La nobile arte di persuadere

canons-post-001La «Retorica» di Aristotele: una tecnica per convincere un uditorio con buone ragioni ma evitando di scadere nella demagogia. Ecco perché dovrebbe essere un riferimento nella formazione del buon cittadino

Armando Massarenti

“Domenica – Il Sole 24 Ore”, 1 febbraio 2015

La Retorica di Aristotele è ancora oggi un punto di riferimento per chiunque abbia a cuore uno dei nodi cruciali per la formazione del buon cittadino. «La teoria dell’argomentazione – scriveva Norberto Bobbio nell’introduzione del Trattato dell’argomentazione di Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca (1958), gli studiosi che nel ’900 compresero appieno la portata di quell’insegnamento – è lo studio metodico delle buone ragioni con cui gli uomini parlano e discutono di scelte che implicano il riferimento a valori quando hanno rinunciato a imporle con la violenza o a strapparle con la coazione psicologica, cioè alla sopraffazione e all’indottrinamento». È un’arte che studia cosa c’è di persuasivo in ogni discorso, una tecnica che si avvale sia del buon uso delle emozioni sia di strumenti di tipo logico. Detto ciò, ecco già bello e delineato, in poche sicure pennellate, un attualissimo programma per la scuola di oggi, che di queste competenze – sia a livello di chi insegna sia di chi apprende – avrebbe un enorme bisogno.
Ma tuffiamoci pure nel passato. Soffermiamoci sull’autore di quello straordinario manuale, togliamogli di dosso la polvere che ingiustamente immaginiamo lo ricopra, e pensiamolo giovane diciottenne alle prese con una materia, la retorica appunto, che egli intende rinnovare legandola strettamente alla necessità di trasmettere i saperi più fondati. Si è sempre pensato che la Retorica, di cui Carocci propone una splendida edizione curata da Silvia Gastaldi, fosse stata composta da Aristotele nel suo secondo periodo ateniese, quando egli era un maturo docente nel celebre Liceo. L’interpretazione di Ingemar Düring, che ha modificato l’intera cronologia delle opere dello Stagirita, invece, fa oggi risalire la stesura di questo testo al primo periodo ateniese, ovvero alla gioventù del filosofo e al successivo ventennio da lui trascorso in seno alla rinomata Accademia e accanto al maestro Platone.
In entrambi i casi, con la Retorica siamo di fronte a un testo per la scuola, un manuale – in tre libri – scritto appositamente per l’insegnamento. Ma è più affascinante immaginare, con Düring, un Aristotele ancora giovanissimo e fresco di studi il quale, nella stesura del trattato sull’arte della strutturazione dei discorsi, mette in pratica le raccomandazioni del maestro Platone – il quale sente, così come il suo allievo, il bisogno di un urgente rinnovamento della retorica ateniese – e ne critica diligentemente i presupposti. La novità della proposta aristotelica sta nella precisa volontà di trasformare la retorica da mera prassi (empeiria), atta a convincere chiunque di qualunque cosa – così come era stata consegnata dalla tradizione precedente nelle mani dei Sofisti -, a vera e propria techne, cioè al rango di ars – come la chiameranno i latini e poi gli scolastici medievali che la collocheranno tra le artes liberales sermocinales del Trivio – dotata di una teoria sua propria, e capace di radicare una volta per tutte le pratiche del logos nella dimensione razionale. È grazie ad Aristotele, dunque, che la retorica è divenuta quell’abilità normata, grazie alla quale «si è in grado di ragionare (syllogizesthai) intorno a qualsiasi problema proposto».
Che cosa insegnava, dunque, Aristotele? Il suo pensiero contribuì in maniera decisiva a restituire dignità a un’attività intellettuale che era stata declassata da molti Dialoghi platonici: nel Protagora e nel Gorgia, per esempio, i costruttori di discorsi, i Sofisti, sono presentati come parolai, demagoghi, adulatori dei politici. Quei giovani ateniesi, dunque, si trovarono di fronte a un modo del tutto nuovo di concepire i discorsi destinati a un pubblico: in pratica Aristotele li spinse a comprendere che, per strutturare un discorso convincente, su qualunque argomento, è necessario innanzitutto saper ragionare correttamente. Aristotele accomuna dialettica e retorica in quanto discipline “sorelle” che non possiedono un oggetto determinato – come accade ad esempio alla fisica o alla storia -, ma che di tutto possono discettare in modo convincente purché il ragionamento vi sia ben allestito e fondato su corretti presupposti. Sia la dialettica, arte del dibattimento speculativo, sia la retorica, arte della parola pubblica, rivolta a un uditorio – politico o giudiziario -, utilizzano nozioni generalmente accettate (endoxa), opinioni condivise che fanno leva sull’interlocutore, e aiutano a costruire o rafforzare i valori della comunità.
L’opinione (doxa) in Aristotele perde però il valore svalutativo conferitole precedentemente da Platone, e diviene la base dell’edificazione del discorso retorico mirato alla persuasione. Assai realisticamente egli tiene conto del fatto che nella vita associata non si fanno discorsi basati su verità inconfutabili, come quelle logiche o matematiche, ma che spesso dobbiamo argomentare a partire da premesse che sono vere per lo più, o confermate da testimoni autorevoli, e che questi discorsi hanno anch’essi diversi gradi di validità e diversa portata conoscitiva. Così egli insiste, oltre che sulla chiarezza (saphes) dello stile, sull’uso corretto della metafora, concepita non tanto come elegante figura di abbellimento, ma come strumento cognitivo capace di sollecitare la fantasia e quindi di favorire l’apprendimento.
Su un aspetto però Aristotele concordava col suo maestro dell’Accademia: ovvero sul fatto che la retorica è capace di psychagogia, di condizionare psicologicamente l’ascoltatore ammaliandolo con le parole. Il filosofo è ben consapevole del potere immenso della parola, soprattutto quando essa è sulla bocca di politici dalle cattive intenzioni, ed è per questo che insiste, nel secondo libro, sull’importanza del carattere di chi parla (ethos tou legontos), sulla sua saggezza, sulla sua virtù etica (arete) e sulla credibilità che egli raccoglie presso l’uditorio cui si rivolge. E, d’altra parte, egli insiste anche molto sulla portata delle passioni (pathe) che possono essere suscitate da un discorso ben costruito, sul fatto che «tanto le qualità etiche del parlante, quanto le reazioni emotive di chi ascolta emergeranno dalla strutturazione impressa al discorso». Non stupisce, dunque, se egli pretende che l’oratore sia un profondo conoscitore della sensibilità umana, capace di comprendere la psicologia dell’uditorio e le passioni che lo animano: una sapienza che può diventare un’arma a doppio taglio se il retore capace è al soldo della demagogia.
In ambito cognitivista anglosassone, oggi si rivaluta enormemente lo «statuto psicologico delle passioni» di cui Aristotele dà prova nella Retorica. Martha Nussbaum afferma che per il filosofo «le passioni non sono cieche forze animali, ma elementi costitutivi della personalità, dotati di intelligenza e discernimento, strettamente correlati a convinzioni di un certo tipo e quindi sensibili a modificazioni cognitive».
La retorica aristotelica, dunque, intesa come apprendimento di una tecnica (theorein), si pone quale strumento virtuoso di educazione ed è per questo suo valore pedagogico che andava insegnata nelle scuole: non solo affinché fossero formati gli uomini politici del futuro democratico, ma anche e soprattutto perché tutti gli altri cittadini venissero dotati di strumenti cognitivi e speculativi utili allo smascheramento di quei camuffamenti tipici del linguaggio politico, che fa leva su opinioni sbagliate eppure largamente condivise e su passioni negative. Dell’estrema importanza dell’apprendimento della retorica – insieme alla logica – nella formazione dei giovani scolari erano ben consapevoli i docenti italiani già nel Medioevo e ne erano convinti i Gesuiti che la insegnavano nei loro collegi. Oggi che le giovani generazioni sono esposte più che mai alle conseguenze del caos affabulatorio e persuasivo della multimedialità, in Italia – a parte il timido tentativo dell’istituzione del “saggio argomentativo” tra le prove scritte di Italiano della scuola superiore, tuttavia non supportato da un’adeguata preparazione logico-retorica – non si è ancora pensato seriamente a quanto gioverebbe alle nostre giovani menti la reintroduzione della Logica e della Retorica nel curriculum scolastico?

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L’età dell’angoscia

Il III secolo d.C. fu definito l’«età dell’angoscia», ora ci frastorna lo scontro di civiltà Ma è il solito urto tra privilegiati e diseredati, che talvolta emerge con furore mistico

