Uno splendido mosaico risalente al II-III sec. d. è stato riportato alla luce a Plotinopolis, in Tracia, nel nord della Grecia. La città fu fondata da Traiano e prese nome da Pompeia Plotina, sua sposa.
Uno splendido mosaico risalente al II-III sec. d. è stato riportato alla luce a Plotinopolis, in Tracia, nel nord della Grecia. La città fu fondata da Traiano e prese nome da Pompeia Plotina, sua sposa.
Philip Hardie ha ricostruito in un denso e preciso saggio la storia culturale del grande classico della letteratura occidentale. E delle sue molte letture
di Alessandro Schiesaro, “Il Sole 24 ore – Domenica”, 16 novembre 2014
Sedici ottobre 1944. Londra è in balia di nuovi missili devastanti, l’ultimo colpo per una città che in anni di guerra e di bombardamenti ha già accumulato molte ferite. T. S. Eliot pronuncia la sua prolusione come primo presidente della neonata «Società Virgiliana». Il titolo – «Cos’è un classico?» – ha forma di domanda, ma la risposta non tradisce esitazioni: un classico, il classico, è Virgilio, «il nostro classico, il classico di tutta Europa». Non possono aspirare a quel ruolo i sommi autori delle letterature nazionali; Virgilio sì, perché poeta in una lingua che, morendo, ha irradiato tutta Europa e le ha garantito il contatto con l’eredità dei greci.
Nel nome di Virgilio Eliot traccia un progetto di salvezza culturale del continente che rinascerà dalle macerie, individuando un comune denominatore che trascenda anche Dante o Goethe o Shakespeare. «Dobbiamo ricordarci – afferma – che, come l’Europa è un’unità (e tuttora, pur crescentemente mutilato e deturpato, l’organismo dal quale deve svilupparsi una maggior armonia mondiale), così la letteratura europea è un’unità». È, la sua, l’esaltazione teorica più esplicita della centralità culturale di Virgilio, che risponde a un sentire e un’esigenza reali. Quando, pochi anni dopo, Carlo Dionisotti arriva a Oxford, si concentra sui classici latini, Virgilio in primis, convinto che sia questa la base del dialogo tra l’esule (antifascista) di un paese sconfitto e i suoi colleghi britannici.
Il ruolo principe di Virgilio e soprattutto dell’Eneide è una costante della cultura europea da prima che l’aggettivo abbia un senso. Il suo poema è un classico mentre l’autore ancora lo scrive, poi una presenza immediata e costante sui banchi di scuola e nell’immaginario. In questo libro affascinante, che guida con acutezza il lettore tra una miriade di opere e di autori, Philip Hardie racconta la storia di questa duratura e poliedrica canonizzazione.
L’Eneide, pur così specifica nella sua trama, nella sua tessitura linguistica, nei suoi riferimenti culturali, è celebrata e imitata (anche parodizzata) in letteratura e spesso anche nelle arti figurative per due millenni perché il suo schema narrativo si adatta agevolmente ad altri contesti. È la storia di un esule che fonda un impero, o, meglio, che ritorna col suo popolo ad una terra insieme nuova e antica (i Troiani si volevano discendenti dell’etrusco Dardano), per gettare le basi di un regno la cui grandezza il poema può solo garantire al futuro. Anche se Enea non vede in prima persona il trionfo di Augusto, la profezia di Virgilio propone un modello attraente per ogni impero che si voglia eterno e invincibile. Quando descrive l’emergere dell’ordine dal caos, il contrasto tra le potenze infernali della discordia e la forza di un principe che si vuole capace di interrompere il ciclo inevitabile del declino umano riportando in terra una nuova Età dell’oro, l’Eneide costruisce un’intelaiatura ideologica pronta a farsi archetipo.
Sarebbe però un errore ricondurre il successo dell’Eneide, anche solo in campo ideologico, esclusivamente alle aspirazioni imperialistiche e panegiristiche di successive generazioni di potenti. Certo, la prefigurazione di un sovrano che ascende al cielo offre un modello (e quindi anche un antimodello) di molte apoteosi successive: a Milano è dipinta l’apoteosi di Napoleone, sul Campidoglio di Washington quella del repubblicano Washington. Ma la trama del potere che Virgilio costruisce è più complessa e più sottile. Il suo è anche (per molti, oggi: soprattutto) un poema di esilio e di transizione, che all’ombra di un motto perentorio e mille volte sfruttato, la promessa di Giove ai Romani che il loro sarà un «impero senza fine», suggerisce riflessioni meno rassicuranti. Lo dice senza mezzi termini Agostino, quando la distruzione che Alarico infligge a Roma “eterna” nel 410 revoca in dubbio il valore delle parole di Giove. Anzi, lo fa dire a Virgilio stesso, il quale si assolve da ogni responsabilità osservando che, in fondo, è stato un dio pagano a sbagliare. E lo ripeterà con foga W. H. Auden nel 1959, rimproverando al poeta di immaginare un futuro che non si proietta oltre gli eventi della sua vita: «Neppure il primo dei Romani può imparare/ La sua storia romana al futuro». Per Auden, Alarico ha vendicato Turno, l’eroe latino sulla cui morte per mano di un Enea furente Virgilio sceglie ambiguamente di chiudere il poema. È su Virgilio, sull’Eneide, che si misurano la filosofia e la teleologia della storia.
