpresa (a Roma il «cross dressing» non era un problema). Come dice l’incipit di un celebre romanzo di Hartley, L’età incerta, è proprio vero che «il passato è una terra straniera: fanno le cose in un altro modo, lì». 

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Perché i classici?

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Quelle inutili, anzi dannose traduzioni greche e latine

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La prova di maturità sulle lingue classiche va rivoluzionata. Guardando all’inglese

Maurizio Bettini, “La Repubblica”, 5 marzo 2015

DE MINIMIS non curat praetor, dicevano i Romani: il pretore non si occupa delle minuzie, è un magistrato troppo importante. Sarà per questo che, quando si discute della crisi del liceo classico, gli esperti raramente si interessano al problema della traduzione (dal latino o dal greco) che viene assegnata ogni anno ai maturandi? Evidentemente la natura di questa prova viene considerata una questione marginale rispetto al valore fondativo degli studi classici, per chi li difende, o alla loro irrilevanza, per chi li attacca. La realtà vuole, però, che al termine del liceo lo studente del classico debba affrontare una prova di traduzione, non di superiore umanesimo.
E che, se questa prova fosse diversa, i suoi studi risulterebbero subito assai meno “inattuali”.
Al presente le cose stanno così: il maturando è messo di fronte a un testo, latino o greco a seconda degli anni, senza che gli sia consentito scegliere fra più opzioni; di esso gli viene indicato l’autore, ma non l’opera da cui è tratto, né vi è altra forma di contestualizzazione. Dopo di che, con l’aiuto del vocabolario, deve mettersi a tradurlo, ovvero ingegnarsi a copiarne la versione da internet, come oggi largamente avviene. Qual è la ratio presupposta da questa prova? Manifestamente, che cinque anni di liceo siano serviti ad apprendere la “lingua” latina o greca, visto che la valutazione verte su una nuda prova di traduzione. Tant’è vero che il testo assegnato può essere tratto anche da un autore mai tradotto in classe, come Celso o l’Aristotele delle opere scientifiche. Che problema c’è? Il latino è latino, il greco è greco: o lo si sa o non lo si sa.
Se la ratio di questa prova è chiara, è altrettanto chiaro che tutto ciò non ha senso. Cinque anni di liceo classico si fanno per conoscere non solo la lingua, ma la cultura greca e latina, in tutte le sue accezioni. E la prova di maturità dovrebbe esser concepita in modo tale da poterlo esprimere. L’assoluta incongruità di quanto accade al classico emerge chiaramente dal confronto con le prove finali del liceo linguistico, ossia un corso di studio che, questo sì, è centrato sull’apprendimento di “lingue”. Qui allo studente, messo di fronte a più testi fra cui sceglierne uno, viene richiesto di «comprendere e interpretare» tale testo rispondendo «a domande aperte e/o chiuse ad esso relative » e redigendo «un testo in forma di narrazione o descrizione o argomentazione afferente alla tematica del testo scelto». Chi ha concepito questa prova, evidentemente, sa che conoscere una lingua straniera non significa banalmente riuscire a travasare un enunciato inglese in uno italiano: ma saper riarticolare una lingua e una cultura ‘altre’ nelle forme linguistiche e culturali che ci sono proprie. Tutto al contrario, la seconda prova della maturità classica continua a presupporre che “sapere” il latino o il greco significhi solo non fare troppi errori, di sintassi o di grammatica, quando si mette in italiano un brano di Seneca o di Senofonte. E tutto ciò avviene al termine di un corso di studi che non è concepito per insegnare lingue, ma per aprire più vasti e generali orizzonti di cultura.
La tipologia della seconda prova dei classici va cambiata, non c’è dubbio. E’ quanto è emerso da tre incontri – Torino, Siena, Benevento – che il Centro Ama dell’Università di Siena ha organizzato con il sostegno della Direzione degli Ordinamenti Scolastici del Miur (documentazione sul sito https://antropologiamondoantico.wordpress.com). Oltre un centinaio di insegnanti di materie classiche, appassionati e motivati, ma sempre più inquieti, hanno fatto rete per discutere di questo problema e per formulare proposte. Decisamente semplici, bisogna dire, e tali da poter essere adottate anche subito. Ne citiamo alcune: fornire al candidato non una sola traccia, ma una rosa di più testi, perché possa scegliere quello più congeniale a lui e alle cose che ha studiato; inoltre far precedere il testo da una contestualizzazione più ampia che aiuti a capire di cosa si sta parlando. Sono anni che la linguistica ha messo in evidenza l’importanza del “contesto” per determinare il senso di qualsiasi enunciato: perché greco e latino dovrebbero fare eccezione?
Si è insistito poi sull’opportunità di far seguire al testo da tradurre una serie di domande che vertano non solo sui suoi aspetti linguistici, ma anche su quelli culturali o letterari. In questo modo si permetterebbe finalmente allo studente di valorizzare anche ciò che ha capito, e possibilmente amato, della cultura antica. Naturalmente questa trasformazione richiede di concedere più ore per la prova, almeno sei, di scegliere testi più brevi ma, soprattutto, di contenuto culturale più rilevante: in modo cioè da poterne anche parlare, oltre che metterli in italiano. In particolare, sapere che la prova finale darà spazio non solo alla lingua, ma anche alla cultura dei Greci e dei Romani, permetterà finalmente agli insegnanti di dedicare più tempo e più energie a questi aspetti – i più affascinanti degli studi classici – senza sentirsi in colpa. Se davvero si vuole far rivivere il nostro liceo, cominciamo dunque col ridargli aria togliendo il “tappo” della seconda prova. Il Ministro Giannini è una specialista di glottologia, sa bene che tradurre non è un atto puramente linguistico, ma chiede di mobilitare cultura, individuare analogie e differenze, e soprattutto dà la possibilità di mettere in prospettiva noi stessi rispetto agli altri: quelli di cui (chiunque essi siano) affrontiamo la lingua. Sta qui la bellezza, e l’importanza formativa, del tradurre. La preghiamo perciò di fare in modo che anche allo studente del classico sia finalmente permesso di esprimere tutto questo.

