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7 gennaio 2015
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Domenico Comparetti. La disgrazia edipica
Vidi la madre di Edipo, la bella Epicasta, che una grande colpa commise senza saperlo, sposò suo figlio: e il figlio la sposò dopo avere ucciso suo padre. Ben presto gli dei agli uomini lo resero noto. Egli tuttavia, nonostante il dolore, regnò sui Cadmei nella bella città di Tebe, per funesto volere dei numi; lei invece, in preda al dolore, alle travi dell’alto soffitto appese un laccio mortale e nelle dimore di Ade discese, guardiano inflessibile. E a lui lasciò tutte le pene che infliggono le Erinni di una madre.
Odissea, XI, vv. 271-280, trad. di M.G. Ciani.
Armando Torno, “Il Sole 24 ore – Domenica”, 4 gennaio 2015
L’oracolo predisse che Edipo avrebbe ucciso suo padre e sposato sua madre: per tale motivo fu abbandonato alla nascita (e poi salvato e adottato da Polibo, re di Corinto). Quel complesso che porta il suo nome, individuato da Freud nel 1910, è l’insieme degli affetti che il bambino prova verso i genitori. Domenico Comparetti (1835-1927), celebre per l’opera Virgilio nel Medioevo (reperibile soltanto in antiquariato), professore di letteratura greca a Pisa tra il 1859 e il 1872, tenne un corso sulla leggendaria figura: ora tali pagine rivedono la luce con il titolo Edipo e la mitologia comparata.
Questo studioso, straordinario conoscitore di lingue, analizzò sino alle possibili etimologie sanscrite il mito e si chiese se il fatale appuntamento con la Sfinge (in Egitto rappresentata con il corpo maschile e la testa leonina) fosse credibile, se Edipo rispose all’enigma che essa gli pose, se la stessa idea di Sfinge preesistesse o no al mito, se l’episodio del loro incontro è da considerarsi aggiunto o ne sostituì un altro. Codesto mostro, che per i Greci nacque da un’unione tra Echidna e suo figlio Ortro, divorava i passanti presso Tebe se i malcapitati non riuscivano a risolvere l’enigma che poneva. Comparetti ricorda che nell‘Odissea – nell’XI libro si trovano riassunte in pochi versi le disgraziate avventure di Edipo – non si fa parola della creatura mostruosa; allo stesso modo sottolinea come l’autorevole Esiodo, che li cita entrambi, nella Teogonia offra un catalogo di esseri dalle caratteristiche lontane dall’ordine naturale, dei quali è detto anche chi li vinse, «ma della Sfinge ciò si tace».
Edipo, etimologicamente «dai piedi gonfi», divenne immortale dopo le citazioni di Omero e con le tragedie di Sofocle e Euripide; Comparetti, riferendosi al libro di Michel Bréal, Le Mythe de Oedipe, pubblicato a Parigi nel 1863, ricorda che può essere collegato ai miti solari. Ma è un semplice dettaglio. Le sue conclusioni sul significato di Edipo sono utili al mondo odierno più che ai filologi: «Una fatale combinazione può, indipendentemente dalla volontà, spingere a commettere delitti gravissimi. Può un uomo, senza volerlo e senza saperlo, essere delittuoso, e andare quindi soggetto a tutte le conseguenze del delitto» (pag. 46). Di più. Per lo studioso il racconto esprime il concetto con un caso di ordine puramente umano, al quale la divinità non ha parte, se non come tutrice delle leggi morali. E afferma: «Male morale e danno, male che si fa e male che si soffre, si identificano per il greco e, identificati, si esprimono con un’unica parola: Ate, disgrazia». Inseparabile compagna dell’umanità, spiega meglio di altri termini gli effetti delle nostre azioni, delle quali non sappiamo prevedere le conseguenze più o meno remote. Già, la dea Ate: Omero nell’Iliade (XIX, 91-94) la descrive: non tocca la terra e cammina leggera sui mortali e sugli dei inducendoli in errore. Fa loro commettere il peccato di hybris, ovvero tracotanza generata dall’assenza di misura.