La critica del dopoguerra ha messo in giusto rilievo molte delle tensioni e delle esitazioni ideologiche che rendono impossibile, o comunque tristemente riduttiva, una lettura dell’Eneide solo in chiave di panegirico (la reazione era dovuta, se solo si pensi allo sfruttamento fascista di Virgilio profeta della Terza Roma). Si erano già segnalate, però, ingegnose operazioni controcorrente. A inizio Quattrocento Maffeo Vegio, dotto monaco domenicano, compone un tredicesimo libro dell’Eneide che per qualche secolo avrà l’onore di essere stampato in appendice al capolavoro. Vegio regala ai lettori l’happy ending che manifestamente manca nell’originale. Turno viene sepolto con onore, Enea e Lavinia si sposano, assistiamo alla fondazione di Lavinio e all’apoteosi di Enea. Un finale dell’opera, insomma, che riscatta la violenza inscritta nelle omissioni di Virgilio, il quale non esitava a chiudere sull’orrore dell’uccisione di Turno e nulla dice né di Lavinia (un’assenza, un simbolo evanescente) né del destino di Enea.
Nella storia culturale dell’Eneide la dimensione politica assume un ruolo di primo piano che però non è esclusivo. L’Eneide è anche, per esempio, il racconto della tragica intersezione tra Storia e destino personale nell’amore di Didone ed Enea, sviluppato anch’esso sul filo di tensioni irrisolte che affascinano Chaucer e Tasso e Shakespeare. E mentre insiste sulla vittoria dell’ordine e la sconfitta del caos, l‘epos celebra il ruolo ineliminabile delle passioni e degli istinti, trasfigurati nei venti che Eolo reprime a stento in una caverna, o nella violenza che anima le furie infernali al servizio dell’implacabile odio di Giunone. Sul frontespizio dell’Interpretazione dei sogni, datata 1900 con imprecisione tecnica ma suggestivo simbolismo, Freud, fa sue le parole di Giunone: «se non posso piegare gli dei superi, scuoterò l’Acheronte» e schiude le porte a una fase feconda della ricezione del poema, quella che ne rinnova la dimensione “classica” riconoscendone fino in fondo le ansie e le contraddizioni.
La recensione del “Telegraph”. CLICCA QUI.
No, Virgil, no:
Not even the first of the Romans can learn
His Roman history in the future tense,
Not even to serve your political turn:
Hindsight as foresight makes no sense.How was your shield-making god to explain
Why his masterpiece, his grand panorama
Of scenes from the coming historical drama
Of an unborn nation, war after war,
All the birthdays needed to preordain
The Octavius the world was waiting for,
Should so abruptly, mysteriously stop,
What cause could he show why he didn’t foresee
The future beyond 31 BC.No, Virgil, no:
Behind your verse so masterfully made
We hear the weeping of a Muse betrayed.
Your Anchises isn’t convincing at all:
It’s asking too much of us to be told
A shade so long-sighted, a father who knows
That Romulus will build a wall,
Augustus found an Age of Gold,
And is trying to teach a dutiful son
The love of what will be in the long run,Would mention them both, but not disclose
(Surely no prophet could afford to miss,
No man of destiny fall to enjoy
So clear a proof of Providence as this.)
The names predestined for the Catholic boy
Whom Arian Odovacer will depose.W.H. Auden, Secondary Epic, In Homage to Clio, New York, 1955
Andrea Giambartolomei, “Il Fatto”, 15 novembre 2014
Il classico è assolto, ma chi è il responsabile delle mancate riforme della scuola? Questa è la conclusione della Corte che ieri ha processato gli studi classici nel teatro Carignano di Torino. Al banco dell’accusa l’economista Andrea Ichino. Vicino un avvocato difensore d’eccezione, Umberto Eco. In mezzo al palco una giuria presieduta dal procuratore capo Armando Spataro, nell’insolito ruolo di magistrato giudicante.
Al centro del dibattimento tre le accuse del pm Ichino: il liceo classico è ingannevole, non prepara gli studenti anche per le materie scientifiche; è inefficiente, non aiuta ad affrontare problemi e opportunità del mondo moderno; è iniquo, ha contribuito a ridurre la mobilità sociale a favore di chi nasce in famiglie avvantaggiate. Dietro una domanda: è ancora la scuola migliore per formare le prossime teste del paese? “Il classico è stato la fucina delle classi dirigenti e qui si parla della scuola del futuro”, ha affermato la professoressa Anna Maria Poggi, presidente della Fondazione per la scuola della Compagnia di San Paolo, che ha organizzato l’evento. Agli studenti dei licei presenti la situazione ha suscitato un certo effetto: “È un processo assurdo in cui ci troviamo costretti a difenderci”, ha detto nel suo intervento una studentessa. Assurdo sì, ma stimolante.
SUL PALCO sono sfilati molti testimoni illustri. Il primo, lo scrittore di gialli e ricercatore di chimica Marco Malvaldi, ha ricordato i contributi dei greci e dei latini alla scienza, perlopiù ignorati dagli studenti. Per la difesa è arrivato tra gli applausi un supertestimone, Luciano Canfora: “Il liceo è la trincea della democrazia, nel senso più alto della parola”. Gravi accuse sono state lanciate da Stefano Marmi, matematico e professore della Scuola Normale Superiore di Pisa: il liceo classico non prepara a capire il mondo attorno, una colpa che ricade anche sulle altre scuole. “Abbiamo generato in Italia una società in cui si dice: ‘Io non mi vergogno a dire che non so nulla del teorema di Pitagora’, anche nei salotti determinanti per il futuro dell’economia”. Per il matematico oggi “viviamo in un mondo dominato dalla matematica tramite il suo braccio armato, che è il computer”, un motivo per prediligere le materie scientifiche. Di tutt’altro avviso il rettore dell’Università di Bologna, il latinista Ivano Dionigi, incalzato dal pm Ichino sulla presunta inutilità del greco e del latino oggigiorno di fronte a inglese, arabo o cinese: “Ci siamo rassegnati all’aut aut, a cui bisogna contrapporre la cultura dell’et et”, ha risposto ribadendo l’importanza di lingue morte.