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Archeologia in guerra

“Scaviamo vegliati dai peshmerga per salvare i tesori dell’Iraq”
Il direttore della missione archeologica italiana: “Danni gravissimi”

L’Isis stacca i bassorilievi dalle pareti per venderli sul mercato nero

Giordano Stabile, “La Stampa”, 3 marzo 2015

Un mondo ancora in gran parte inesplorato. Una terra promessa per gli archeologi che si è dischiusa solo da pochissimi anni, dopo che la dittatura di Saddam Hussein, con il suo tentativo di genocidio del popolo curdo, aveva congelato tutto. Il Nord dell’Iraq, il punto di incontro fra i grandi imperi dell’antichità, è un enorme tesoro archeologico, con al centro quella Mosul in mano allo Stato islamico da dove arrivano le immagini dello scempio  dell’antica Ninive.

«I danni sono incalcolabili – racconta l’archeologo Daniele Morandi Bonacossi, direttore della missione archeologica in Iraq dell’Università di Udine, appena tornato dalla regione -. Ed è impossibile il riscontro diretto. Il che è ancora più angosciante». Lo choc per il video dove gli islamisti mostrano la distruzione del museo di Mosul è ancora forte. «Dalle immagini possiamo capire che per fortuna alcune statue erano copie in gesso. Ma le altre, dove si vedono quegli sciagurati accanirsi con le mazze, erano originali».
Statue del periodo partico del sito di Hatra, bassorilievi assiri. E soprattutto i colossali tori androcefali, con la testa di uomo, provenienti dalla porta del dio Nergal, il dio che governava il mondo dei defunti». Quella di Nergal era la più importante delle quindici porte delle mura di Ninive, fatte costruire dal re Sennicherib.
Le mura di Ninive, l’antica capitale dell’impero assiro i cui resti sono all’interno dell’odierna Mosul, «che Sennacherib trasformò in una metropoli di 750 ettari con una cinta muraria lunga dodici chilometri, ancora molto ben conservata». Roma imperiale, la più grande città dell’antichità, aveva una superficie di 1800 ettari e mura lunghe 19 chilometri. Le mura di Ninive sono scampate a 2700 anni di storia turbolenta. Per lo meno fino all’arrivo del califfo Abu Bakr al Baghdadi, che ha promesso di demolirle.
«Fino a ora le notizie di distruzione non sono confermate – rassicura Morandi Bonacossi -. Un nostro collega, che non possiamo nominare per ragioni di sicurezza, è ancora a Mosul, e non ha riscontrato demolizioni. Ma nelle ultime settimane gli islamisti sembrano ancora più accaniti». C’è stato il rogo di diecimila libri antichi della biblioteca, l’assalto al museo, «e il saccheggio di Nimrud, altro sito importantissimo: hanno segato e asportato bassorilievi dell’IX secolo a. C. probabilmente per poi venderli sul mercato nero».
Il saccheggio degli islamisti, anche come fonte di finanziamento, è sistematico. E il timore è forte per gli altri siti del Nord iracheno sotto il dominio dello Stato islamico. Come Assur, culla della civiltà assira, Tikrit, e Samarra, «una delle grandi residenze dei califfi arabi abbasidi, con il suo magnifico minareto elicoidale», spiega l’archeologo. Più a Nord-Est, nel Kurdistan ora quasi indipendente, invece continua il lavoro di conservazione, protetto dai peshmerga, i combattenti curdi.
«La mia équipe è impegnata nel progetto Terra di Ninive – racconta Morandi Bonacossi – la ricostruzione, catalogazione e valorizzazione degli insediamenti nella campagna di Ninive, dalla preistoria agli ottomani». Con siti come Tell Gomel, il luogo della battaglia di Gaugamela dove nel 331 a. C. Alessandro Magno sconfisse i persiani. E uno straordinario sistema di acquedotti, il primo della storia, scoperto dagli italiani: «Se ne conosceva solo uno, ne abbiamo ritrovati altri quattro. In tutto 240 chilometri di canalizzazioni, con impressionanti ponti in pietra». Un’opera voluta dal re Sennacherib per irrigare, portare acqua a Ninive e «creare un paesaggio di tipo imperiale, secoli prima di Roma». Un tesoro inestimabile, protetto dalle mani degli archeologi. E dai peshmerga.

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Archimede, Ulisse e la matematica


Quante erano le mandrie del Sole di cui parla Omero nell’Odissea?
Cinquanta milioni di capi, secondo i calcoli del celebre scienziato

Piergiorgio Odifreddi, “La Repubblica”, 20 febbraio 2015

Anticipiamo la lettura del Canto XII dell’ Odissea di Piergiorgio Odifreddi, Il problema dei buoi di Archimede in scena, nell’ambito del progetto di Sergio Maifredi, il 23 al Politeama di Genova alle 21