Domenico Comparetti, Edipo e la mitologia comparata, Edizioni Pizeta, San Donato Milanese, pagg. 82
Su Edipo vedi anche https://www.latinorum.eu.org/teatro/seneca-tragedie/edipo/
“La Grecia in testa”
RaiARTE: le lezioni di Salvatore Settis sulla cultura classica.
PRIMA LEZIONE: Tracce del classico intorno a noi.
SECONDA LEZIONE: Riscoperta dell’arte greca.
TERZA LEZIONE: Arte classica, libertà, rivoluzioni: la lezione di Winckelmann.
QUARTA LEZIONE: Dalle rovine al museo: l’arte classica risorge nel Rinascimento.
QUINTA LEZIONE: Perché i Greci hanno inventato l’idea di “classico”.
SESTA LEZIONE: L’Europa e le altre culture.
Alma Venus: mito e media.
Lorenzo Bonoldi, Immagini tanto belle, da far cader le braccia. Un rapido excursus sull’uso della Venere di Milo in pubblicità, Engramma, dicembre 2014
Stanley Kunitz, “Tra gli dèi”
Among the Gods
Within the grated dungeon of the eye
The old gods, shaggy with gray lichen, sit
Like fragments of the antique masonry
Of heaven, a patient thunder in their stare.
Huge blocks of language, all my quarried love,
They justify, and not in random poems,
But shapes of things interior to Time,
Hewn out of chaos when the Pure was plain.
Sister, my bride, who were both cloud and bird
When Zeus came down and in a shower of sexual gold,
Listen! we make a world! I hear the sound
Of Matter pouring through eternal forms.
Stanley Kunitz [1905-2006], Selected Poems, 1958
Pubblicato in Mito e poesia contemporanea, Mitologia
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Achille alla prima guerra mondiale (2)
Emilio Lussu, Un anno sull’Altipiano, Torino, Einaudi, 1945
Cap. XI
Il battaglione, a gruppi, aveva raggiunto le posizioni di partenza, di notte. Avevamo perduto tutti gli ufficiali.
Solamente Santini ed io rientrammo incolumi. Anche il tenente Ottolenghi era vivo: egli aveva ricevuto l’ordine di rimanere indietro con le mitragliatrici e non era uscito all’assalto. Le compagnie erano state dimezzate. Impiegammo tutta la notte per ritirare i feriti e i morti, e quando, finito l’appello dei presenti, Santini ed io ci scambiammo qualche parola, facemmo entrambi uno sforzo per non buttarci uno nelle braccia dell’altro.
La guerra di posizione ricominciava. I sogni di manovra e di vittoria fulminea svanivano. Bisognava ricominciare daccapo, come prima, sul Carso.
Seguirono alcuni giorni di calma. I reparti si dovevano ricostituire. Ogni giorno arrivavano complementi di ufficiali e di soldati. Pian piano, si dimenticavano i morti e ci si affratellava, fra veterani e nuovi arrivati. Di fronte alle trincee nemiche, a distanze varie, fra i cinquanta e i trecento metri, seguendo l’andamento del terreno e la copertura del bosco, anche noi costruimmo le nostre trincee. Erano le nostre case, ché gli austriaci, ormai sulla difensiva, non pensavano certo ad attaccarci.
Ma dovevamo essere prudenti ad ogni istante. Avevamo, di fronte, reparti di tiratori scelti che non sbagliavano un colpo. Tiravano raramente, ma sempre alla testa, e con pallottole esplosive.