Luciano Canfora

“Corriere della Sera – La Lettura”, 25 gennaio 2015

All’inizio del XXI secolo è nato, contro ogni aspettativa, un «Califfato» che profetizza la fine dell’Occidente, così come nell’ultimo ventennio del secolo XX il khomeinismo profetò la fine dell’Urss. Nel momento più acuto della lunga crisi dell’impero romano (III secolo d.C.) sorse una unità statale possente, che staccò pezzi significativi dalla compagine dell’impero: Siria, Egitto, Asia Minore. Fu il regno di Zenobia di Palmira, che costrinse l’imperatore Aureliano (270-275 d.C.) a una dura guerra per riconquistare l’Oriente e in particolare l’Egitto, al prezzo — tra l’altro — della distruzione di un intero quartiere di Alessandria e della sua mitica biblioteca.
Difficile indicare un più drammatico simbolo di «decadenza». Quasi un secolo dopo, uno storico siriaco che scriveva in latino ed era rimasto pagano, Ammiano Marcellino, rievocava la terribile e distruttiva vicenda di Alessandria nel XXII libro delle sue Storie . Oggi alcuni pensano che il mondo stia vivendo un nuovo «terzo secolo»: sta davvero finendo una civiltà?
Ogni epoca ha udito paventare o profetare la decadenza. Questo potrebbe portare a concludere che la decadenza non esiste e che, semmai, è la proiezione dell’allarme di alcuni o di molti, o anche dell’«angoscia» di una parte, più sensibile e più pensante.
L’allarme cresce al cospetto di grandi rivolgimenti. Nell’età delle guerre civili romane, Lucrezio ravvisa un indizio di decadenza persino nella realtà fisica: un tempo la terra produceva corpi più grandi, giganteschi. Molti anni fa, Santo Mazzarino, in un piccolo libro geniale, La fine del mondo antico (1959), apriva l’ultimo capitolo con i versi di Verlaine: «Io sono l’impero alla fine della decadenza, che guarda il passaggio dei grandi barbari bianchi, componendo acrostici indolenti» (1883). Qui torna il motivo della grandezza dei corpi. I popoli nuovi sono anche fisicamente «più grandi», e l’impero in decadenza li osserva indolente. Aggiungiamo che ciò che appare «decadenza» ad alcuni protagonisti o testimoni non è affatto tale per altri. Quelle che, nella prospettiva dell’assetto imperiale romano, e nella percezione dei suoi ceti dirigenti, nonché di una parte della storiografia moderna, erano le «invasioni barbariche», nella storiografia germanica sono le «migrazioni di popoli»: fenomeno dunque positivo che sta alla base della compenetrazione latino-germanica da cui nasce il mondo moderno.
Crisi acute — all’apparenza irreversibili — scandirono la storia della compagine romana ben prima del «fatale» III secolo. Orazio, testimone diretto del riaprirsi delle guerre civili dopo la morte di Cesare, prevede, nell’ Epodo XVI , che i barbari verranno ad abbeverare i loro cavalli in Campidoglio. Analoga fu la percezione, tra i contemporanei, dell’anno 69 d.C., tra la morte di Nerone e l’avvento di Vespasiano: riesplose allora la guerra civile e parve profilarsi il fallimento non solo della dinastia giulio-claudia, ma della costruzione augustea come tale. E così dalla crisi esplosa alla morte di Commodo (180-192), emerse, nel sangue, la dinastia severiana; e, all’estinguersi di questa, un «semibarbaro», Massimino il Trace (235-238), salì sul trono dei Cesari.
Non sarà inutile ricordare che proprio la vicenda del breve e devastante governo di Massimino, drammatizzata da Erodiano nella Storia dopo Marco , fu — insieme all’esperienza della rivoluzione russa — tra gli spunti che misero in moto la fantasia storiografica di uno dei grandi del Novecento: Mikhail Rostovtsev. Per lui — ormai esule — nell’opera sua più celebre, la Storia economica e sociale dell’impero romano (1926), la rivoluzione russa del 1917 aveva rappresentato l’analogo della sommersione della elevata civilitas ellenistico-romana da parte della semibarbara massa contadina.
La scansione per secoli, si sa, è sempre approssimativa. Nondimeno è lecito dire che la percezione del tramonto di un mondo e l’aspettativa di una nuova, salvifica, linfa spirituale furono sentimenti diffusi nel tempo che va dal sempre più stanco governo di Marco Aurelio (161-180 d.C.) alla rifondazione dello Stato ad opera di Diocleziano (284-305 d.C.). Perciò quel secolo fu definito da un grande storico irlandese, Eric Dodds (1893-1979), «età dell’angoscia», in un famoso ciclo di conferenze poi divenute libro (1964).
Ernest Renan si era spinto oltre e aveva parlato di fine del mondo antico già con Marco Aurelio. Pagani e cristiani in un’epoca di angoscia di Dodds cercava di cogliere i patemi e le aspettative che accomunavano le varie correnti spirituali dell’epoca al di là della distinzione, non di rado arbitraria, tra «pagani» e «cristiani».
L’iniziativa di Eugenio La Rocca di dar vita, a Roma, ai Musei Capitolini, a una grande mostra, ricca di oltre 200 pezzi, dedicata appunto al «secolo dell’angoscia», non soltanto offre materiali di primaria importanza, illustrativi di quell’epoca, ma, com’è giusto, rimette in discussione la definizione stessa, così fortunata, di Dodds. La Rocca mette alla prova la tenuta storiografica di tale concetto nell’ambito storico-artistico. Dalla sua analisi risulta chiaro quanto sia deludente il meccanicismo di chi ha posto in relazione la «crisi del III secolo» con le nuove forme di espressione artistica, in particolare la ritrattistica e il gigantismo dei sarcofagi. Una impostazione così sanamente storicistica si coglieva già nel libro «giovanile» di Ranuccio Bianchi Bandinelli, Storicità dell’arte classica (1943) di cui parlò Giorgio Pasquali, con schietto entusiasmo, nel «Corriere della Sera» del 24 giugno di quell’anno: «Per Bandinelli — scrisse Pasquali — l’ellenismo figurativo dura a Roma da Silla a Traiano; sotto Traiano comincia un’arte nuova, romana, che giunge sino a Teodosio». È dunque già nel II secolo, e sempre più dalla metà in avanti, che si produce una trasformazione profonda, che investe i più diversi ambiti: artistico, religioso, filosofico, politico. E prosegue ben oltre Diocleziano.
Lo stesso Dodds, in un precedente lavoro divenuto ben presto celeberrimo, I Greci e l’irrazionale (1950), aveva infranto l’incantesimo «apollineo»: aveva fatto emergere dalle nostre fonti, spesso, in precedenza, lette selettivamente o non capite, il magma cultural-religioso che, nel mondo greco, costituiva una sorta di realtà alternativa rispetto a quella razionale e luminosa su cui fa perno la lettura classicistica. Quel magma ebbe sue forme, si nutrì di culti misterici e di culti stranieri (Tracia e Frigia ne furono le due aree matrici) i quali guadagnarono terreno nei ceti cosiddetti «bassi», ma attrassero anche quelli «alti».
Di questa genealogia intellettuale, un ramo fu Il tramonto dell’Occidente di Spengler (1918), ma è giusto ricordare che l’intuizione di partenza era racchiusa nel memorabile ancorché indigesto saggio di Nietzsche sull’ Origine della tragedia, là dove l’allora filologo fissava, con un colpo d’ala, le due categorie sempre confliggenti del «dionisiaco» e dell’«apollineo». In momenti di grave crisi, quel magma fuoriesce come lava.
La prospettiva più aderente alla realtà è dunque quella che considera forze e pulsioni siffatte come stabilmente e «pericolosamente» latenti. L’«angoscia» non è appannaggio di un determinato secolo. Il nostro presente viene frastornato dalla dottrina del «conflitto di civiltà», e la cronaca apparentemente ne ribadisce la fondatezza. Ma, a ben vedere, si tratta dell’eterno conflitto tra l’alto e il basso, tra privilegiati e diseredati, che attraversa epoche e continenti; e che, quando i programmi etico-politici più razionali vengono sconfitti, si esprime come furore mistico-religioso-palingenetico.

L’Impero Romano e il suo lato oscuro
Ai Musei Capitolini dal 28 gennaio la rassegna dedicata al III secolo dopo Cristo, tempo di ansie religiose e presagi di decadenza

Maurizio Bettini
“ La Repubblica”, 22 gennaio 2015

SI ERA nel 1970 e La Nuova Italia mandò in libreria Pagani e Cristiani in un’epoca d’angoscia, un libro di Eric R. Dodds. L’autore, regius professor di Greco a Oxford, era in realtà già noto in Italia per un altro libro dal titolo ugualmente suggestivo: I Greci e l’irrazionale , apparso una decina di anni prima. Che cosa introduceva Dodds, con questa nuova opera, nella nostra visione dell’età imperiale romana e del mondo antico in generale?
Sostanzialmente due cose: il richiamo a un poema composto nel 1947 da Wystan Hugh Auden, The Age of Anxiety e soprattutto l’idea che una determinata epoca della storia umana potesse aver condiviso uno stesso stato d’animo, una medesima condizione spirituale: per non dire un medesimo inconscio. Sappiamo che nel periodo compreso fra Marco Aurelio e Costantino l’impero romano fu caratterizzato da una crescente spirale di mali: decadenza sociale, crisi economica, pressione ai confini dell’impero da parte di altre popolazioni, conflitti intestini, strapotere dell’esercito, e così di seguito. Nell’interpretazione di Dodds, a questa realtà profondamente negativa avrebbe fatto riscontro, in campo spirituale, la crescita di un nuovo sentimento religioso, più profondo, più individuale, tale da aprire la strada all’affermazione di culti centrati sull’immortalità e la sopravvivenza dell’anima: fra cui il cristianesimo, ovviamente, che in breve avrebbe assunto una posizione dominante. Questa trasformazione religiosa dell’impero si sarebbe dunque consumata sullo sfondo di uno stato d’animo ben individuato e largamente condiviso: l’angoscia. Per la verità l’edizione originale del libro di Dodds aveva per titolo Pagans and Christians in an Age of Anxiety . E come rileva Eugenio La Rocca nel bel saggio che inaugura il catalogo di questa mostra, è difficile capire perché il termine anxiety – “ansietà”, “inquietudine” – fosse stato tradotto con una parola tanto più marcata come “angoscia”. In ogni caso fu forse anche per questa scelta editoriale, un po’ spiccia ma efficace, che il libro suscitò molta attenzione. Questa formula foriera di inquietudine, “età dell’angoscia”, torna adesso nel titolo della mostra che si apre il 28 gennaio ai Musei Capitolini (fino al 4 ottobre), dedicata al periodo che Dodds mise al centro delle sue ricerche. Inutile dire che un momento come quello odierno, in cui certezze sociali, economiche e culturali sembrano scomparire, pare fatto apposta per resuscitare i fantasmi che, secondo Dodds, agitarono pagani e cristiani. Per altro verso, però, non dobbiamo neppure semplificare troppo il senso delle trasformazioni che ebbero luogo nel III secolo d. C. Sarebbe sbagliato affermare che l’afflusso di religioni “straniere” a Roma in quel periodo costituì un fenomeno radicalmente nuovo: il politeismo antico ha sempre praticato, e accettato, la trasmigrazione degli dèi, cercare e accogliere nuovi culti faceva parte del sistema. Così come è difficile accettare l’idea che l’avvento di nuove religioni, e soprattutto quello del Cristianesimo, fosse dovuto esclusivamente al bisogno di spiritualità che travagliava gli abitanti dell’impero: con l’implicita presupposizione che i culti tradizionali fossero inadeguati a soddisfare questo bisogno e come tali già predestinati a soccombere. Si tratterebbe infatti di un’interpretazione più teologica che non storica. Ma non è tanto questo che deve interessarci, quanto l’angoscia, o l’ansia, collocate da Dodds sullo sfondo della sua ricostruzione. In altre parole, com’era arrivato l’autore a trasformare una condizione psicologica in una categoria buona per interpretare la storia?
Per comprenderlo conviene rifarsi all’altro libro di Dodds: I Greci e l’irrazionale. Siamo nel 1948, la seconda guerra mondiale è appena terminata, la prima non è affatto lontana. La storia recente dell’Europa mostra, in altre parole, che la cultura europea, apparentemente così razionale, in realtà non lo era affatto. Probabilmente fu questo il motivo che spinse Dodds a dedicare le sue energie alla parte più “scandalosa” della Grecia: la pazzia vista come fenomeno positivo, veicolo di ispirazione poetica o di contatto con la divinità; il sogno, alla cui realtà significativa i Greci sembrano in qualche modo credere; lo sciamanesimo, che Dodds vede all’origine di una nuova dottrina dell’anima, concepita adesso come soggetto autonomo rispetto all’essere umano nel suo complesso. Nelle sue ricerche l’obiettivo di Dodds è quello di sostituire l’immagine dei Greci come popolo dominato dalla ragione – amministratori unici del lógos – con una in cui trova piena cittadinanza anche ciò che al lógos si oppone. Ecco perché, oltre all’antropologia, ne I Greci e l’irrazionale l’orizzonte metodologico include anche la psicoanalisi, nella convinzione che l’inconscio possa esercitare un grosso peso nelle vicende umane: e quindi anche nei fenomeni storici o culturali. A Dodds insomma sta a cuore mettere in luce il lato oscuro, profondo di una cultura o di un popolo, ciò che si agita nella sua psiche: sia che si tratti dei Greci, sia che si tratti degli abitanti dell’impero romano divenuti preda dell’ansia.
La vita intellettuale di una persona, comunque, è una cosa complicata, e quella di Eric R. Dodds sembra esserlo stato anche più di altre. Il fatto è che egli fu personalmente e individualmente un attento osservatore di fenomeni psicologici, specie se oscuri e irrazionali. Il regius professor, infatti, per anni partecipò alle sedute della Society for Psychical Research, di cui divenne anche presidente: una società che si occupava di manifestazioni extrasensoriali, di trasmissione del pensiero e di fenomeni medianici. Un classicista oggi di fama internazionale, il quale fu studente ad Oxford quando Dodds era ormai in pensione, mi ha raccontato una volta questo aneddoto. Dopo aver preso il suo PhD discutendo una tesi sulla religione greca, il giovane studioso aveva inviato a Dodds il libro che aveva tratto dal proprio lavoro. Questo dono gli era valso un invito per il tè a casa dell’illustre maestro. Ci era andato, piuttosto emozionato, aveva suonato il campanello e Dodds era venuto ad aprirgli la porta. «Grazie per il suo libro, giovanotto» gli aveva detto ancora sulla soglia «ma debbo avvertirla che non mi occupo più di religione greca. Mi interessa solo lo spiritismo».