In difesa sono intervenuti pure Gabriele Lolli, logico e filosofo della matematica, e Adolfo Scotto di Luzio, studioso delle istituzioni scolastiche: “La scuola pubblica senza il classico sarebbe un apparato per una moltitudine sommariamente scolarizzata. Bisogna smettere di pensare che l’educazione si risolva nella mera preparazione professionale”.
Al termine, il pm ha chiesto la condanna del liceo classico: “In Italia il 70 per cento degli adulti è incapace di analizzare informazioni matematiche – ha ricordato citando i dati dello studio Piaac-Ocse –. Bisogna rifare gli equilibri tra cultura umanistica e tecnico-scientifica, non eliminare la prima”. Eco ha ricordato come Adriano Olivetti avesse coniugato conoscenze tecniche e classiche: “Una buona educazione umanistica è fondamentale anche per rendere inventiva e feconda la ricerca scientifica”. Dopo quasi due ore di “camera di consiglio”, i giudici hanno assolto il liceo classico perché “non sussistono” le ipotesi di inganno e inefficienza e perché l’iniquità “non costituisce reato”. Hanno però ordinato nuove indagini: bisogna capire chi – nei governi passati – ha ristretto il diritto di accesso al ginnasio, che ha sempre meno iscritti, e chi è responsabile della “mancata o distorta opera riformatrice della scuola italiana”.
Dobbiamo scegliere: è più utile studiare i mitocondri oppure l’aoristo passivo?
Il liceo classico? Assolviamolo ma va riformato
Vera Schiavazzi, “La Repubblica”, 15 novembre 2014
Il liceo classico è assolto, perché «il fatto non sussiste ». Ma dovrebbe essere riformato al più presto.
Così, al Teatro Carignano, una corte già fortemente influenzata da una serie di opinioni favorevoli al liceo più antico d’Italia, da Luciano Canfora a Ivano Dionigi, ha deciso ieri, dopo un processo organizzato dalla Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo, dal Miur e da Il Mulino, dove l’economista Andrea Ichino e il semiologo e scrittore Umberto Eco sostenevano l’accusa e la difesa. Un processo guidato da Armando Spataro, procuratore capo a Torino, e accompagnato da testimonianze e “tifo”, nonché grida di dolore e di richiamo al cambiamento di insegnanti e studenti. Ma anche di argomenti che hanno trionfato, come l’invito di Eco a considerare che la cultura classica è utile e forse indispensabile, a chi deve progettare il software di un computer.
Ecco gli argomenti principali con i quali Eco e Ichino si sono “sfidati”, con ironia il primo, con passione e dovizia di dati il secondo. Ma oltre che di scuola si è parlato moltissimo dei modi italiani, e non solo, di formare una classe dirigente.
Andrea Ichino: In questo processo cercherò di far condannare il classico perché inganna alcuni studenti, che lo scelgono per avere strumenti migliori. E poi perché è inefficiente e perché è figlio della riforma Gentile, la “più fascista delle riforme”, che voleva creare una scuola di élite impedendo alle classi svantaggiate di accedervi.
Umberto Eco: Sono d’accordo: il classico non prepara meglio dello scientifico, ma prepara in modo uguale. Ed è vero che Gentile non aveva fiducia nelle materie scientifiche. Nel liceo classico che ho fatto io c’era perfino pochissima storia dell’arte, la studiavamo solo su un vecchio manuale, il Pittaluga, con le foto in bianco e nero. E si erano dimenticati di spiegarci che Leonardo era un genio della pittura, ma non sapeva granché di chimica dato che molti suoi affreschi si scoloriscono.
Ichino: Nessuno vuole davvero abolire la cultura umanistica. Ma in Italia le competenze matematiche sono sconosciute al 70 per cento degli adulti contro il 52 medio degli altri paesi: forse è ora di restituire qualcosa. Occorre ripensare un equilibrio. Le ore non sono illimitate. Dobbiamo scegliere: studiare i mitocondri, dove si ritiene ci sia l’origine della vita di tutto il pianeta, o l’aoristo passivo e le origini della nostra cultura?
Eco: Ripensare un equilibrio vuol dire insegnare meglio il latino, dialogando in latino elementare, introdurre per tutti i cinque anni almeno una lingua straniera, e perfino la storia dell’arte. Anche il greco si può cambiare, aumentando le traduzioni del greco della koiné e di quello che anche Cicerone parlava. Propongo l’abolizione del liceo scientifico e la nascita di un’unica scuola, umanistica e scientifica.
Ichino: Su 1700 studenti bolognesi che si sono candidati al test per entrare alla facoltà di Medicina, quelli del classico erano avvantaggiati rispetto a quelli dello scientifico perché il loro voto di maturità era superiore di un punto e più rispetto alla media della scuola. Ciò nonostante, sono andati peggio nei test di chimica e di fisica. E se si paragona l’andamento al test con le medie successive degli esami si vede che a Medicina va meglio chi ha superato meglio la prova.
Eco: Ma chi ci dice che i test di medicina così come sono vadano bene? Che controllino anche la conoscenza memoriale, che pure è utile? E che invece non creino sacche di iperspecializzazione dove chi cura una malattia rara non sa più curare il raffreddore?
Ichino: Quello che sappiamo è che in Italia avere il padre laureato conta 24 volte di più per ottenere, da adulti, un reddito elevato. In America si arriva al massimo a 6 volte e ciò che conviene davvero non è tanto nascere nella famiglia giusta, ma provvedere a laurearsi in proprio. Per tacere del fatto che non solo l’inglese, ma anche l’arabo o il cinese possono essere oggi necessari.