Anche quei giorni di calma passarono. Affrettatamente, il battaglione si era ricomposto. Un’altra azione si annunziava prossima. Arrivavano, ogni giorno, munizioni e tubi di gelatina. Erano i grandi tubi di gelatina del Carso, lunghi due metri, costruiti per aprire dei varchi fra i reticolati. E arrivavano pinze tagliafili. Le pinze e i tubi non ci erano serviti mai a niente, ma arrivavano egualmente. E arrivò il cognac, molto cognac: eravamo dunque alla vigilia dell’azione.
I comandi avevano stabilito che il prossimo assalto fosse preceduto da un largo impiego di tubi di gelatina da far esplodere, la notte prima, sotto i reticolati nemici. Nel punto stabilito per l’assalto, l’azione del mio battaglione doveva precedere, con quella del 1 battaglione del 400, il reggimento compagno della brigata. Anche quel battaglione aveva avuto gravi perdite, ma si era ricostituito. Il suo maggiore si era rimesso. Egli mandò da me il tenente Mastini perché ci accordassimo sull’ora e sulle altre modalità circa la posa in comune dei tubi di gelatina sullo stesso fronte d’attacco.
Con Mastini, eravamo stati alla stessa Università. Piú giovane di me, quando io ero al quarto corso, egli era al secondo anno. Amici, e veterani del Carso, ci vedevamo spesso, anche sull’Altipiano d’Asiago.
Avevamo finito un giro d’osservazione lungo la linea e ci eravamo messi a sedere, dietro la trincea del mio battaglione. Io m’ero sdraiato per terra, egli era su un sasso, all’ombra. Il discorso cadde sul suo comandante di battaglione. Anche Mastini era d’avviso che il maggiore bevesse troppo. Io gli raccontai la scena alla quale avevo assistito.
– Il nostro maggiore, – disse Mastini, – non è un cattivo ufficiale. Spesse volte è coraggioso e, qualche volta, anche intelligente. Ma, se gli manca il cognac, è incapace di muovere un passo durante un’azione.
– Ti ricordi, – gli dissi io, – di Pareto? Come beveva!
E che intelligenza! I professori ne erano ammirati, tutti. Non era forse lo studente di maggiore ingegno, all’Università? Ma, se non beveva, niente esami. Un po’ come il tuo maggiore. Senza cognac, niente combattimenti. La conversazione scivolava mollemente sui ricordi della nostra vita universitaria, che ci appariva cosí lontana: un sogno. Egli rievocò una nostra festa goliardica, rimasta celebre, perché la vernaccia era vecchia e perfida, e il Magnifico Rettore s’era messo a cantare da basso, e una matricola aveva abbracciato la moglie del Prefetto.
– Ma anche tu bevi molto, ora? – gli chiesi. – Si dice che al vostro battaglione, bevete tutti come spugne.
Per tutta risposta, e con una mossa rapida, come se la mia domanda gli avesse ricordato improvvisamente un oggetto fino ad allora dimenticato, slacciò la borraccia e bevette qualche sorso. Era certamente del buon cognac, perché io sentii un odore insopportabile di polvere da caccia.
– Io, – disse rimettendo il turacciolo alla borraccia, – adoro l’Odissea d’Omero perché, ad ogni canto, è un otre di vino che arriva.
– Vino, – dissi io, – e non cognac.
– Già, – osservò, – è curioso. È veramente curioso. Né nell’Odissea né nell’Iliade, v’è traccia di liquori.
– Te lo immagini, – dissi, – Diomede che si beve una buona borraccia di cognac, prima di uscire di pattuglia?
Noi avevamo un piede su Troia e un piede sull’Altipiano d’Asiago. Io vedo ancora il mio buon amico, con un sorriso di bontà scettica, tirare, da una tasca interna della giubba, un grande astuccio di acciaio ossidato, copricuore di guerra, e offrirmi una sigaretta. Io l’accettai e accesi la sua sigaretta e la mia. Egli sorrideva sempre, pensando alla risposta.