LA TECNICA del flashback, largamente sfruttata dalla letteratura e dal cinema, risale in realtà all’antichità. La si ritrova in molti classici, dal Mahabharata all’ Iliade, e i Greci la chiamavano analessi, “ripresa” o “recupero”. L’esempio più noto è il blocco dei canti IX-XII dell’ Odissea , nei quali Ulisse racconta al re Alcinoo le peripezie che l’hanno portato da Troia alla terra dei Feaci, passando per i Lotofagi, i Ciclopi, l’Eolia, Circe e l’aldilà. Nel regno dei morti, oltre a rivedere Achille e altri compagni d’arme, Ulisse incontra l’indovino Tiresia, che gli annuncia l’ormai imminente ritorno a casa.
Ma lo mette in guardia sulle mandrie del Sole che troverà in Sicilia: se saranno rispettate, tutti torneranno a Itaca, altrimenti ci arriverà lui solo. Cosa successe «quando si dipartì da Circe» lo racconta il Canto XII. Dapprima Ulisse si lega all’albero della nave per sentire il canto delle Sirene, poi passa indenne fra Scilla e Cariddi, e infine trova ciò che gli aveva predetto la maga: «Allora incontro ti verranno le belle / spiagge della Trinacria isola, dove / pasce il gregge del Sol, pasce l’armento: / sette branchi di buoi, d’agnelle tanti, / e di teste cinquanta i branchi tutti».
Per un mese i venti impediscono ai Greci di ripartire. Le provviste finiscono e i compagni di Ulisse si cibano delle mandrie del Sole. Giove li punisce e affonda la nave. Solo Ulisse si salva, naufraga a Ogigia e rimane per sette anni con Calipso. Infine, con una zattera arriva alla terra dei Feaci, che dopo il suo lungo flashback lo riportano in patria. Fine dell’odissea di Ulisse e dell’ Odissea di Omero, ma non delle spiagge della Sicilia e delle mandrie del Sole. Qualche secolo dopo, infatti, il più grande figlio dell’isola tornò su entrambi gli argomenti, e mostrò come un sommo matematico poteva non solo rispondere per le rime a un sommo poeta, ma anche surclassarne la fantasia. Stiamo parlando di Archimede, nato e morto a Siracusa nel terzo secolo prima della nostra era. In una lettera al tiranno della città egli prese spunto dalle omeriche “belle spiagge” dell’isola e scrisse: «Alcuni, o re Gelone, credono che il numero dei granelli di sabbia sia infinito. E non mi riferisco solo ai granelli di sabbia che si trovano a Siracusa e nei suoi dintorni, ma nell’intero mondo, abitato o no». Archimede notò che il numero dei granelli che possono riempire «non solo l’intera Terra, ma addirittura l’intero universo» è ovviamente immenso, ma ben lungi dall’essere infinito. Per calcolarlo, fece il rapporto tra il volume dell’universo e il volume di un granello di sabbia. E per poter stimare il primo si appoggiò alla teoria di Aristarco, il quale sosteneva che la Terra gira attorno al Sole, e che la distanza delle stelle fisse sta all’orbita terrestre come l’orbita terrestre sta al raggio della Terra.