Da Commodo a Diocleziano l’addio all’antico
Il passaggio da un sovrano all’altro segna anche in campo artistico l’abbandono dei canoni classici

Giuseppe M Della Fina

“ La Repubblica”, 22 gennaio 2015

AL centro della mostra L’età dell’angoscia. Da Commodo a Diocleziano ( a cura di Eugenio La Rocca, Claudio Parisi Presicce e Annalisa Lo Monaco) è un periodo di particolare importanza per la storia di Roma: il III secolo d. C. che si aprì con uno sguardo rivolto all’indietro, verso l’azione di grandi imperatori quali Traiano, Adriano e Marco Aurelio e si chiuse guardando in avanti in direzione di un mondo completamente diverso da quello conosciuto sino ad allora. Cento anni che sembrano essere durati molto di più: una consapevolezza non estranea agli stessi contemporanei vissuti tra assetti istituzionali di lunga tradizione che crollavano e altri che tentavano di sorgere, tra una religione millenaria che non dava più risposte e altre – tra le quali il cristianesimo destinato ad affermarsi – che si accingevano a sostituirla. Lungo il percorso espositivo, il racconto, che va dalla morte per avvelenamento di Commodo (192 d. C.) alla fine del regno di Diocleziano (305 d. C.), è affidato a opere d’arte e a prodotti dell’artigianato artistico del tempo. Una produzione sulla quale aveva riflettuto a lungo lo storico dell’arte antica Ranuccio Bianchi Bandinelli che, nel suo bagaglio culturale, aveva una capacità di lettura formale sostanzialmente andata perduta. In uno dei suoi libri più fortunati Roma. La fine dell’arte antica ha osservato: «la caratteristica fondamentale è l’abbandono dei canoni classici e l’accentuazione del modellato in senso coloristico con il fine di raggiungere, in ogni caso, una espressione marcata. Se l’angoscia corrispondeva a un sentimento diffuso, vi è anche, in questo secolo, una manifestazione di volontà di potenza che non rifuggirà da nessun mezzo per affermarsi».
Volontà di potenza, angoscia che potremo andare a ritrovare nella selezione delle opere esposte. Alla nostra ricerca aggiungerei il desiderio di riuscire a riconoscere, nel nuovo, il bagaglio culturale ellenistico che strattonato, incompreso, negato riesce comunque ad affiorare nella posizione di un corpo, nell’atteggiamento di una testa, nella resa dei capelli, o in altri particolari ancora minori. La volontà di comprendere la forza di una tradizione riproposta talvolta contro le indicazioni degli stessi committenti e affidata ai cartoni logori di una bottega artigiana, all’insegnamento di un maestro, all’abilità di mani allenate, ai condizionamenti dettati dagli attrezzi stessi del mestiere. In alcuni casi il gioco si rivela semplice, quasi scoperto con uomini e donne raffigurati quali personaggi della religione e della mitologia pagana, come – modello ricorrente – Ercole: si osservi il busto in marmo dell’imperatore Commodo rinvenuto negli Horti Lamiani a Roma. O i riferimenti frequenti alla figura di Alessandro Magno. In altri esempi può rivelarsi più sottile e controverso. Ci si può soffermare allora di fronte a un pannello in opus sectile con la testa del dio Sol, scelto non a caso per la copertina del volume di Bianchi Bandinelli. Giunge da un mitreo sottostante la chiesa di Santa Prisca a Roma che, a sua volta, si era insediato su un edificio precedente a destinazione residenziale. Vi è stato chi ha voluto identificarlo con la domus dell’imperatore Traiano e, in tal caso, la suggestione sarebbe fortissima. La divinità è raffigurata, utilizzando tarsie di calcare e di marmi dal colore differente, in una posa scomposta, nell’atto di voltarsi verso sinistra, con le ciocche dei capelli disordinati. Il volto presenta grandi occhi rivolti verso l’alto, le sopracciglia ondulate, la fronte corrugata, la bocca dischiusa: riesce a trasmettere la drammatica tensione del tempo in cui venne realizzato, probabilmente tra il 235-250 d. C. Ma in esso si può intravedere l’archetipo scultoreo dell’Alessandro Magno di Lisippo, facendoci intuire la complessità ambigua dei decenni che cambiarono definitivamente Roma e il suo impero.

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Sol Invictus

Cinzia Dal Maso, Il bello dell’angosciaAi Musei Capitolini uno spaccato sull’arte spettacolare prodotta durante la terribile crisi che investì Urbe nel III secolo d. C., Il Sole 24 ore”, 15 febbraio 2015

Cinquanta imperatori in cent’anni, morti quasi tutti per mano assassina: che altro dire per illustrare il Terzo secolo d.C., l’epoca più concitata della storia dell’Impero romano? L’età della crisi. Crisi politica: scomparvero le dinastie imperiali e gli imperatori furono poco più che fantocci in mano agli eserciti. Crisi istituzionale: le numerose riforme corrosero a poco a poco le fondamenta del governo e dell’esercito di Roma. Crisi economica, tra svalutazioni monetarie, guerre esterne e civili, e l’Impero che non garantiva più sicurezza. Crisi sociale, tra comunità disgregate, carestie, epidemie, e disperati migranti in cerca di fortuna.
Fu «L’età dell’angoscia», come recita il titolo della mostra in corso ai Museo Capitolini a Roma, richiamandosi alla famosa opera di Eric Dodds. Un titolo poco invitante, in questi nostri tempi che ricordano per molti aspetti le crisi antiche. E non del tutto calzante, come la mostra spiega molto bene: i curatori Eugenio La Rocca, Annalisa Lo Monaco e Claudio Parisi Presicce aggiungono che fu anche, e soprattutto, l’età dell’ambizione.
Durante le crisi la ricchezza non svanisce ma si distribuisce diversamente, concentrandosi in poche mani. Il Terzo fu il secolo delle grandi ricchezze private e delle proprietà fondiarie che s’ingrandivano a dismisura. Il secolo della decadenza dell’edilizia pubblica a vantaggio del lusso privato: ci sono in mostra argenterie sontuose, oltre agli eleganti affreschi da una dimora da via Nazionale a Roma da troppo tempo chiusi nell’Antiquarium comunale. E i modellini dal Museo della civiltà romana (tuttora chiuso) mostrano una Roma che cercò sempre più di catturare la popolazione con spettacoli e le terme più grandi e belle dell’antichità. Ma anche una città che si riempì di caserme per mantenere un ordine pubblico difficile, e che Aureliano cinse di potenti mura per proteggerla come mai prima. Una città sempre meno “capitale”, in un’Italia sempre meno centrale rispetto all’Impero. Dopo l’editto di Caracalla del 212 d.C. tutti i cittadini dell’Impero godettero degli stessi diritti, e con Diocleziano alla fine del secolo l’Italia non fu che una delle sue molte province. Fu anche il secolo del boom dei cosiddetti “culti orientali”, primo fra tutti il Cristianesimo che subì le persecuzioni più dure. E poi Mitra, Sabazio, Giove Dolicheno, Iside, Cibele: tutti culti molto antichi – si osserva in una ricca sezione della mostra – che nel III secolo hanno sicuramente fornito risposte alle inquietudini e ai pressanti bisogni di salvezza personale. Forse, però, la loro ampia diffusione in occidente è dovuta anche ai molti “migranti” che da un capo all’altro dell’Impero portavano con sé il proprio credo. Chi meglio di noi, oggi, può comprendere ciò?
L’ambizione del secolo, tuttavia, si vede soprattutto nei ritratti: sempre più gente comune amò farsi ritrarre in vesti divine o eroiche, come Ercole, Onfale o Venere. E gli imperatori – personaggi disposti a tutto per acquisire un potere che sapevano essere comunque precario – si astraevano sempre più dagli umani a rappresentare col proprio ritratto quel potere assoluto che di fatto non avevano. I loro tratti diventavano sempre meno realistici e più schematizzati, con gli occhi sporgenti e rivolti verso l’alto a significare il loro essere come un dio, simbolo della Roma eterna.
La mostra si apre con una galleria di ritratti, come oramai consuetudine nella serie di mostre «I giorni di Roma» di cui questo è il quarto appuntamento.
Se altre volte, però, la selva di volti rischiava di parlare poco al visitatore, in questo caso cattura a prima vista.
In un allestimento realmente spettacolare, scorrono i “grandi” del secolo in ordine cronologico, e si è spinti a scoprirne le gesta, a capire quale esercito li ha acclamati e quale ne ha decretato la fine. E nonostante le schematizzazioni e gli occhi tutti uguali, paiono avere più carattere dei loro più duraturi predecessori: allora si viveva d’immagine molto più che di sostanza.
Tra tanti volti “sognanti”, spicca sicuramente l’enorme statua bronzea di Triboniano Gallo dal Metropolitan, ma lo sguardo si posa curioso soprattutto sui raffinati filosofi in trono – il giovane, l’uomo maturo e l’anziano – dalla villa di Dioniso a Dion in Macedonia.
Oppure su alcuni volti di gente comune, benestanti che si facevano ritrarre come filosofi: mostrano, palpabile, tutto il «dolore di vivere» del secolo.

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Giuliano de Risi, La crisi, 1800 anni fa, www. succedeoggi.it
Una grande, bella mostra ripercorre «L’età dell’angoscia» nell’Impero Romano del III Secolo. Una stagione difficile, così lontana eppure così vicina alla nostra contemporaneità

Angoscia: in campo psicologico il termine designa uno stato doloroso di ansietà. Nella tradizione filosofica, la parola assunse un significato definito con Soren Kierkegaard che descrisse lo stato di smarrimento che l’uomo prova quando è posto di fronte all’incertezza e all’ndeterminatezza della sua esistenza. A differenza della paura, indispensabile meccanismo di difesa che scatta in presenza di un determinato pericolo, l’angoscia non si riferisce a nulla di preciso e di determinato ma, secondo il filosofo danese, designa quello stato emotivo dell’esistenza umana che non è una realtà, ma una possibilità, nel senso che l’uomo diventa ciò che è in base alle scelte che compie e alle possibilità che realizza. W.H. Auden, poeta anglo-americano dalla vita travagliata, che si appassionò alle teorie kirkegaardiane, nel ‘47 aveva pubblicato The Age of Anxiety, poema capace di mettere in luce il vuoto dell’esistenza nel periodo della seconda mondiale, caratterizzato dalla conversione o ritorno al Cristianesimo e dalla volontà di aderire a un credo religioso, da un «salto nella fede». Più recentemente, nel 1965, Eric Dodds, che di Auden era stato amico, aveva tracciato un importante affresco della crisi che attanagliò l’Impero romano nel terzo secolo dopo Cristo dal titolo Pagani e cristiani in un’epoca di angoscia.