Eco: Ma abolire la cultura classica serve solo a perdere la memoria, a farci vivere in una società orientata sul presente. Con le conseguenze che sappiamo: nessuno sa dire in che anno Mussolini e Hitler stipularono il primo accordo, nessuno dice che era il 1936.
Lo stesso Hitler non doveva aver studiato bene la storia napoleonica, altrimenti avrebbe saputo che non si può invadere la Russia senza dover affrontare almeno un inverno. Quanto a Bush, invadendo l’Afghanistan non si era informato da nessuno su come mai né Inghilterra né Russia l’avevano già fatto nei secoli precedenti: realtà orografica e rivalità tribali rendevano l’impresa difficile.
Ichino: Ma se il liceo classico è così fondamentale, mi sapete spiegare come mai nessuno lo riproduce in altri paesi? O perché anche nazioni come la Francia e la Germania lo hanno abolito e oggi riescono a reagire alla crisi meglio di noi? E perché invece di imporre a un ragazzo di 14 anni un menù fisso non glielo si propone invece à la carte, lasciandogli la possibilità di scegliere un po’ alla volta quali corsi frequentare? Vi suggerisco di guardare alla Boston Latin School.
Eco: È vero, un mio nipote frequenta a Roma un liceo francese e in effetti ha potuto scegliere à la carte, decidendo per greco ed economia. Non è troppo appassionato alla grammatica, ma ama molto il modo in cui il suo professore passa facilmente da quella alla civiltà di Atene antica. E forse così scoprirà un poco anche i misteri dell’aoristo.
Ichino: Ma perché la nostra futura classe dirigente, o presunta tale, studia per anni il greco e il latino, passa il tempo a fare versioni, e alla fine non parla nessuna di queste due lingue mentre l’inglese o il francese sì?
Eco: Perché c’è modo e modo di studiare latino e greco. Adriano Olivetti cercava e assumeva oltre agli ingegneri anche persone con cultura umanistica, educate sulle avventure della creatività. Io stesso del resto appena ho avuto uno dei primi computer di Apple ho imparato a programmare un sistema per riprodurre i sillogismi classici sulla base della mia conoscenza di Aristotele. Non è vero dunque che un informatico sia un semplice esecutore di equazioni, anche se non è necessario che abbia letto i formalisti russi per pensare all’intertestualità.
Ichino: Il liceo classico è iniquo perché non dà strumenti adeguati alla società, e dunque contribuisce a ridurre la mobilità sociale. La storia è certamente utile, ma dopo aver studiato quella e la filologia ci sono molte altre cose che uno studente deve fare. E tra queste utilizzare informazioni qualitative, di tipo scientifico, per risolvere i problemi.
Eco: È in un certo senso la mia proposta di un unico liceo. Si deve studiare il teorema di Pitagora, ma anche la sua teoria sull’armonia delle sfere. E il suo terrore dell’infinito.
Applausi, riunione della corte, sentenza dopo un’ora soltanto.
Si fermano i lavori di scavo ad Anfipoli. Così ha dichiarato oggi Lina Mendoni, del Ministero della Cultura greco. Lo scheletro ritrovato è stato trasferito in un laboratorio di analisi e ricerca per tentare di determinarne l’identità o per avere qualche risposta all’enigma del sepolcro di Kasta. E’ stato dichiarato che non vi sono stati altri ritrovamenti oltre a quelli già resi noti dal Ministero greco.
Il servizio di EURONEWS. CLICCA QUI.
Da Greekreporter:
“Professor of Orthodontics Manolis Papagrigorakis said that the DNA of the skeleton in the Amphipolis grave most likely will be found by analyzing the pulp of the tooth, according to TheTOC.gr.
Papagrigorakis was the scientist in charge of the team that recreated the face of Myrtis, by analyzing ancient DNA from her teeth. Myrtis was the name given to the skeleton of an ancient Athenian 11-year-old girl who was found in a mass grave near Acropolis in 1994-1995.
“In the case of Myrtis, we followed the method of two doctors-professors at the University of Marseille. We took DNA sample from the pulp of teeth,” Papagrigorakis said to TheTOC.gr.
He said that through this method, scientists will learn the sex, age, hair and eye color, and cause of death. The tests can also show if the skeleton belongs to a man injured at battle or suffered from some disease. He added that it takes about three months to come up with results.
Ritrovato uno scheletro pressoché integro nella terza camera del tumulo di Anfipoli-Kasta. Per le foto e i primi dettagli CLICCA QUI.
Dal sito GREEKREPORTER: “The new discovery of a grave made of limestone allegedly containing a wooden coffin with an integral human skeleton inside the Kasta Hill tomb in Amphipolis, brings archaeologists closer to solving the mystery of the person buried in the monument.
The grave was found 1.60 meters beneath the third chamber floor. The outer dimensions are 3.23 meters by 1.56 meters and inside the grave there is a hollow part 0.54 meters wide and 2.35 meters long. It is estimated that the height of the grave was 1.80 meters. Also, the total height from bottom to ceiling is 8.90 meters.
Archaeologists have informed journalists that inside the grave there was a wooden coffin containing a whole human skeleton. The implication of the coffin derives from the fact that inside the grave there were about 20 iron and copper nails and several coffin decorations made of bone and glass.
Inside the grave, the human skeleton found was almost intact. The skeleton will be transferred to a laboratory for a DNA test to determine the sex and age of the dead”.
