La tomba macedone di Anfipoli (10)

Le ali della sfinge: le nuove foto rese note oggi, 28 ottobre, dal Ministero della Cultura greco. Per altre immagini CLICCA QUI.

ali_sfinge

 

La ricostruzione grafica, a cura dell’ingegnere capo degli scavi, Michalis Lefantzis:

Designed by the Lead Architect of the excavations Mr Michalis Lefantzis

 

Il video che testimonia il ritorno alla luce del mosaico del ratto di Proserpina:

Una porta della larghezza di 96 cm.  separa la terza dalla quarta camera. Il comunicato del Ministero greco ha annunciato che sono già iniziati i lavori di sgombero del materiale di deposito che ostruisce l’ingresso.

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Gli Etruschi in mostra a Bologna (2)

Giuseppe M. Della Fina, Etruschi. Viaggio alla ricerca della civiltà che sconfisse la morte, “La Repubblica”,  24 ottobre 2014

«LA necropoli continuava la città, e l’uomo, morendo, non faceva che cambiar quartiere, passando dai quartieri del centro a quelli della periferia, più salubri e signorili. Il paese di Utopia gli Etruschi non lo confinavano in terre inaccessibili, in isole lontane, ma nella morte che è accessibile a tutti. Idea savissima». L’osservazione è di Alberto Savinio in Dico a te, Clio e torna alla memoria avvicinandosi a questa mostra nata da un’idea di Genus Bononiae Musei nella Città, Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna e Museo Nazionale di Villa Giulia a Roma: Il viaggio oltre la vita. Gli Etruschi e l’aldilà tra capolavori e realtà virtuale a Bologna (fino al 22 febbraio), presso Palazzo Pepoli dove si trova il museo della storia della città. Le fa da pendant un’esposizione a Roma, proprio negli spazi di Villa Giulia, partner del progetto. Il tema individuato dai curatori dell’esposizione, Giuseppe Sassatelli e Alfonsina Russo Tagliente, offre la possibilità di avvicinarsi alla civiltà etrusca da un’angolazione particolare come è quella rappresentata dalla documentazione proveniente dalle necropoli.
Ma privilegiata per la straordinaria attenzione che gli Etruschi dettero al culto degli antenati durante l’intero arco di durata della loro civiltà, che ebbe la forza di attraversare quasi per intero il I millennio a.C. e di sapersi misurare con il mondo greco, magnogreco e fenicio-punico. Come pure di interagire con gli altri popoli presenti nella penisola italiana. C’è un’immagine – stavolta dello scrittore e poeta Vincenzo Cardarelli – che illumina bene la loro azione: «… essi recarono la luce mediterranea fin nelle più remote caverne dell’Appennino » (in Il cielo sulle città).
Va detto, inoltre, che nell’arco degli ultimi due decenni è profondamente mutata la maniera di guardare ai documenti riferiti alla sfera funeraria, a partire dall’eccezionale repertorio figurativo rappresentato dalla pittura etrusca, e di questo cambiamento di approccio viene dato puntualmente conto in mostra.
Le stesse due sedi scelte non sono casuali: Roma accoglie il museo più importante al mondo per le antichità etrusche (a volte lo si dimentica) e Bologna è stata la città-stato di riferimento per la presenza etrusca nella pianura padana (a volte si mostra di non saperlo). Una presenza tra l’altro né sporadica né di breve durata, anzi: la zona padana va considerata tra le aree più ricche dell’Etruria per via dell’ingente produzione agricola, dovuta alla fertilità della terra e ai saperi dei contadini che la lavoravano, e al fatto di rappresentare il collegamento privilegiato con il mondo dei Celti. Senza dimenticare l’importanza, soprattutto a partire dal V secolo a.C., del porto di Spina dove era presente anche una forte comunità greca.
Nella mostra il tema dell’aldilà etrusco è esaminato attraverso la documentazione archeologica e non poteva essere altrimenti dato che altre fonti non sono giunte sino a noi, o risultano condizionate dall’interpretazione che ne venne data nel mondo greco e, soprattutto, in quello romano. L’ingente patrimonio di immagini pervenuto consente di entrare nei dettagli: la tomba, innanzitutto, sino almeno al IV secolo a.C., nonostante l’attenzione posta nella sua costruzione e il corredo funerario che vi veniva deposto, non era ritenuta la dimora stabile del defunto.
L’idea di un suo viaggio verso sfera oltremondana lontana da quella dei viventi e affine, in una qualche misura, a quella degli déi – come ha notato Giovanni Colonna – appare attestata sin dai secoli di formazione. Lo segnalano la presenza nei corredi funerari di modellini di barche e di carri, come pure la raffigurazione frequente del disco solare e di uccelli d’acqua, che alludono ad anatre, aironi, cigni, ritenuti intermediari tra la terra e gli spazi celesti.
Una trasmigrazione di cui poco si sapeva, ma che sembra avere previsto un percorso di terra ed uno su acque marine o meno frequentemente fluviali. Il pericoloso viaggio poteva essere affrontato a piedi, a cavallo, su un carro con tiri a due o a quattro animali, su una biga, su una quadriga (in alcuni casi trionfale), in nave o essendo trasportati da esseri favolosi come gli ippocampi. Nelle raffigurazioni giunte sino a noi, animali reali e fantastici sembrano segnalare la difficoltà della strada da percorrere, mentre alcuni demoni svolgono la funzione di accompagnatori.
La documentazione archeologica offre anche un’idea di come fosse immaginato il soggiorno nell’aldilà: una simbiosi piena con la natura, alla quale allude bene la decorazione della tomba tarquiniese della Caccia e Pesca; una ricomposizione dell’unità familiare aperta agli antenati; una vita armoniosa e senza privazioni come traspare dalla serie infinita di simposi e banchetti raffigurati – nel caso delle tombe di- pinte – prima nei frontoni e poi sulle pareti di fondo della camera principale, accompagnati spesso da scene di danza e di giochi proposte sulle pareti laterali.
Vediamo, comunque, il percorso più da vicino partendo da Bologna: vi figurano gli affreschi, distaccati al momento della scoperta, della tomba tarquiniese della Nave incentrati proprio sul viaggio per mare del defunto; tre stele funerarie – una di rinvenimento recente ed esposta per la prima volta al pubblico – testimonianza diretta dell’ideologia funeraria degli Etruschi di Bolouna gna; una serie di vasi provenienti dal Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia tra cui un cratere a calice attico a figure rosse realizzato da Eufronio; due notevoli sculture in pietra da Vulci e Cerveteri. Infine si può vedere una video installazione realizzata appositamente con tecnologie all’avanguardia sul Sarcofago degli Sposi, vale a dire uno dei capolavori assoluti dell’arte etrusca. Della stessa opera è stata eseguita una copia esposta sempre in mostra, realizzata dalla Italdesign Giugiaro. A Roma, sono proposti altri due eccezionali vasi di Eufronio, una stele funeraria proveniente da Bologna e la ricostruzione virtuale della celebre Situla della Certosa. Nel museo romano, inoltre, viene proiettata la nuova versione del film di animazione realizzato dal Cineca con la regia di Giosuè Boetto Cohen. Nell’originale che da due anni è presentato a Bologna, Lucio Dalla dà la voce all’etrusco del nord Apa. Al cantautore scomparso ora si aggiunge Sabrina Ferilli, che “interpreta” l’etrusca del sud Ati.