È stata quella angoscia, che da Kirkegaard arriva fino a Dodds, a fornire l’ispirazione per il titolo di una bellissima mostra a cura di Eugenio La Rocca, Claudio Parisi Presicce e Annalisa Lo Monaco L’Età dell’Angoscia. Da Commodo a Diocleziano (180-305 d.C.), che si è aperta in questi giorni ai Musei Capitolini di Roma e vi rimarrà all’ottobre 2015, importante appuntamento del ciclo “I Giorni di Roma”, progetto quinquennale che alterna esposizioni a carattere prettamente monografico (Ritratti. Le tante facce del potere, Costruire un Impero), a mostre dal taglio diacronico (L’Età della Conquista, L’Età dell’Equilibrio, L’Età dell’Angoscia), dall’epoca repubblicana fino all’epoca tardo-antica.

Ciò che colpisce il visitatore di questa mostra è la sua incredibile attualità. La mostra – spiegano gli organizzatori – racconta la diffusa crisi spirituale e religiosa che in un clima di ansia generalizzata portò a un abbandono delle religioni tradizionali e all’adesione sempre più massiccia al culto di divinità provenienti dall’Oriente: Iside, Cibele, Mithra, Sabazio. Oltre a loro, naturalmente, Cristo. L’ansia derivava da alcuni problemi concreti e materiali: guerre civili, crisi finanziarie ed economiche, carestie, epidemie (come quelle nel corso dei principati di Marco Aurelio e Gallieno) e la perenne pressione dei barbari ai confini. Ad astrologi, indovini e oracoli gli uomini e le donne del tempo ripetevano frequentemente le stesse domande: «mi ridurrò a mendicare?», «avrò il mio salario?», «sarò venduto schiavo?».

In breve la speranza di un futuro più sicuro era talmente diffusa e pressante da alimentare in chiunque quella che gli storici dell’antichità chiamano un’aspettativa di salvezza, legata in primo luogo alla figura dell’imperatore, in teoria garante della giustizia, della sicurezza militare dell’Impero e anche suprema autorità religiosa. Il collasso dei sistemi di riferimento sociali ed economici hanno sempre avuto come effetto principale quello di compromettere la quotidianità della vita delle persone, che in modo progressivo e rapido, si trovano ad affrontare l’angoscia del reale.

Difficile non fare parallelismi che richiamano alle condizioni del presente e alle sue incertezze. Agli alti tassi di disoccupazione che affliggono il mondo del lavoro, al malessere delle giovani generazioni che, con o senza diploma, con o senza laurea non riescono a inserirsi nel mondo produttivo, alle migliaia di piccole aziende costrette a chiudere i battenti impossibilitate a reggere il passo con i costi crescenti e un mercato in costrizione, a quella «società stremata da sei anni di crisi e che ormai si aspetta solo il peggio», come certifica l’ultima analisi del Censis, i cui le famiglie si barricano dietro un risparmio che cresce nonostante il crollo dei redditi, ma che non si traduce né in consumi né in investimenti, un vero e proprio «cash di tutela». Un problema certamente non solo italiano. È di questi giorni la pubblicazione di uno studio raggelante della prestigiosa rivista scientifica americana Lancet che riguarda i suicidi dovuti alla perdita del lavoro. La ricerca è stata effettuata in collaborazione con il sociologo svizzero Carl Nordt, del Dipartimento di Psichiatria dell’Università di Zurigo, e parla di 45 mila morti all’anno, un quinto del totale di quanti si sono tolti la vita, in 63 Paesi, tra il 2000 e il 2011. Magra consolazione per il nostro paese è che da noi la percentuale di 1,7 casi per 100.000 si è mantenuta bassa rispetto ad altri Paesi, alla Lituania per esempio dove è dieci volte più alta.

Il valore di questa mostra che ha coinvolto prestigiosi musei internazionali come il Metropolitan Museum of Art di New York, il Landesmuseum e il Zentralmuseum di Magonza, il Landesmuseum di Treviri,la Glypthoteke il Museo dell’Università di Monaco di Baviera, il Louvre di Parigi e il Museo Archeologico Nazionale, il Museo dell’Acropoli di Atene, il Museo Archeologico di Dion e il Museo Archeologico di Astros e importanti collezioni private, al di la del suo indubitabile aspetto di testimonianza artistica della stagione storica analizzata, sta soprattutto nella sua funzione di riflessione sugli effetti del collasso dei sistemi di riferimento sociali ed economici, che hanno finito per compromettere la quotidianità della vita delle persone, che in modo progressivo e rapido, si trovano ad affrontare l’angoscia del reale. Nella recente storia mondiale due eventi hanno avuto per la prima volta la capacità di modificare e accomunare gli esseri umani su scala globale: il primo conflitto mondiale e il crollo di Wall Street del ’29 anche detta «la grande depressione». In entrambi i casi, per la prima volta l’uomo è stato testimone di fenomeni i cui effetti non erano più esclusivamente legati ai propri confini Nazionali, ma avevano la capacità di compromettere e modificare geografie economiche e sociali su scala mondiale. La percezione che gli sconvolgimenti economici, finanziari e sociali avessero risonanze globali amplificò incredibilmente l’angoscia, compromettendo e modificando il sentire collettivo. Non ultime, le crisi dei bond Argentini del 2001/2002 e dei mutui subprime negli Stati Uniti nel 2006, propagatesi poi in tutto il mondo dell’economia e della finanza, hanno determinato fenomeni imprevedibili in cui piazze, strade e palazzi dello Stato divengono luoghi in cui i popoli si barricano per esorcizzare, arginare e combattere l’angoscia del fallimento di sistemi culturali inadeguati. La presenza della parola crisi diventa permanente.

La mostra L’età dell’Angoscia approfondisce dunque la conoscenza dei grandi cambiamenti che segnarono l’età compresa tra i regni di Commodo (180 – 192 d.C.) e Diocleziano (284 – 305 d.C.): fase definita già dagli storici del tempo come «il passaggio dall’Impero d’oro (quello di Marco Aurelio) a uno di ferro arrugginito». In poco meno di centocinquanta anni infatti l’Impero cambiò la propria fisionomia, arrivando all’instaurazione della Tetrarchia e alla perdita del ruolo di capitale della città di Roma. In questo lasso di tempo le cronache evidenziano alcuni elementi che ancora una volta richiamano, seppur con le dovute differenze, la nostra attualità, quali: l’aumento delle pressione di popoli sui confini dell’impero, le spinte secessioniste (si pensi all’Impero delle Gallie e al Regno di Palmira), i disordini interni (che comportarono riforme strutturali della tradizionale unità militare romana, la legione), la crisi del tradizionale sistema economico, l’inflazione e la conseguente necessità di aggiornare continuamente la moneta, e soprattutto, la grave instabilità politica. Determinante fu la fine della trasmissione del potere su base esclusivamente dinastica e il conseguente potere che andò a concentrarsi nelle mani dell’esercito, capace di imporre gli imperatori e di eliminarli. È un mondo che muta definitivamente la propria struttura sociale, con lo sfaldamento delle istituzioni e il parallelo emergere di nuove forze sociali. Le graduali tappe di queste trasformazioni si riflettono sui modelli figurativi e del linguaggio formale della scultura, che si carica di un nuovo e forte accento patetico.

Duecento opere, imponenti statue in marmo e bronzo, a grandezza naturale, in alcuni casi di misura colossale, busti e ritratti, rilievi in marmo, sarcofagi e urne, mosaici pavimentali e decorazioni pittoriche parietali, e ancora preziosi argenti da mensa, elementi architettonici figurati e altari permettono di apprezzare da vicino il gusto di un’intera epoca, di riflettere sui cambiamenti formali e sui temi figurativi presentati da oggetti che decoravano gli spazi urbani e quelli privati (case e tombe). La prima sezione, I protagonisti, con circa 92 opere, è una ricca presentazione di ritratti, statue e busti degli imperatori regnanti e delle loro mogli, e anche dei cittadini più abbienti dell’epoca; la seconda sezione L’esercito presenta, con oltre 20 opere, l’esercito come uno dei grandi protagonisti della nuova epoca, capace di un enorme potere, perfino di imporre o eliminare imperatori a lui sgraditi; la terza sezione dedicata a La città di Roma, con 14 opere, racconta i grandi cambiamenti che nel III secolo segnano profondamente la città di Roma nella sua identità, dalla costruzione del circuito murario che prenderà il nome di “Mura Aureliane” (e che tuttora segna il paesaggio urbano della città), alla presenza di grandi caserme militari, alla realizzazione di una pianta marmorea della città su grande scala (cosiddetta Forma Urbis Severiana); la quarta sezione La religione, attraverso 52 opere, ci riporta un fenomeno di grande portata ovvero l’arrivo in città di culti orientali, e che si andranno ad affiancare piano piano ai culti tradizionali celebrati fino a quel momento: Iuppiter Dolichenus, Mitra, Helios-Sol, Sabazio, Cibele/Attis, Iside saranno capaci di attrarre una gran massa di fedeli, e di rispondere ad alcune delle esigenze che porteranno in breve all’affermazione straordinaria del Cristianesimo; la quinta sezione Le ricche dimore private e i loro arredi, con circa 30 opere, offre uno sguardo sugli spazi privati, sui gusti e gli arredi domestici di alcune delle più ricche dimore private dell’epoca; la sesta sezione Vivere (e morire) nell’Impero, circa 7 opere, racconta i cittadini romani al di fuori della Capitale: i loro gusti, le loro attività quotidiane, le loro immagini funerarie; la settima sezione I costumi funerari composta di 24 opere: sarcofagi, rilievi e pitture con una ricca presentazione di temi e soggetti, tratti dai repertori dei miti tradizionali e innovati secondo linguaggi e gusti ormai del tutto differenti.

Sintomatico di questo mal di vivere, di questa angoscia del quotidiano è una lettera che nel 251 d.c., il vescovo di Cartagine Cipriano scrive a Demetriano, nemico dei cristiani, da lui accusati di essere responsabili delle guerre, delle pestilenze, delle carestie e di ogni sorta di avversità. «Dalle montagne escavate ed esplorate – scrive Cipriano – non si estrae più con la stessa abbondanza la lastra marmorea; le miniere ormai sono esauste, offrono minor ricchezza d’argento e d’oro e i loro filoni vanno man mano scomparendo […] scompare l’integrità nel foro, la giustizia nei giudizi, la concordia tra gli amici, l’abilità nelle arti, la disciplina nei costumi […]. necessariamente declina ogni cosa che, avvicinandosi ormai alla sua fine, vien meno e precipita». E nella tarda repubblica si assiste a una lotta senza quartiere tra comandanti di eserciti che erano anche influenti magistrati, e le loro fazioni. Secondo l’opinione pubblica corrente, Roma sembrava destinata a crollare miseramente sotto il peso di tante scelleratezze. Si vagheggiava la rovina di Roma, il crollo di città fiorenti e ricche d’oro e d’argento, ma si faceva strada anche la speranza per l’avvio di una nuova età dell’oro, e la nascita di un uomo (un uomo simile a un dio, quasi certamente Ottaviano) che avesse la capacità di riportare ordine e pace sulla terra.