Rappresentazione in 3D della tomba fino ad ora portata alla luce, a cura di http://www.optiko.net/
Matteo Nucci, “Venerdì di Repubblica”, 7 novembre 2014
Per gli antichi greci più che la filosofia esisteva il filosofare. Un’azione, anzi una pratica, subito chiara nel significato originario del verbo: amare (philein) la sapienza, la saggezza (sophia). Il filosofo, dunque, non aveva nulla a che vedere con il tipo umano a cui siamo abituati. Come il medico, egli era dedito a una terapia, terapia non del corpo ma dell’anima. Soprattutto dopo la grandiosa riflessione filosofica tedesca dei secoli XVIII e XIX, noi identifichiamo il filosofo in un uomo immerso nella ricerca teoretica, chino sui libri, sempre alle prese con domande circa il senso dell’essere. Nell’antichità invece la pratica di chi era in cerca di saggezza possedeva un carattere immediatamente vitale, per nulla estraneo alla quotidianità. Il fine della conoscenza consisteva in qualcosa di molto semplice e comune a tutti gli esseri umani: raggiungere la felicità. Come vivere bene la nostra breve vita? Come essere felici?
I filosofi indagavano, aprivano scuole e spesso mettevano per scritto i risultati delle loro ricerche. Offrivano insomma una strada: la loro pratica coincideva con il “vivere bene” che si preoccupavano di insegnare, poiché essi erano innanzitutto educatori. Il più esemplare tipo umano di questo genere fu Socrate. Innumerevoli furono coloro che presero a seguirlo e che, dopo la sua morte, cercarono di proseguire sulla via che ritennero più giusta. Il principale lo conosciamo tutti. Si chiamava Aristocle e per le sue ampie spalle fu soprannominato Platone. La sua genialità oscurò gli altri amici (più che discepoli) di Socrate che infatti la storia ribattezzò con un epiteto poco affettuoso: “socratici minori”. Tra di essi, uno dei più dimenticati era nato a Cirene, nell’attuale Libia orientale, si chiamava Aristippo e fu noto al suo tempo poiché identificava la felicità nel piacere.
Ma che tipo piacere? – dobbiamo chiederci noi oggi. E in che senso la felicità può identificarsi con esso? Delle riflessioni di Aristippo è rimasto davvero poco e quel poco è stato oscurato a lungo. Una magnifica edizione italiana curata dal massimo esperto dell’argomento, Gabriele Giannantoni, fu pubblicata da Sansoni nel 1958 e ovviamente è introvabile. A essa però ha attinto a piene mani Michel Onfray, pubblicando un libro che è in sostanza un’edizione semplificata delle testimonianze su Aristippo di Cirene, opera importante per tutti gli appassionati e anche per chi semplicemente continua a credere che la ricerca della saggezza e la cura di se stessi sia il compito principale nell’arco di una vita.
Con L’invenzione del piacere. Aristippo e i cirenaici (Ponte alle Grazie, pp. 205) possiamo tentare di penetrare i segreti di un uomo che lasciò presto la città dove nacque attorno al 430 a. C. per vivere fra l’altro a Corinto, Atene, Egina, Siracusa e che morì verso il 360. Benestante (Cirene era ricchissima, al tempo, grazie soprattutto al siflio, una pianta oggi scomparsa usata come condimento e medicinale), ottimo conversatore, attento alle situazioni, sapeva come comportarsi sia che si trovasse alla corte del potentissimo tiranno siracusano Dionisio il Giovane, sia che dovesse affrontare le ire di pensatori drastici e ostentatamente poveri come Diogene di Sinope, tra i precursori del Cinismo. I principi a cui s’ispirava erano la misura nel godere dei piaceri, l’assoluta indipendenza di pensiero, la predisposizione all’ascolto, ossia la curiosità sempre viva dell’intelligenza. Un insieme di propensioni che lo spinse a frequentare prima le lezioni dei Sofisti e più tardi i dialoghi in cui Socrate si lanciava giorno dopo giorno passeggiando per Atene.
Le fondamenta del suo modo di cercare la saggezza sono lì, tra i Sofisti e Socrate, messe assieme attraverso il suo carattere di misurato gaudente. Secondo Aristippo, la conoscenza è frutto della nostra percezione, percezione che è relativa a noi e alle circostanze. Quel che ci appare, però, deve essere organizzato armoniosamente nel nostro incontro con gli esseri umani, aprendoci al dialogo, sempre pronti a ridiscutere quel che troviamo giusto. È la lezione del V secolo, quando i commerci fecero incontrare tradizioni, usi e costumi diversi spingendo a mettere in discussione le verità rivelate. Aristippo però declinò questo atteggiamento culturale in base alle sue attitudini.
Da una parte dunque cercò di utilizzare le armi della conoscenza per individuare quel piacere che, nel momento esatto in cui si sta vivendo (fuori dal passato e dal futuro, fuori da ricordi e anticipazioni, portatori di dolori), può accompagnarci senza eccessi alla felicità. Dall’altra sottolineò la necessità di essere costantemente autonomi e padroni di se stessi mentre si segue questa strada. Così uno degli aneddoti più ricorrenti sul suo stile di vita racconta di una risposta sferzante a chi gli domandava della sua relazione con una famosa etera di nome Laide: “La posseggo, non ne sono posseduto” disse “Ottima cosa è vincere e non essere schiavi dei piaceri, più che il non goderne affatto”. Si deve godere, ma soltanto quando il piacere è in nostro possesso e non siamo noi a esserne schiavi. Il piacere non è dunque il fine ultimo ma il mezzo attraverso cui si raggiunge la felicità. Questo piacere è misura e moderazione.
Tutto il contrario di quel che ha raccontato una certa tradizione molto ostile verso Aristippo e verso la scuola che egli non fondò mai ma che più tardi s’immaginò fosse seguita al suo insegnamento e fu per questo ribattezzata “Scuola Cirenaica”. È in questa tradizione ostile che trova linfa vitale per la sua introduzione tutta ideologica Michel Onfray, scatenato difensore di Aristippo contro tutti i filosofi a lui contemporanei, quasi fossero nemici da combattere, colpevoli soltanto di aver prodotto una riflessione più ascoltata, seguita e duratura. Ormai famoso per l’ateismo, l’edonismo e la carica “rivoluzionaria” del suo pensiero, Onfray non si cura più di studiare con attenzione critica ciò di cui parla.