– Tuttavia…
E ripeté, dopo una boccata di fumo:
– Tuttavia… Se Ettore avesse bevuto un po’ di cognac, del buon cognac, forse Achille avrebbe avuto del filo da torcere…
Anch’io rividi per un attimo, Ettore, fermarsi, dopo quella fuga affrettata e non del tutto giustificata, sotto lo sguardo dei suoi concittadini, spettatori sulle mura, slacciarsi, dal cinturone di cuoio ricamato in oro, dono di Andromaca, un’elegante borraccia di cognac, e bere, in faccia ad Achille.
Io ho dimenticato molte cose della guerra, ma non dimenticherò mai quel momento. Guardavo il mio amico sorridere, fra una boccata di fumo e l’altra. Dalla trincea nemica, partí un colpo isolato. Egli piegò la testa, la sigaretta fra le labbra e, da una macchia rossa, formatasi sulla fronte, sgorgò un filo di sangue. Lentamente, egli piegò su se stesso, e cadde sui miei piedi. Io lo raccolsi morto.
Fun Alexander!
History Teachers: la storia in musica.
Achille alla prima guerra mondiale
Una delle liriche più famose dei War Poets britannici è ispirata all’Iliade e ad Achille. Patrick Shaw-Stewart (1888 – 1917), I saw a man this morning
I saw a man this morning
Who did not wish to die:
I ask and cannot answer,
If otherwise wish I.
Fair broke the day this morning
Against the Dardanelles;
The breeze blew soft, the morn’s cheeks
Were cold as cold sea-shells.
But other shells are waiting
Across the Aegean Sea,
Shrapnel and high explosive,
Shells and hells for me.
O hell of ships and cities,
Hell of men like me,
Fatal second Helen,
Why must I follow thee?
Achilles came to Troyland
And I to Chersonese:
He turned from wrath to battle,
And I from three days’ peace.
Was it so hard, Achilles,
So very hard to die?
Thou knewest, and I know not —
So much the happier I.
I will go back this morning
From Imbros over the sea;
Stand in the trench, Achilles,
Flame-capped, and shout for me.
LETTURA in lingua inglese. CLICCA QUI.
Alla lettura e alla ricezione dei classici nella poesia e nella cultura inglese degli anni della Grande Guerra Elizabeth Vandiver ha dedicato il saggio Stand in the trench, Achilles!
Pubblicato in Attualità dell'antico, Mitologia
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La tomba macedone di Anfipoli (13)
Le ultime scoperte e ipotesi sul tumulo di Anfipoli-Kasta Hill.
Secondo le ultime notizie fornite alla stampa dal Ministero della cultura greco, all’interno della camera sepolcrale di Anfipoli sono state ritrovate delle monete con l’effigie di Alessandro il Grande, risalenti al II secolo a.C. I numerosissimi frammenti di ceramica dipinta raccolti sono invece attribuibili al IV secolo a.C.
Le ossa dello scheletro sono state ritrovate sia all’interno (la maggior parte) che all’esterno del sarcofago (cranio e mandibola inferiore). Gli arti superiori e inferiori risultano pressoché intatti, mentre in condizioni frammentarie si trovano la spina dorsale e le ossa pelviche. Sarà pertanto molto difficile, se non impossibile, stabilire se i resti appartengano ad un uomo o ad una donna.
I dipinti e le iscrizioni dell’anticamera sepolcrale saranno esaminate mediante raggi ultravioletti.
Il monumento sarebbe stato originariamente aperto al pubblico. Fu probabilmente saccheggiato in età romana e successivamente sigillato. Non si riscontrano segni di presenze databili all’età cristiana.
La ricostruzione digitale a cura di AncientAthens3d studio:
Siti e immagini.
La seconda camera: i dipinti dell’architrave.
http://www.mediterraneoantiguo.com/2014/12/article-lingering-misteries-of.html
http://algargosarte.blogspot.it/2014/09/la-tumba-o-tumulo-de-anfipolis-esfinges.html
https://www.pinterest.com/angela1723/ancient-greece-_-amphipolis/
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