Ma a questa visione nichilista non si associa Eugenio La Rocca uno dei tre curatori della mostra che nel suo saggio L’età dell’Angoscia, forse dell’ambizione pubblicato nel ricco catalogo osserva: «A volte si dimentica che, malgrado tutte le difficoltà, l’Impero seppe resistere bene alle trasformazioni in atto, sia in età tardo-repubblicana sia nel III secolo d.C.; l’esercito si dimostrò uno strumento efficace contro i nemici, contro le troppo frequenti pressioni barbariche lungo i confini, perfino contro, o a favore dei suoi generali, la cui ambizione era quella di ascendere al soglio imperiale, anche a costo della propria vita, come del resto normalmente avvenne (cfr. il saggio di Alexandra Busch sull’esercito a Roma). Non è casuale che Peter Brown abbia considerato il III secolo d.C. più un’età dell’ambizione che non un’età dell’angoscia, all’unisono con quella “manifestazione di volontà di potenza” di cui aveva già parlato Ranuccio Bianchi Bandinelli. Non si è forse tenuto nel dovuto conto chela maggior parte degli imperatori del III secolo d.C., provenienti dai ranghi militari, erano eccellenti comandanti, capaci di far fronte ai pericoli di invasioni. D’altronde, l’Impero ebbe ancora una lunga vita, ben superiore a quanto potesse far presupporre, secondo la lettura tradizionale, un’età dominata dall’angoscia. È vero che la ricchezza si concentrò in poche mani, e che fu ostentata in forme differenti rispetto al II secolo d.C.: in primo luogo con una magnificenza dell’edilizia privata, che gli scavi degli ultimi decenni documentano in modo sempre più preciso (cfr. il saggio di Laura Buccino sull’edilizia privata, specialmente a Roma), con un lusso dei monumenti funerari (basti pensare al sarcofago Ludovisi; cfr. il saggio di Stefano Tortorella sui costumi funerari prevalentemente a Roma), e con uno sfarzo di vita fino allora impensabile. Ma tutto sommato il sistema tenne, e la vita nei principali centri urbani si adeguò rapidamente alle nuove situazioni. Quel che effettivamente avvenne fu un mutamento radicale ma non repentino, nei rapporti dello stato e dei sudditi con la religione tradizionale, e nelle forme di autorappresentazione imperiale».

Sostituiamo la parola religione con politica o istituzioni e, volendo, si potrà uscire da questa mostra con un pensiero cautamente positivo sui tempi che ci aspettano…

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Quirinale, qui il re si fa a pezzi

Tra mitologia e archeologia, il colle che prende il nome da Romolo-Quirino ucciso e smembrato dai senatori è il luogo del potere personale monarchico soppresso e ridistribuito nell’assemblea politica

Silvia Ronchey, “La Stampa”,  29 gennaio 2015

Il Quirinale è al centro dell’attenzione di tutti in questi giorni. Ma non tutti sanno che prima di essere abitato dai Papi e dai Re d’Italia, e infine dai Presidenti della Repubblica, quel colle era un luogo di auspicio e sacrificio, dove il potere veniva ritualmente smembrato e redistribuito.
Secondo Varrone il Quirinale era chiamato così perché ospitava il tempio di Quirino, sotto il cui nome, racconta Dionigi di Alicarnasso, veniva venerato con sacrifici annuali Romolo, «che aveva superato la natura umana» ed era diventato un dio. Il patrizio Giulio Proculo, suo vecchio amico, lo aveva incontrato su quel colle dopo che era stato ucciso e fatto a pezzi dai senatori, raccontano Cicerone e Plutarco. Mentre saliva in cielo, ricoperto di armi scintillanti, gli aveva rivelato la sua natura divina e ordinato di costruire lì il suo tempio.
Dio della guerra terminata
Ovviamente il dio Quirino esisteva già prima di Romolo: era il dio delle curie, l’insieme degli abitanti dei sette colli originari, una federazione di rioni libera e priva di re che prima della fondazione di Romolo si chiamava Septimontium.
Quirino proteggeva i Quiriti, gli abitanti pacifici colti nell’atto di riunirsi nell’assemblea popolare, il comitium: specificamente i cittadini e non i guerrieri. Il dio del Quirinale aveva qualcosa di Giano, il dio primordiale del Gianicolo. Ma era, nella definizione di Andrea Carandini, «un Giano tribale aggiornato in senso curiale-quiritario», era «il dio della collettività». Era anche un dio della guerra, ma in un senso speciale: non il signore della guerra in atto, come Marte, ma di quella terminata, come indica la cadenza invernale della sua festa, i Quirinalia, poiché la guerra seguiva il ciclo della natura e onorare un dio armato nella stagione più breve dell’anno voleva dire onorare la fine della guerra.
I due mirti sacri
«Te o padre Quirino venero e Hora di Quirino» recitava un’antica preghiera tramandata da Ennio, che implorava il dio della guerra (e la moglie Hora) di fare la pace. «Santo Quirino» lo chiamava, invocandolo, Marziale. Le sembianze della sua statua, venerata nel sacellum del Quirinale, sono riprodotte in una moneta romana del 56 a.C., un denario di Caio Memmio: il dio cinto di fronde ha i capelli fluenti sul collo, una lunga barba e grandi occhi sgranati.
Con la creazione del culto di Quirino si compì sul Collis Quirinalis il mistero di fondazione della teologia politica romana. Racconta Plinio nella Storia naturale che il suo tempio, votato e consacrato alla fine del IV a.C., ai tempi della seconda guerra sannitica, da Lucio Papinio Cursore padre e figlio, era ombreggiato da un bosco sacro, un lucus, in cui crescevano due mirti sacri, uno chiamato patrizio, l’altro plebeo, che verdeggiavano a turno, a seconda che l’autorità del senato crescesse oppure si affievolisse e «la sua grandezza decadesse in senilità marcescente».
Racconta Livio che il senato di Roma talvolta si riuniva proprio lì. C’era un rapporto speciale di Quirino e del Quirinale con l’assemblea dei senatori che avevano smembrato il primo re di Roma per evitare che accentrasse su di sé il potere. «L’uccisione di Romolo è la premessa perché gli aristocratici sopportino la monarchia», hanno scritto gli storici.
La maledizione di Cicerone
Quello che ancora oggi chiamiamo «il colle più alto» in realtà non lo è né lo è mai stato: lo hanno confermato le indagini geologiche e le prospezioni al georadar durante la recente campagna di ricerca di Andrea Carandini. Ma aveva nell’antico Septimontium un’indiscussa eminenza simbolica che avrebbe conservato per tutta la storia della città. Che un fulmine colpisse il tempio di Quirino, come riferito da Livio, era il più funesto dei presagi. Narra Cassio Dione che durante la guerra civile romana, nel 49 a.C., mentre lupi e gufi vagavano funesti per la città, un incendio lo incenerì. Fu allora che Cesare, durante la sua ricostruzione, sembrò trasfondersi nella figura bifronte, sacrificale e divina, che vi si venerava: prima in Romolo e poi in Quirino.
Sul Quirinale c’era la casa di Tito Pomponio Attico, l’amico e sponsor di Cicerone, che veniva chiamata la «Tanfiliana» e gli era stata lasciata in eredità da uno zio, più raffinata che lussuosa, come racconta Cornelio Nepote, e con un meraviglioso parco. Nella primavera del 45 Cicerone scrisse ad Attico tre lettere in cui commentava in modo apparentemente sibillino, in realtà crudo e sprezzante, la piega che stava prendendo l’autocelebrazione di Cesare. La sua statua quell’anno, dopo la vittoria di Munda, era stata dedicata nel tempio di Quirino, mentre una serie di cerimonie lo accostano ritualmente a Romolo in quanto rifondatore della città. Cicerone scriveva di augurare a Cesare l’influsso di Quirino, ossia di fare la fine di Romolo, piuttosto che quello della dea Salute, cui era dedicato il tempio contiguo. Un auspicio che prenderanno quasi alla lettera i congiurati alle idi di marzo dell’anno dopo, creando involontariamente il presupposto della monarchia di Augusto.
Un sovrano disinnescato
Cos’è allora Quirino, cos’è il Quirinale? Quirino è Romolo ucciso, è il potere personale monarchico soppresso, smembrato e redistribuito nell’assemblea politica. Sul Quirinale il corpo del re morto si trasforma e moltiplica nella collettività e solo così può essere venerato. Solo un re in effigie può regnare, un re disinnescato e sublimato. Quirino è, in seguito, l’ombra di Cesare ucciso. Solo una volta sacrificato il dittatore può trasformarsi in dio della guerra terminata e proteggere la città-Stato, poi l’impero, dal suo sacello. Ogni sovrano che successivamente presidierà quel «colle più alto», quel culmine sacrale della Roma caput mundi, esposto ai presagi degli uccelli e alle folgori di Giove, sarà a sua volta l’ombra di un re che solo se ucciso può rendere la sua monarchia accettabile.
Nel sottosuolo dei giardini del Quirinale si trovano ancora le fondamenta del tempio colossale, largo quanto il Foro di Cesare. Sul rilievo del frontone Romolo e Remo, inabissati sotto il Giardino all’inglese o altrove nell’ex lucus ora presidiato dai corazzieri, siedono a ricevere gli auspici ex avibus, e gli uccelli danno i loro segni, fortunati per l’uno, sfortunati per l’altro. Mentre le votazioni per il Presidente della Repubblica si preparano, i due gemelli allevati dalla lupa continuano a presiedere, nello spazio più oscuro del colle sacro, agli augùri e ai malauguri, ai voti e agli auspici del comitium che esprime ancora oggi il suo più simbolico rappresentante politico nel simulacro sacrificale di un non-re.

Rilievo Hartwig,
probabilmente dal Tempio della Gente Flavia sul Quirinale.
Museo Nazionale Romano, Roma

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Leggere i papiri: nuove tecniche

Ida Bozzi, Una tecnica per leggere i papiri di Ercolano senza srotolarli né far danni, “Corriere della Sera”, 21 gennaio 2015

Una tecnica di microelettronica per leggere i papiri dell’unica biblioteca sopravvissuta dal mondo classico, quelli carbonizzati quasi due millenni fa a Ercolano nell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. Senza srotolarli. È questa l’impresa riportata da «Nature Communications» e compiuta da un gruppo di ricercatori tutto europeo, coordinato dal fisico italiano Vito Mocella dell’Imm, Istituto per la microelettronica e i microsistemi del Cnr a Napoli (nel team anche ricercatori tedeschi, dell’omologo francese Cnrs, e della struttura per la luce di sincrotrone, l’Ersf di Grenoble). Con la «tomografia a raggi X a contrasto di fase» usata dall’Ersf, il gruppo ha «srotolato» e letto virtualmente alcuni papiri di Ercolano conservati all’Institut de France.
I papiri usati sono parte del tesoro letterario e filosofico ritrovato nella cosiddetta Villa dei Papiri di Ercolano, che appartenne a Lucio Calpurnio Pisone e fu sede della scuola epicurea di Filodemo di Gadara: la nuova tecnica può cambiare il destino dei 450 papiri di Ercolano ancora intatti e non letti, che peraltro potrebbero contenere altre opere e commenti inediti di autori antichi, del filosofo Epicuro in primis. Finora le trascrizioni disintegravano i rotoli, mentre la microelettronica non è invasiva e «legge» distinguendo accuratamente tra il nerofumo dell’inchiostro, che penetra solo in parte il papiro, e l’incenerimento dell’eruzione. 