Le sue pagine introduttive al pensiero dei Cirenaici (come se fosse mai esistita una corrente filosofica unitaria di quel genere) sono l’unica parte del libro che il lettore può tranquillamente lasciar perdere. Troviamo caricature dei presunti avversari di Aristippo che non hanno nessun appiglio nella realtà: Pitagorici solo dediti ai numeri come fossero giochini, un Platone in pillole da manuale di scuole elementari che non ha nulla a che fare con la ricchezza del filosofo, e una costante battaglia contro tutti quei “nemici della felicità” che si sarebbero tanto dedicati a oscurare il pensiero di Aristippo. Come se gli altri filosofi greci non avessero cercato anch’essi la felicità, semmai percorrendo altre vie, certo non autopunitive come piacerebbe a Onfray, ma semplicemente più profonde e a volte più contraddittorie. Al punto che la storia, i lettori e i seguaci in generale hanno voluto attribuire a quelle strade un maggior credito che a quella piacevole, bonaria e di attenta intelligenza percorsa da Aristippo di Cirene.
“Aristippo di Cirene incarna un’altra tradizione filosofica, che sarà da mettere in prospettiva con gli usi e i costumi dell’epoca ellenistica. Aristippo testimonia un modo d’essere, di fare e di pensare capace di fornire un modello; mostra senza che gli interessi dimostrare; rende carne e poi rincara la dose, perché gli importa poco di disincarnare, di astrarre quintessenze per darsi le arie di uno che sa maneggiare le parole, di un saltimbanco del verbo; si sposta, va e viene, parla e interpella; sceglie l’agorà, lo spazio aperto; dischiude la filosofia al mondo esterno e non la riserva agli specialisti, ai dottori, agli studiosi inchiodati alla propria scrivania; sollecita il verduraio, il calzolaio, il marinaio, la prostituta, addirittura il principe, e si fa beffe delle conversazioni tra i filosofi. Tanta tracotanza e sconvenienza gli negano l’accesso a quel pantheon in cui sonnecchiano Platone e Aristotele…”. M. Onfray
L’8 novembre del 63. a.C. Cicerone pronuncia nel tempio di Giove Statore la prima oratio in Catilinam.
M. CICERONIS TULLI ORATIO IN L. CATILINAM PRIMA
IN SENATU HABITA A.D. VI. ID. NOV
La reazione di Catilina nel resoconto di Sallustio, De Coniuratione Catilinae, 31:
At Catilinae crudelis animus eădem illa movebat, tametsi praesidia parabantur et ipse lege Plautia interrogatus erat ab L. Paulo. Postremo, dissimulandi causa aut sui expurgandi, sicut iurgio lacessitus foret, in senatum venit. Tum M. Tullius consul, sive praesentiam eius timens, sive ira commotus, orationem habuit luculentam atque utilem rei publicae, quam postea scriptam edidit. Sed ubi ille assedit, Catilina, ut erat paratus ad dissimulanda omnia, demisso vultu, voce supplici, postulare a patribus coepit ne quid de se temĕre crederent: ea familia ortum, ita se ab adulescentia vitam instituisse, ut omnia bona in spe haberet; ne existimarent sibi, patricio homini, cuius ipsius atque maiorum plurima beneficia in plebem Romanam essent, perdita re publica opus esse, cum eam servaret M. Tullius, inquilinus civis urbis Romae. Ad hoc male dicta alia cum adderet, obstrepĕre omnes, hostem atque parricidam vocare. Tum ille furibundus “Quoniam quidem circumventus” inquit “ab inimicis praeceps agor, incendium meum ruina estinguam.”
Non in alia re tamen damnosior quam in aedificando, domum a Palatio Esquilias usque fecit, quam primo transitoriam, mox incendio absumptam restitutamque auream nominavit. Svetonio, Nero, 31
… De cuius spatio atque cultu suffecerit haec rettulisse. Vestibulum eius fuit, in quo colossus CXX pedum staret ipsius effigie; tanta laxitas, ut porticus triplices miliarias haberet; item stagnum maris instar, circumsaeptum aedificiis ad urbium speciem; rura insuper, arvis atque uinetis et pascuis silvisque uaria, cum multitudinem omnis generis pecudum ac ferarum. In ceteris partibus cuncta auro lita, distincta gemmis uinionumque conchis erant; cenatione laqueateae tabuli eburneis uersatilibus, ut flores, fistulatis, ut unguenta desuper spargerentur; praecipua cenationum rotunda, quae perpetuo diebus ac noctibus vice mundi circumageretur; balinae marinis et albulis fluentes aquis. Eius modi domum cum absolutam dedicaret, hactenus comprobavit, ut se diceret quasi hominem tandem habitare coepisse.
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Il Colosseo può tornare, com’era fino all’Ottocento, un’arena coperta, nuovamente utilizzabile per concerti e manifestazioni? La proposta dell’archeologo Manacorda e le ragioni dei no e dei sì:
GRAZIA LONGO, Qualcosa di nuovo anzi d’antico: l’arena del Colosseo, “La Stampa”, 3 novembre 2014
Il ministro per i Beni culturali ha annunciato ieri, via Twitter, che gli “piace molto l’idea dell’archeologo Manacorda di restituire al Colosseo la sua arena”. Bisogna riconoscere a Dario Franceschini la capacità di tener viva l’attenzione mediatica su alcune emergenze del nostro martoriato patrimonio culturale: questa estate con il tormentone dei Bronzi di Riace all’Expo, ora con l’idea di rifare il pavimento del Colosseo. Ma la domanda è: questa volta si tratta di una proposta più solida, e destinata a miglior fortuna?