Questa lettera di Archimede, nota come l’ Arenario, è dunque la testimonianza storica che il processo a Galileo del 1633 fu un anacronismo bimillenario, rispetto alla perduta opera di Aristarco. Ed è anche la testimonianza che i Gre- ci erano arrivati a considerare numeri enormi: in termini odierni, il numero di granelli di sabbia che riempirebbero l’universo di Archimede è 10 alla 63, cioè un uno seguito da 63 zeri. Per paragone, il numero di particelle esistenti al mondo viene oggi calcolato in 10 alla 80, cioè un uno seguito da 80 zeri. Ma per poter fare i suoi calcoli matematici, Archimede dovette anche risolvere un problema linguistico. Il più grande numero per cui i Greci avevano un nome era la “miriade”, pari a 10.000, e per nominare il risultato del calcolo precedente avrebbero dunque dovuto ripetere «una miriade di miriadi di miriadi…» per sedici volte di fila. Archimede inventò invece un sistema di numerazione bidimensionale basato su “cicli” orizzontali e “ordini” verticali, che raggiungeva in pochi passi il numero dei granelli di sabbia, e proseguiva permettendo di nominare tutti i numeri usati dai matematici fino agli inizi del Novecento. Sistemate le spiagge della Sicilia e del mondo, Archimede poté rivolgere la sua attenzione alle mandrie del Sole. E lo fece perché l’aritmetica proposta da Omero era infantile e arrivava a un misero numero di 700 capi, indegno sia della grandezza dell’Olimpo che dell’interesse di un matematico. Egli si indirizzò al collega Eratostene, passato alla storia per aver valutato il raggio terrestre in circa 6.300 chilometri. E in un poema di 44 versi intitolato Il problema dei buoi lo sfidò scrivendo: «Amico, tu che possiedi molta scienza, calcola il numero delle mandrie del Sole che pascolavano un giorno sulle pianure della Trinacria, distribuite in quattro gruppi di diverso colore: bianco latte, nero brillante, dorato e screziato». Archimede passò poi a enumerare condizioni sulla composizione delle mandrie, ben più complicate di quelle di Omero. Ad esempio, i tori bianchi erano la metà aumentata di un terzo di quelli neri, più tutti i fulvi. E analoghe condizioni, sette in tutto, legavano fra loro gli altri gruppi di tori, così come quelli analoghi delle vacche. Fin qui il problema portava a un risultato di una cinquantina di milioni di capi. Ma Archimede aggiunse che chi l’avesse risolto «non era comunque ancora un sapiente». Egli aggiunse allora due condizioni, equivalenti a dire che la somma dei tori bianchi e neri doveva essere un numero quadrato, come 4, 9, 16, eccetera. E la somma dei tori fulvi e screziati un numero triangolare, come 3, 6, 10, eccetera. Il che cambiava la musica, o la poesia, e rendeva il tutto terribilmente complicato.
Solo nel 1880 due matematici tedeschi, Krumbiegel e Amthor, risolsero il problema, scoprendo che la minima soluzione è pari a circa 10 alla 200.000: un numero enorme con circa 200.000 cifre, rispetto al quale i numeri dei granelli di sabbia che riempirebbero l’universo non sono che pulci sul monte Everest. Naturalmente, l’interesse di Archimede non era per piccole cose concrete, come la sabbia o le mandrie, degne ispirazioni per il poeta che percepisce il mondo con i sensi. Era piuttosto per enormi numeri astratti, come 10 alla 63 o 10 alla 200.000, che attirano l’occhio della mente con il quale guarda il matematico. Un occhio che gli permette di vedere molto più lontano non solo degli eroi, ma anche degli dèi omerici e di qualunque altro Olimpo.