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A proposito di Petronio

A. Banda, Petronio, su DOPPIOZERO

Baudelaire nel suo saggio sul dandy (che è poi il nono capitolo di Le peintre de la vie moderne) elenca alcuni antenati di questa capitale figura del Moderno, e precisamente Alcibiade, Cesare e Catilina.
Manca Petronio. Ma com’è possibile? Se si pensa poi che Baudelaire definisce il dandy come “uomo ricco, ozioso, scettico” e addirittura come individuo che “non professa altro mestiere che l’eleganza”, la lacuna risulta davvero inspiegabile, dato che la caratterizzazione di Petronio come “arbiter elegantiae”, da Tacito in poi, è passata in proverbio. LEGGI TUTTO…

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La tomba macedone di Anfipoli (14)

Secondo quanto annunciato il 19 gennaio dal Ministero della Cultura greco, i resti ritrovati nella tomba di Anfipoli-Kasta appartengono a cinque diverse persone: una donna di circa 60 anni, due uomini di 35-40 anni, un neonato e un adulto cremato prima della morte dei quattro sepolti nella stessa camera funebre (probabilmente il primo “occupante” della tomba). L’esame del DNA potrà stabilire se vi siano rapporti di parentela tra coloro che – forse in tempi diversi – hanno trovato sepoltura ad Anfipoli. Tra le ipotesi di identificazione, tra alcuni studiosi si fa ancora il nome della madre di Alessandro, Olimpia, fatta uccidere a colpi di pietra nel 317-316 da re Cassandro, all’età di  59 anni. Altri sostengono invece che Olimpia sarebbe sepolta a Pidna, dove morì.
I resti di uno dei due scheletri riportano segni di profonde ferite da arma da taglio; si è pensato dunque all’identificazione con uno  dei figli di Cassandro, morto assassinato.

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Interessanti prospettive possono essere quelle suggerite nello studio dedicato a Olimpia da Elisabeth Carney,  Olympias: Mother of Alexander the Great, London 2006 :

Despite Cassander’s prohibition against it, Olympias was buried somewhere near Pydna, the probable site of her murder. A now lost fragmentary inscription referred to her tomb. One reconstruction of this inscription makes it the memorial for her tomb itself. The inscription attributed her burial to a brave Aeacid. Two other funerary inscriptions indicate that her tomb once stood among or near those of other, less famous Aeacids. In all likelihood, then, her kin buried her secretly, shortly after her death.
The tomb and its testimonial verses doubtless had to wait for the death of the last of Cassander’s sons. If the Aeacids had not already built the tomb, the period when Olympias’ great-nephew Pyrrhus came to control the portion of Macedonia in which Pydna lies would have given them the opportunity. Whether those who buried her were part of the largely female group of philoi who underwent the siege with her, including Aeacides’ daughter Deidameia (Diod. 19.36.5, 49.4; Just. 14.6.3) or other Aeacids already resident in Macedonia is unknown. In any event, some Aeacids continued to live in the Pydna area. All three of the funerary inscriptions, in addition to employing patronymics, also refer more generally to the Aeacid descent of those commemorated, thus demonstrating the pride in lineage that characterized the clan. Of course, ordinarily Aeacids would have been buried in their homeland. These Macedonian Aeacids, apparently lacking access to their ancestral plot, must have used the tomb of Olympias as a focus for their burials. Certainly the text of the most well preserved of these inscriptions suggests this. It reads, “I am of Aeacid descent, Neoptolemus was my father, my name was Alcimachus, one of those [descended] from Olympias . . .” In this patriarchal society, reference to descent from a woman (so famous a woman no patronymic was needed) is striking, particularly since the speaker has already mentioned his Aeacid descent.

PER APPROFONDIRE:

http://greece.greekreporter.com/2015/01/20/new-theories-on-buried-in-amphipolis-tomb/

http://en.protothema.gr/breaking-news-five-skeletons-at-amphipolis-tomb/

http://www.theamphipolistomb.com/

Amfipolis_ded

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Le verità nascoste nelle false leggende

Copertina Con i Romani

Marino Niola, Lo studio di Maurizio Bettini e William Short è un viaggio nella cultura dell’antichità. Alla ricerca di quei miti “più veri del vero”, “La Repubblica”, 11 gennaio 2015

GLI antropologi sono sempre alla ricerca di mondi lontani. In certi casi nello spazio, in altri nel tempo. A migliaia di chilometri o migliaia di anni. In entrambi i casi si tratta di un viaggio. La differenza è che risalire il corso dei secoli è più difficile che attraversare i mari. La posta in gioco, ardua ma esaltante, è la conoscenza antropologica degli antichi. E per riuscire nell’impresa è necessario saper navigare tra le correnti del tempo senza andare fuori rotta. A dirlo è Maurizio Bettini in un bellissimo libro curato insieme a William M. Short e appena apparso per i tipi del Mulino. Titolo, Con i Romani. Un’antropologia della cultura antica (pagg. 439).
Certo che studiare sul campo la civiltà Romana, come Lévi-Strauss ha fatto con i Nambikwara del Mato Grosso, è un’impresa da far tremare le vene e i polsi. Eppure seguendo le piste indicate dai due curatori del volume e dalla loro équipe, composta da fior di classicisti, si capisce che l’obiettivo non è irrealizzabile. Bisogna però evitare di guardare il passato con gli occhi del presente e cercare di guadagnare un punto di vista lontano, proprio come fanno i bravi etnologi quando si sforzano di tradurre le parole dei loro informatori indigeni senza tradirne lo spirito. E nel caso della cultura romana gli “informatori” indigeni hanno lasciato un numero impressionante di testimonianze scritte. Sono i poeti, i giuristi, i letterati, i filosofi e gli storici che hanno rappresentato se stessi utilizzando codici linguistici, retorici e stilistici che già di per sé illuminano aspetti profondi della Roma antica. Perché solo decostruendo le parole e i concetti che si può penetrare il vero senso di usi e costumi, categorie mentali e religiose, passioni e superstizioni, totem e tabù. L’importante è lasciarsi guidare da Virgilio e Cicerone, da Varrone e da Plinio, da Tito Livio e da Ovidio senza sovrapporre le nostre ragioni di moderni alle risposte già contenute in quella che Nietzsche chiamava la parola del passato. Che è come un Graal, in attesa della domanda ben posta. E un perfetto esempio di domanda ben posta lo offre Maurizio Bettini quando interroga il ruolo del mito nella storia politica e sociale dell’Impero. Senza attardarsi su questioni come la verità o la falsità di quelle narrazioni, che i Romani definivano fabulae, l’autore ci fa scoprire, da vero antropologo, la profonda verità sociale di racconti che in sé non sono veri. Come la favola, diffusa nella letteratura e nella storiografia latina, secondo cui a fondare Alba Longa sarebbe stato Iulo, figlio di Enea e antenato di Romolo e Remo. Che si spiega con il desiderio di Augusto di legittimare il suo potere, proprio attraverso l’appartenenza alla gens Iulia e la presunta discendenza da quel mitico progenitore. Assolutamente immaginario e al tempo stesso assolutamente reale. Come dire che non è vero quel che il mito dice, ma è ben vero quel che il mito fa. Cioè produrre quell’effetto speciale che si chiama realtà.

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Fisiognomica antica

Certo non agli uomini tutti fanno bei doni/ i numi: bellezza, senno, parola eloquente./ Uno può essere meschino d’aspetto/ ma un dio di bellezza incorona il suo dire; e tutti lo guardano/ affascinati: egli parla sicuro/ con garbo soave; brilla nelle adunanze,/ e quando gira per la città, come un dio lo contemplano./ Un altro, invece, per la bellezza è simile ai numi,/ ma corona di grazia le sue parole non hanno./ Così tu hai splendente bellezza: nulla di meglio /un dio potrebbe creare: ma sei vuoto di mente.
OMERO, Odissea,  VIII, 167-179

Carlo Carena, Faccia un pensiero“Il Sole 24 ore – Domenica”, 11 gennaio 2015

Dorella Cianci offre con Corpi di parole uno schizzo storico della fisiognomica nella Grecia antica intervallato da amabili soste ed excursus sull’ideale di bellezza (e di bruttezza) e sulle osservazioni del corpo umano in quella cultura filosofica e letteraria che al corpo umano ha dedicato tanta attenzione nella pratica di vita e in quella dell’arte. Il sottotitolo del volume è appropriatamente Descrizione e fisiognomica nella cultura greca. Nell’arte greca non c’è quasi altro che il corpo umano, e nella filosofia esso ha soffermato la meditazione, quando non ha esercitato anche la prassi dei pensatori più geniali e più eminenti. Ha creato addirittura una branca del sapere, la fisiognomica, collegando l’aspetto esteriore degli esseri, non solo dell’uomo, alle attitudini interiori. Già Aristotele argomentava che se un lupo è istintivamente feroce e una volpe astuta, probabilmente certi uomini che rassomigliano loro fisicamente nei movimenti, negli atteggiamenti, nei tratti del volto, nel colore della pelle, ne hanno anche le caratteristiche psichiche.
Per conto suo, era egli stesso un tipo da analizzare in base alle sue stesse dottrine, se dobbiamo dare retta al suo rivale Platone. Il quale, a detta di Eliano nella Storia varia, non soffriva il collega perché sempre vestito in modo ricercato, pavoneggiandosi con una grande quantità di anelli, loquace e inopportuno nel parlare, e «con un’espressione beffarda dipinta sul volto».
Assieme ai filosofi del V secolo, l’arte dell’analisi e del significato delle fisionomie è approfondita e utilizzata anche dai medici come strumento d’indagine sulle malattie e sui malati. Nel trattato ippocratico sui pronostici si insegna che nelle malattie acute il volto degli infermi si presenta col naso affilato, gli occhi cavi, le tempie infossate, le orecchie fredde, la pelle del viso rigida e secca, il colore giallastro o nero. L’occhio clinico è il compagno più sicuro del medico, come di tutti noi, perché, dice ancora Platone, quella della vista è «la più acuta delle sensazioni che ci procura il corpo». Di lì, dirà un grande poeta, Euripide, nell’Ippolito, Eros istilla la più formidabile fra tutte le passioni.
Ed ecco l’amabile bellezza. Sua regola fondamentale è l’armonia, presentata e analizzata molto bene e con coerente eleganza da Dorella Cianci in alcuni paragrafi dell’Introduzione. Il termine che la esprime, kosmos, si trova ripetutamente già nel loro primo genio poetico, Omero: kosmos è una forma ben fatta ma anche un ornamento, un gioiello. Cosmico è per Eraclito l’universo, e cosmici sono i pianeti per Pitagora. Un’indagine sistematica dei testi ha portato la Cianci a fornirci questo interessante profilo: che cioè l’interesse dei Greci fra gli elementi costitutivi della bellezza si rivolgeva principalmente alla statura, alla voce, e anche più ai capelli, al naso, alla barba, agli occhi e al seno. Per le gambe, sono connotate soprattutto le cosce, le caviglie e i piedi. I capelli hanno da essere lunghi, soprattutto per le donne, «che talvolta si servono anche di capelli altrui per avere un bell’aspetto» (Artemidoro, II secolo d. C.); e quanto agli uomini, i capelli lunghi e biondi sottolineano il valore dei guerrieri, e per questo a Sparta erano imposti ai giovani. Caratterizza invece i filosofi il fatto che «per risparmiare, nessuno di loro va mai dal barbiere né ai bagni» (Aristofane nelle Nuvole). Ma Aristotele li portava corti.
Quanto all’opposto, alla bruttezza, i Greci possedevano un campionario umano nella loro stessa letteratura e nella mitologia. Efesto, Tersite, Socrate erano sgraziati nel volto e nel corpo da far ridere. Esopo era repellente. Persino Pericle aveva un cranio così voluminoso che fu sempre ritratto con l’elmo in testa. E le donne potevano dirsi brutte se di volto deforme, collo corto e posteriore poco pronunciato.
L’analisi si approfondisce ancora verso la fine del volume, componendo dei ritratti ideali e significanti, legando ancora più strettamente l’estetica alla fisiognomica. Per cui la chioma scarmigliata si addice ed esprime lutti e dolori, mentre le chiome ricadenti suscitano fremiti: ammirabili, dice Ovidio nelle Metamorfosi, quei capelli agitati sulle spalle eburnee e cadenti senza cura sul collo. Gli occhi non siano piccoli, meschini e scimmieschi; né troppo grandi, lenti e bovini. Il naso non grosso in punta (irascibile), né ricurvo come nei corvi gracchianti, né aguzzo come nei cani, ma smussato perché così è quello dei leoni.
Forse la più veramente bella descrizione della bellezza armonica e appropriata alla sorte umana, che non quella ideale e degli dèi olimpici, si trova in due dei ritratti delineati in una sua operetta omerica da Isacco Porfirogenito, principe e scrittore bizantino del XII secolo, oggetto di particolare studio da parte della Cianci. Ecuba regina di Troia è una vecchia dal colorito di miele, occhi belli e bel naso, tranquilla, e pure ha scavalcato tutte le donne per sventura. Andromaca sua nuora, di media altezza, è magra, con bel naso e begli occhi, belle sopracciglia, capelli ricci e biondi lunghi all’indietro, rapida di mente e con le guance sorridenti, e pure è moglie di Ettore e madre di Astianatte.
Dorella Cianci, Corpi di parole, prefazione di Giuseppe Tognon, Edizioni Ets, Pisa, 2015