Più di un turista si sarà domandato come facessero i gladiatori e le belve a rincorrersi negli angusti corridoi che oggi emergono dalla pancia scoperchiata del colosso: e le foto ottocentesche ieri twittate da Franceschini valgono egregiamente a svelare l’errore.
Cioè a spiegare che ciò che vediamo oggi sono i sotterranei funzionali dell’arena antica. Ma è davvero il caso di riportare indietro le lancette dell’orologio storico, rimettendo il coperchio agli scavi? È una questione che ciclicamente si pone per molti monumenti: quand’era sindaco di Firenze Matteo Renzi lanciò, per esempio, l’idea di ripavimentare in cotto Piazza della Signoria, tornando alla situazione presettecentesca. Ma il rischio di queste iniziative è scivolare nel falso storico, in un kitsch di cui non sentiamo il bisogno: come decidere dove fermarsi, e quale aspetto dare al monumento, quando si decide di salire sulla macchina del tempo?
In questo caso a preoccupare è soprattutto ciò che verrebbe dopo il ripristino: qual è il fine ultimo dell’operazione? Il professor Daniele Manacorda, cui spetta l’idea, ha chiarito che un simile ritorno, un domani, permetterebbe al Colosseo “di tornare ad essere, carico di anni, un luogo che accoglie non il semplice rito banalizzante della visita del turismo massificato, ma un luogo che, nella sua cornice unica al mondo, ospita – nelle forme tecnicamente compatibili – ogni possibile evento della vita contemporanea”.
Ecco, è questo il nocciolo del problema. Che cosa vuol dire “ogni possibile evento”? E dove metteremmo gli spettatori? Non è che, subito dopo, si parlerà di ricostruire le scalinate della cavea? Magari in cemento, come si è fatto nel Teatro Grande di Pompei, durante il commissariamento della Protezione Civile? E poi non succederà che qualcuno vorrà coprirlo, il Colosseo, per farci gli spettacoli anche quando piove, e in inverno? Non sembri bizzarro: è quel che il sindaco Flavio Tosi ha chiesto ufficialmente di poter fare per l’Arena di Verona.
E poi siamo sicuri che il limite debba essere solo tecnico? Potremmo trasformare il Colosseo, poniamo, in un campo da golf? L’esempio non sembri fantasioso: lo stesso Manacorda aveva sposato l’idea di realizzare un simile impianto sportivo alle Terme di Caracalla, a ridosso delle Mura Aureliane. Se Franceschini non ha rilanciato anche questa idea è forse perché nel frattempo una sentenza (15 settembre 2014) della sesta sezione del Consiglio di Stato ha fermato il progetto, perché “modificherebbe sensibilmente la percezione e la coerenza complessiva dello speciale contesto ambientale”.
Per il Colosseo, invece, il rischio sarebbe un altro, più subdolo: e cioè che questo monumento unico si trasformi nella più imponente delle location commerciali, magari in un’ambitissima arena per spettacoli di suoni e luci, ad uso di un turismo di infima qualità. Oggi è di moda parlare di edutainment (education + entertainment), un ibrido che – almeno in Italia – non riesce a coniugare conoscenza e piacere, ma annulla la prima e persegue un intrattenimento di bassa lega, che trasforma il passato in un gigantesco luna park commerciale.
Ora, non vorremmo che invece di riuscire a liberare l’ingresso del Colosseo dai tristi figuranti travestiti da gladiatori, qualcuno sognasse di farli entrare su quella famosa arena: e magari di assumerli nelle fila del ministero per i Beni culturali, che non riesce più ad assumere i giovani archeologi di cui avremmo, invece, un disperato bisogno.
Quando papa Innocenzo XI chiese a Gian Lorenzo Bernini di costruire un’enorme chiesa dentro il Colosseo – era il 1675 – l’artista più rivoluzionario del suo tempo rispose che non voleva toccare il monumento: “per la conservazione d’una macchina che, non solo mostrava la grandezza di Roma, ma era l’idea stessa dell’architettura”. Parole che sembrano tuttora assai sagge.
IL VIDEO DI R.it: la direttrice, Rossella Rea, spiega come la funzione dell’Anfiteatro Flavio è cambiata nel tempo. Il Colosseo come scenografia del potere di SARA GRATTOGGI
Gian Antonio Stella, Il comune di Ciampino vuole costruire dove sorgeva la casa del console Messalla, “Corriere della Sera”, 30 ottobre 2014
Cosa farebbero gli americani, se avessero loro le rovine della villa di Messala, il nemico acerrimo di Ben Hur? Farebbero di tutto per recuperare i resti di ogni statua, ogni capitello, ogni mosaico, ogni monetina… Noi no: anzi, se il Tar dovesse oggi dar ragione ai palazzinari, su quell’area archeologica sorgeranno altre dieci palazzine che andranno a impastarsi nella orrenda poltiglia cementiera della più brutta periferia romana.