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Patroclo curava Achille senza medicine

Umberto Curi, “Corriere della Sera – La Lettura”,  15 febbraio 2015

La massima de minimis non curat praetor significa che colui che è investito di un ruolo di particolare rilievo (ad esempio il praetor ) non si «preoccupa» delle bagattelle. La «cura» compare qui nella sua accezione originaria: non un complesso di pratiche rivolte a qualcuno che ne abbia bisogno, ma una disposizione soggettiva, uno stato d’animo, una condizione affettiva. 
«Curare» nel senso latino indica lo «stare in pensiero» per qualcuno o per qualcosa, mentre il «curare» nel senso moderno implica un «trattamento», per lo più comprensivo anche della somministrazione di farmaci. Nel linguaggio corrente non è rimasta alcuna traccia di tale dualità. Dalla «cura» è scomparsa ogni connotazione «soggettiva», per il sopravvento di interventi che assumono come «oggetto» il «paziente», così chiamato proprio perché a lui è attribuito un ruolo «passivo» di chi debba subire gli atti in cui è incorporata la cura. Una netta differenza è riconosciuta invece da Martin Heidegger, quando distingue fra «prendersi cura» e «aver cura»: nel primo caso si ha a che fare con le cose di cui ci occupiamo nella maniera dell’utilizzabile, mentre nel secondo caso siamo di fronte all’azione diretta ad altri esseri. 
I diversi quadri concettuali che sono a monte del concetto di cura sono esplorati con raffinata sensibilità teoretica e notevole acume da Luigina Mortari, nel suo Filosofia della cura, appena uscito da Raffaello Cortina Editore. L’orizzonte assunto come riferimento non riguarda esclusivamente gli aspetti specificamente «terapeutici» della cura, ma investe piuttosto direttamente i nodi più propriamente speculativi di questa problematica. Non solo, dunque, la cura rivolta agli altri, ma anche la cura di sé (alla quale nella Grecia classica era riservata una particolare attenzione, come ha sottolineato tra gli altri Michel Foucault) e la cura del mondo, con l’obbiettivo dichiarato di comporre una teoria descrittiva della cura che possa «costituire lo sfondo per disegnare una valida politica dell’esperienza». 
Luigina Mortari troverebbe conferma della sua ricca e originale perlustrazione nel termine greco abitualmente considerato il corrispettivo del latino cura . Già in Omero, e poi negli autori arcaici, therapéia vuol dire essenzialmente «servizio». Non, dunque, un «trattamento», comunque definito, ma un atteggiamento, un modo di essere nei confronti degli altri. 
Importante è anche almeno accennare alle modalità concrete, con le quali si esprime la therapéia. Essa implica, infatti, il «mettersi all’ascolto» dell’altro ovvero, per usare il corrispettivo latino, l’ obaudire l’altro, e cioè essere a sua disposizione (Patroclo, ad esempio, è il therápon di Achille, anche se non gli somministra alcuna medicina, ma gli «obbedisce»). Cosa sia accaduto, nel percorso non rettilineo che ha condotto la cura-therapéia a mutare così radicalmente il suo significato, è questione sulla quale converrà ritornare, in ciò stimolati dal bel libro di Mortari. 

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