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10-11 gennaio 49 a.C.: Alea iacta est

Gian Enrico Manzoni, Quando Cesare varcò il Rubicone, “Giornale di Brescia”, 8 e 9 gennaio 2005

Nella notte tra il 10 e l’11 gennaio del 49 a.C. Cesare attraversava il Rubicone, un fiumiciattolo dell’attuale Romagna, dando così avvio alla guerra civile che l’avrebbe contrapposto al Senato e a Pompeo. Sono trascorsi dunque 2055 anni da quella notte, quando cinque sole coorti, cioè un nucleo ridotto delle legioni di cui Cesare disponeva, entravano illegalmente nel pomerium, cioè all’interno dello Stato romano vero e proprio, dove non era consentito portare truppe in armi. Il celebre grido del comandante che dava inizio all’operazione, Alea iacta est, il dado è tratto, significava l’avvio di un processo che poneva Cesare fuori dalla legalità e lo portava allo scontro con le istituzioni, sulle quali solo con la forza delle armi si sarebbe imposto. In realtà, scrive lo storico Luciano Canfora ne Il dittatore democratico, una monografia dedicata a Cesare, la frase probabilmente fu Alea iacta esto, cioè con l’imperativo futuro con valore esortativo: Il dado sia tratto, lanciamo il dado! Ci conferma questa dizione il confronto col racconto greco di quegli avvenimenti, così come lo possiamo leggere in Plutarco, nella Vita di Cesare e in quella di Pompeo. Nella forma greca quelle parole costituivano una frase proverbiale, che possiamo trovare anche nei frammenti delle commedie di Menandro: la si pronunciava, quando ci si metteva in gioco per un’azione rischiosa, rompendo gli indugi precedenti.
Proviamo ora a spiegare gli antefatti di quella notte, per capire il significato politico e giuridico del gesto compiuto. Cesare avrebbe dovuto licenziare l’esercito di cui disponeva, e che era reduce dalla campagna di Gallia, perché era vietato entrare con l’esercito all’interno dell’Italia: i confini settentrionali erano segnati dal Rubicone verso l’Adriatico e dall’Arno verso il Tirreno. A nord dell’Italia vera e propria di allora c’erano le province, come la Gallia Cisalpina, dove noi ora viviamo: cioè zone al di fuori del pomerium. Il fatto è che Cesare non aveva alcuna intenzione di congedare le sue truppe, delle quali aveva bisogno come base del potere personale che stava costituendo: però aveva anche bisogno di presentarsi candidato alla carica di console per l’anno successivo, cioè per il 48. E per questo occorreva recarsi personalmente a Roma, in base a una legge varata nel 63 da Cicerone console; legge che poi era stata ribadita da una legge di Pompeo del 51, che comportava la necessità della presenza dei candidati a Roma, nel periodo preelettorale.  Ma Cesare nell’anno precedente, cioè nel 52 a.C., aveva ottenuto un successo giuridico di segno opposto: era accaduto infatti che i tribuni della plebe fossero riusciti ad approvare un plebiscito che autorizzava nominalmente proprio Cesare a presentare la sua candidatura anche se assente.  Il vincitore della guerra gallica aveva fatto bene i suoi conti, con una strategia che muoveva a partire dall’anno 55, quando, ancora impegnato oltre le Alpi, si era fatto prorogare il potere da proconsole per altri cinque anni, a partire dal successivo. L’aveva fatto solo per allungare il periodo di detenzione di una carica, o per garantirsi politicamente da qualche insidia? La risposta degli storici è priva di dubbi: il potere proconsolare serviva a renderlo inattaccabile in tribunale, dove i suoi avversari da anni cercavano di portarlo per le irregolarità commesse durante il primo consolato, quello del 59. In quell’anno, varie e ripetute erano state le violazioni del diritto compiute da Cesare, ormai forte del potere di cui disponeva e delle ricchezze familiari e personali accumulate. Perciò Catone e altri senatori avversari aspettavano il giorno in cui fosse scaduto di carica per citarlo in giudizio.  Cesare era coperto dall’immunità, come abbiamo visto, valevole fino all’inizio dell’anno 49;  contemporaneamente egli aspettava che trascorressero i dieci anni previsti dalla legge,  prima di ripresentarsi candidato al consolato; e, visto che era stato console nel 59, i dieci anni scadevano appunto col 49. Dunque egli poteva candidarsi a console per l’anno 48, ma la sua presenza a Roma da privato cittadino l’avrebbe esposto al rischio di essere processato proprio durante quell’anno 49. Mantenere le truppe, evidentemente, lo salvaguardava dal rischio di un arresto; perciò Cesare decise di porsi fuori della legalità: copriva, col potere che gli derivava dalle cariche, le illegalità precedenti.

                                    Jean Fouquet, Cesare attraversa il Rubicone, XV secolo

II – Uno squillo di tromba al Rubicone
Abbiamo visto che la decisione di Cesare  di entrare con le truppe in armi nei confini dell’antica Italia equivaleva a una clamorosa uscita dalla legalità repubblicana. Tuttavia il futuro dittatore tentò nell’inverno tra il 50 e il 49 di non giungere a questo passo: la condizione era di trovare adeguata risposta dall’altra parte, ove però Pompeo non rappresentava il più ostinato dei suoi avversari. I nemici veri di Cesare, in un Senato che in maggioranza gli era ostile, si trovavano in Catone, Cecilio Metello Scipione, nuovo suocero di Pompeo dopo la morte di Giulia figlia di Cesare,  e nei nuovi consoli eletti per il 49, cioè Claudio Marcello e Lentulo Crure. All’inizio dell’anno 49 Cesare scrisse da Ravenna (a nord del Rubicone, quindi fuori dal pomerium), ove si trovava in attesa degli eventi, una lettera al Senato di Roma, nella quale chiedeva che gli fosse mantenuto il privilegio di presentarsi candidato al consolato, anche se assente da Roma. Sappiamo che si trattava di un’eccezione, accordatagli grazie agli amici tribuni della plebe, perché la legge vietava le candidature in absentia. Se il Senato avesse accettato la sua proposta, probabilmente la guerra civile non sarebbe scoppiata. Invece, in una drammatica seduta del 7 gennaio,  la lettera di Cesare non venne neppure tenuta in considerazione. Cicerone era da poco rientrato a Roma dalla Cilicia e non ebbe parte di rilievo nella seduta; ebbero il sopravvento invece i nemici giurati di Cesare, i quali impedirono ai tribuni come Antonio e Cassio Longino, amici di Cesare, di intercedere in suo favore. Alla fine della giornata del 7 gennaio il Senato emanò un decreto di emergenza, quello che si chiamava unsenatus consultum ultimum: una decisione, cioè, che affidava ai consoli ogni potere straordinario per combattere un nemico pubblico, quale ormai Cesare appariva agli occhi del Senato. La sera di quel 7 gennaio i tribuni Antonio e Longino, sentendosi in pericolo per la loro incolumità personale, abbandonarono di nascosto Roma e risalirono la Penisola, per congiungersi con Cesare a Ravenna. Ma il vincitore della Gallia non stava attendendo inerte gli avvenimenti. Prima ancora di incontrare i tribuni suoi fedeli, Cesare aveva saputo della seduta del Senato e della fuga dei tribuni da Roma. Decise così di interpretare l’episodio come una loro cacciata: cioè come un atto di violenza politica nei confronti di uomini delle istituzioni, insigniti di una carica pubblica. Perciò aveva deciso di muoversi, sfruttando le minacce ai tribuni come pretesto per dimostrare che l’illegalità non era dalla sua, ma dall’altra parte: la violenza politica contro Antonio e Longino era solo l’ultimo atto di un più generale accanimento nei suoi confronti, che conosceva manifestazioni diverse. Quando calò il buio della sera tra il 10 e l’11 gennaio, Cesare si avvicinò con un carro alla linea del Rubicone, dove cinque coorti lo attendevano per il passaggio. Le altre legioni rimanevano per il momento ferme, in attesa degli ordini. Ma sbagliò strada nell’avvicinamento al fiume: errò tutta la notte, finché faticosamente ritrovò le truppe appostate; ma era dubbioso, insieme a quelle,  sul da farsi. Un episodio imprevisto avrebbe però sbloccato gli eventi. Mentre regnava l’incertezza generale, si fece avanti un uomo di statura imponente, un gigantesco Gallo che prestava servizio nell’esercito. Plutarco racconta che quello si sedette accanto ai capi perplessi e incominciò a suonare il flauto, mentre si radunavano intorno persone ad ascoltarlo. Tra questi c’erano anche alcuni trombettieri, a uno dei quali il Gallo improvvisamente strappò la tromba e, suonando a pieni polmoni, diede il segnale di battaglia: contemporaneamente si lanciò di corsa verso l’altra riva del Rubicone, incitando gli altri a seguirlo. Fu a questo punto che Cesare si risolse dopo i tentennamenti precedenti e, sfruttando il momento di eccitazione collettiva, pronunciò la famosa frase  Alea iacta esto, con la quale dava il via al passaggio e, insieme, alla guerra civile.