Per carità, che quella di Ben Hur e della sua rivalità con il tribuno romano Messala sia una storia costruita dallo scrittore Lew Wallace è ovvio. Dietro l’immensa portata immaginifica del presunto erede dei Messala c’è però una grande storia assolutamente vera. Quella di Marco Valerio Messalla Corvino, braccio destro di Ottaviano nella decisiva battaglia di Azio contro Marco Antonio, console nel 31 a.C., mecenate e amico di poeti come Tibullo, Sulpicia, Orazio…
Un paio di anni fa, dov’era quella antica villa dei Valerii ingoiata dalla periferia romana di Ciampino, fu trovata la prova definitiva dell’importanza del sito archeologico. Sette statue bellissime e alte due metri che quasi certamente ornavano la piscina lunga 20 metri e cantavano la leggenda di Niobe. Cioè una delle figure più importanti della mitologia greca, celebrata anche da Omero che nell’Iliade, raccontando di quella madre che si vide uccidere da Apollo e Artemide sei figli e sei figlie, scrisse che perfino dopo esser diventata una statua mai smise di piangere: «Niobe, mutata in pietra, cova i dolori che le hanno inflitto gli dèi». Un mito cantato dallo stesso Ovidio che in quella villa era tra gli ospiti più cari.
Finì su tutti i giornali del mondo, il ritrovamento di quelle sette statue nel grande spazio verde racchiuso per tre quarti dal seicentesco Muro dei Francesi e sopravvissuto miracolosamente, coi suoi casali di tre o quattro secoli fa costruiti sulle fondamenta delle ville antiche, alle colate tutto intorno di cemento armato. «È una di quelle scoperte che capita una sola volta nella vita di chi fa il nostro mestiere», disse l’archeologa Aurelia Lupi. «Sette statue d’età augustea complete, ma anche una serie di frammenti che possono essere ricomposti: queste statue entreranno nei manuali di storia dell’arte classica», spiegò estasiata la soprintendente Elena Calandra.
Macché: due anni dopo siamo ancora lì. Il restauro delle statue, per quanto se ne sa, deve ancora cominciare: niente soldi, niente restauro. E il progetto municipale di lottizzare l’area, piazzandoci dieci condomini di edilizia popolare per un totale di 55 mila metri quadri, non è ancora caduto. Nonostante si siano rivelate sballate le previsioni di una crescita impetuosa degli abitanti, che avrebbero dovuto sfondare i 40 mila e al censimento si sono rivelati invece di meno. Nonostante il vincolo di tutela diretta posto ottant’anni fa, nel lontano 1935, sulle strutture barocche di quella che fu la tenuta dei principi Colonna.
E nonostante i ricchi ritrovamenti archeologici registrati negli ultimi due secoli. Nonostante l’inserimento nel 2000 dell’area nella mappa «ad alto rischio» della Carta Archeologica redatta per il Comune di Ciampino. Nonostante la decisione presa nel 2009 all’unanimità dal Coreco laziale di proporre l’intera zona per una tutela che garantisse «la godibilità dell’antico Portale seicentesco e delle Mura dei Francesi» e di quell’area «oggi in prevalenza costituita da orti e vigneti con olivi secolari e (…) alberature di alto fusto residue dell’antico Barco monumentale risalente al 1600 voluto dalla famiglia Colonna» e il suo ingresso monumentale, il Portale seicentesco in stile barocco.
E poi nonostante soprattutto le battaglie condotte dal movimento Ciampino Bene Comune, che chiede da anni che tutta l’area interna al Muro dei Francesi (area assediata dalla più disordinata e sgangherata periferia, un ammasso di casette e condomini, capannoni ed edifici diroccati, autofficine e casermoni orrendi) venga salvata da un vincolo archeologico e paesaggistico.
Una battaglia nobile eppure finora non solo perdente ma segnata da una serie di beffe. Prima il crollo, dopo anni di inutili allarmi alla soprintendenza, del grandioso portale opera dell’architetto Girolamo Rainaldi (quello che costruì a piazza Navona Palazzo Pamphilij), portale schiantatosi al suolo alla fine di aprile del 2011 forse anche perché stremato dalle vibrazioni e dal panorama del trafficatissimo stradone che senza alcun rispetto gli era stato piazzato davanti. Poi il crollo di una parte del Muro dei Francesi. Poi il crollo nel giugno scorso del tetto della Chiesuola, inutilmente tutelata dal 2005, assieme agli casali, da un vincolo integrale.
Ora, che gli aspiranti cementieri insistano per costruire sui resti della villa di Marco Valerio Messalla Corvino è tragicamente scontato. Fin da quando Antonio Cederna denunciava degli anni Cinquanta che «espandendo Roma verso il sud si fa piazza pulita dell’ultima campagna romana, che il buon senso, nonché le regole elementari dell’urbanistica, consigliavano di salvare come la pupilla degli occhi», i resti archeologici sono stati visti dai nuovi vandali, non meno incolti degli antichi, come «quattro sassi» che paralizzano l’edilizia. Ciò che stupisce è l’insistenza del Comune (Comune in pugno a quel Pd che si spaccia per essere attento ai temi dell’ambiente e della bellezza) contro ogni vincolo, fino al ricorso al Tar. E l’impotenza della Soprintendenza archeologica, che tempo fa ha spiegato per bocca di Alessandro Betori: «Non spetta a noi vincolare tutta l’area. Imporremo che le palazzine sorgano a cinque-dieci metri dal luogo della villa. Il problema è che la zona doveva essere integralmente dichiarata inedificabile. Ma questo è compito del Comune. O, tutt’al più, della Soprintendenza paesaggistica». Come se ogni tesoro archeologico non valga anche per il suo contesto. Come se la tutela di una villa romana frequentata dai massimi poeti dell’epoca augustea finisse un metro più in là dei muri perimetrali. Per diventare magari, come ironizzò Francesco Erbani, un pregiato accessorio dei nuovi condomini: «Venite a comprare, siore e siori, il bell’appartamento con vista sulle antiche rovine!». Potrebbe anzi essere il nome: «Messalla Residence». Se poi le ruspe dovessero far dei danni, amen! Il Comune, del resto, l’ha già detto: «In quell’area sono emerse rilevanze archeologiche modeste: le uniche cose di grande rilievo sono state le sette statue attribuite alla villa di Messalla…».
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