SVETONI TRANQVILII, VITA DIVI IVLI

[31] Cum ergo sublatam tribunorum intercessionem ipsosque urbe cessisse nuntiatum esset, praemissis confestim clam cohortibus, ne qua suspicio moueretur, et spectaculo publico per dissimulationem interfuit et formam, qua ludum gladiatorium erat aedificaturus, considerauit et ex consuetudine conuiuio se frequenti dedit.  Dein post solis occasum mulis e proximo pistrino ad uehiculum iunctis occultissimum iter modico comitatu ingressus est; et cum luminibus extinctis decessisset uia, diu errabundus tandem ad lucem duce reperto per angustissimos tramites pedibus euasit.  Consecutusque cohortis ad Rubiconem flumen, qui prouinciae eius finis erat,  paulum constitit, ac reputans quantum moliretur, conuersus ad proximos: ‘Etiam nunc,’ inquit, ‘regredi possumus; quod si ponticulum transierimus, omnia armis agenda erunt.’
[32] Cunctanti ostentum tale factum est.  Quidam eximia magnitudine et forma in proximo sedens repente apparuit harundine canens; ad quem audiendum cum praeter pastores plurimi etiam ex stationibus milites concurrissent interque eos et aeneatores, rapta ab uno tuba prosiliuit ad flumen et ingenti spiritu classicum exorsus pertendit ad alteram ripam. Tunc Caesar: ‘Eatur,’ inquit, ‘quo deorum ostenta et inimicorum iniquitas vocat.
[33] Iacta alea est,’ inquit. atque ita traiecto exercitu, adhibitis tribunis plebis, qui pulsi superuenerant, pro contione fidem militum flens ac ueste a pectore discissa inuocauit. existimatur etiam equestres census pollicitus singulis; quod accidit opinione falsa. nam cum in adloquendo adhortandoque saepius digitum laeuae manus ostentans adfirmaret se ad satis faciendum omnibus, per quos dignitatem suam defensurus esset, anulum quoque aequo animo detracturum sibi, extrema contio, cui facilius erat uidere contionantem quam audire, pro dicto accepit, quod uisu suspicabatur; promissumque ius anulorum cum milibus quadringenis fama distulit.

PLUTARCO, Vita di Cesare (Vite parallele, Alessandro e Cesare, Rizzoli, Milano 1987), capitolo 32, 4-9:

Quando giunse al fiume che segna il confine tra la Cisalpina e il resto d’Italia (si tratta  del Rubicone) e gli venne fatto di riflettere, dato che era più vicino al pericolo ed era  turbato dalla grandezza dell’impresa che stava per compiere, moderò la corsa (si trovava  su un carro preso a nolo); poi si fermò, e in silenzio, a lungo, tra sé e sé meditò il pro e il  contro. In quel momento mutò spessissimo parere ed esaminò molti problemi con gli  amici presenti, tra i quali era anche Asinio Pollione: rifletteva sull’entità dei mali cui  avrebbe dato origine per tutti gli uomini quel passaggio, e quanta fama ne avrebbe  lasciato ai posteri. Alla fine, con impulso, come se muovendo dal ragionamento si lanciasse verso il futuro, pronunciando questo che è un detto comune a chi si accinge a  un’impresa difficile e audace: «si getti il dado», si accinse ad attraversare il fiume e di lì in seguito, procedendo con grande velocità, prima di giorno si buttò su Rimini e la  conquistò.

Svetonio e Plutarco a confronto. CLICCA QUI.

Lucano,  Pharsalia, I, v.185-194

Ut ventum est parvi Rubiconis ad undas,
ingens visa duci patriae trepidantis imago
clara per obscuram voltu maestissima noctem
turrigero canos effundens vertice crines
caesarie lacera nudisque adstare lacertis
et gemitu permixta loqui: «Quo tenditis ultra?
Quo fertis mea signa, viri? Si iure venitis,
si cives, huc usque licet.» Tum perculit horror
membra ducis, riguere comae gressumque coercens
languor in extrema tenuit vestigia ripa.

The Rubicon has been one of the world’s most famous rivers ever since Julius Caesar crossed it with his army in 49 BC and triggered a Roman civil war. But despite its prominent place in history, no one is actually sure where the river is, with three waterways each suggested as a possible candidate for the ancient Rubicon. Now the long-running historical battle is due to be settled for good, as three local historians present their cases at a mock trial in front of a judge. It is not disputed that the river runs from the Apennine mountains down to the Adriatic sea in the Emilia-Romagna region in north-east Italy.

‘Crossing the Rubicon’ has been a metaphor for an important and irreversible decision ever since Caesar took his army over the river from Gaul, starting a war against Pompey which would leave him victorious and pave the way for the Roman Empire. In recent years the phrase has been used by figures as diverse as David Cameron, who deployed it last year to warn of the dangers of Press regulation, and Mick Jagger, who sang it in the Rolling Stones’ 2005 single Streets of Love.

However, the river itself lost its political importance in the reign of Emperor Augustus, who abolished its status as Italy’s northern frontier, and for centuries it faded into relative obscurity. Due to frequent flooding of the plains around the Rubicon, the river frequently changed its course and it became unclear which of three waterways it was.

 Is this it? This bridge over the River Fiumicino is believed by some to have been the crossing used by Caesar

Is this it? This bridge over the River Fiumicino is believed by some to have been the crossing used by Caesar.  Renaissance historians considered the claims of the Pisciatello, Fiumicino and Uso rivers, and an ancient map called the Tabula Peutingeriana convinced many that the Fiumicino was the true Rubicon. 

In 1933, fascist dictator Benito Mussolini, who was intent on harnessing the country’s Roman legacy to bolster his own power, made this judgment official, issuing a decree which changed the name of the Fiumicino to the Rubicone.  But on Saturday the debate start up again in the town of San Mauro Pascoli as three historians each press the case for their own local river, according to the Guardian. Journalist and former MP Giancarlo Mazzuca will insist that the question has already been answered, and that historians have long regarded the Fiumicino as the right answer. ‘This history is often overlooked due to the fact that the person who gave this order was Benito Mussolini,’ he wrote in a preview for the event.

 
Mystery: There are three main candidates for the location of the historical Rubicon
 

However, teacher Paolo Turroni will claim that the Pisciatello is the real Rubicon, pointing out that evidence from official maps and the works of the author Giovanni Boccaccio point towards it. ‘There was no definitive proof,’ he said. ‘The debate, which had been going on for centuries, was still open. ‘In reality, Mussolini had political reasons for doing what he did.’ The case for the Uso will be presented by archaeologist Cristina Ravara Montebelli, who plans to rely on the presence of Roman ruins in the area as proof. The debate will be judge by Gianfranco Miro Gori, president of the local business association, who insists that the fiery arguments are all good-natured and have never undermined relations between neighbours.

You’re awful bright, you’re awful smart 
I must admit you broke my heart 
The awful truth is really sad 
I must admit I was awful bad 

While lovers laugh and music plays 
I stumble by and I hide my pain 
The lights are lit, the moon is gone 
I think I’ve crossed the Rubicon 

I walk the streets of love and they’re full of tears 
And I walk the streets of love and they’re full of fears […]

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L’impronta di Augusto su Roma

Eva Cantarella, “Corriere della Sera”, 9 gennaio 2015

«Se lo spettacolo vi è piaciuto, applaudite» disse Augusto prima di morire, dopo aver chiesto uno specchio ed essersi pettinato. Così quantomeno scrive Svetonio, e poco importa che l’aneddoto sia vero o falso. A far pensare alla vita di Augusto come a uno spettacolo contribuiscono, in effetti, non pochi elementi: il carattere dell’uomo, come pochi altri consapevole dell’importanza della sua immagine pubblica e privata, la sua genialità nel conquistare e mantenere il consenso e nel legare la gens Iulia, alla quale apparteneva, al mito delle origini troiane di Roma (e quindi a una sua remota ascendenza divina).
Fu veramente uno spettacolo, la vita di Augusto, sotto il cui governo Roma si trasformò da Repubblica in Principato, mentre la città, secondo il suo progetto, assumeva anche urbanisticamente un nuovo aspetto. Ed ecco, oggi, un libro di uno dei maggiori archeologi italiani, e non solo, Andrea Carandini, accompagnarci in una visita a quella Roma. Il libro si intitola La Roma di Augusto in 100 monumenti (Utet) e anche se sarebbe riduttivo definirlo tale è, in primo luogo, una straordinaria guida ai monumenti riconducibili al periodo del potere augusteo (44 a.C. – 14 d.C.).
Individuati tra gli strati di rovine che i secoli hanno accumulato e sovrapposto, questi monumenti guidano il lettore in una visita che non è solo archeologica. Accompagnata da un apparato di testi (affidati, per ciascuno degli scavi, a uno dei nove archeologi che hanno collaborato con Carandini e illustrati da un eccezionale apparato iconografico), questa straordinaria visita contestualizza i monumenti, restituendone non solo l’immagine, ma anche la funzione e la storia. Classificati per tipologie (quelli dedicati a infrastrutture e servizi, quelli amministrativi, i luoghi di culto, gli edifici per la produzione e il commercio, quelli per le attività culturali, i monumenti onorari, le abitazioni, le aree funerarie) i documenti, nel loro insieme, prospettano un quadro generale della cultura dell’epoca, sotto tutti i suoi diversi aspetti. Qualche esempio, partendo dal diritto pubblico: la descrizione del luogo destinato alle votazioni assembleari (chiamato Saepta Iulia, dopo la sua ristrutturazione, portata a termine da Augusto) offre informazioni fondamentali sulle trasformazioni del sistema politico romano: tra l’altro, quelle che riguardano le basi sulle quali veniva concesso il diritto di voto e su come si svolgevano le operazioni elettorali.
Passando ad altro tipo di monumento: la casa delle Vestali. Sorteggiate tra le famiglie più in vista quando avevano un’età tra i 6 e i 10 anni, le sacerdotesse di Vesta erano tenute a un voto di castità che le vincolava per 30 anni, e punite con una morte orribile (la vivisepoltura) se venivano meno al voto. Oltre che ad avvicinarci alla religione dei nostri antenati, la visita alla loro casa contribuisce alla conoscenza di alcuni importanti aspetti della condizione femminile.
E ancora: il tempio dedicato a Marte Ultore (vendicatore), costruito da Augusto per adempiere un voto fatto poche ore prima della battaglia di Filippi, in cui sconfisse i cesaricidi, offre molti spunti per riflettere su una caratteristica importante della cultura e del diritto romano, vale a dire la persistenza della concezione arcaica della vendetta intesa come imprescindibile dovere sociale.
Inutile insistere sull’interesse e l’importanza di questo libro, sul quale tante altre cose si vorrebbero dire. Non potendolo fare, non resta che lasciare il piacere di scoprirle a chi lo leggerà.

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