Maurizio Bettini, Arte e banchetti nel culto degli antenati. I rituali per l’oltretomba erano contenuti nei preziosi e perduti Libri Acheruntici

SECONDO gli autori romani gli Etruschi possedevano certi Libri Acheruntici, ossia libri che avevano per oggetto l’oltretomba. Possiamo immaginare che essi contenessero in particolare i rituali che venivano praticati al momento della sepoltura e le credenze o le rappresentazioni che riguardavano il mondo di là. Purtroppo di questi preziosi libri ci sono pervenuti solo piccoli frammenti, citati da autori che, oltre tutto, li inserivano in un contesto filosofico, o teologico, che di certo non era più il loro.
Uno di questi frammenti, però, in particolare colpisce. In questi libri si sarebbe detto che gli Etruschi praticavano sacrifici animali capaci di trasformare in divinità gli spiriti dei defunti: questi avevano il nome di dii animales, dèi animali, e sarebbero stati in qualche modo simili ai Penati dei Romani, le divinità tutelari della famiglia. Ma a parte queste testimonianze, tanto suggestive quanto scarse, sono soprattutto le rappresentazioni figurate, quelle che ci vengono dalle tombe o dai sarcofagi dell’Etruria, a darci un’idea di come questo popolo immaginò il mondo di là. Nelle raffigurazioni che rimandano al periodo classico e a quello ellenistico, ossia posteriori al VI — V secolo a. c., l’elemento certo più caratterizzante è costituito dalla presenza di una porta. Nel sarcofago di Hasti Afunei, proveniente da Chiusi, un démone femminile di cui ci viene detto anche il nome, Culsu, è rappresentato nell’atto di uscire da tale porta: sembra essere lei ad avere l’incarico di aprirla e chiuderla, e di vegliare sul passaggio. Un altro démone femminile, Vanth, attende invece al di là di essa. Sul lato opposto un terzo démone femminile spinge la defunta, Hasti Afunei, verso il passaggio, mentre fra lei e la fatidica porta stanno numerosi personaggi. Osservando questa raffigurazione possiamo concludere che, nelle credenze degli Etruschi, il mondo dei morti era separato da quello dei vivi, ma ad esso congiunto attraverso un passaggio, vegliato da démoni. Un’altra cosa che immediatamente colpisce, nella rappresentazione del sarcofago di Hasti Afunei, è la presenza di un corteo funebre che accompagna la defunta verso la porta degli Inferi. Esso può forse richiamare la pompa funebris della tradizione romana, il corteo che si svolgeva in occasione del funerale: ma c’è almeno una differenza importante. Nella processione rappresentata sul sarcofago di Hasti Afunei, infatti, ai vivi che vi partecipano si mescolano démoni infernali, lo spazio in cui si muove il corteo è immaginato come contemporaneamente umano e oltremondano. Ma che cosa attende il defunto dall’altra parte di quell’ingresso? Un démone femminile, nel caso di Hasti Afunei, ma possiamo immaginare che di là stessero altri defunti: ossia i personaggi che, in numerose rappresentazioni, sono raffigurati a banchetto assieme ad altri démoni. È questa, forse, l’istantanea più celebre, e più conosciuta, della morte etrusca: il banchetto, l’aldilà come un luogo di allegria e godimento. Ad attendere il defunto ci sono i membri della sua famiglia, del suo gruppo sociale, già raccolti al simposio, mentre il nuovo arrivato li raggiunge per unirsi a loro. Altre rappresentazioni figurate mettono poi in evidenza forme differenti del cruciale passaggio, che comunque però prevedono uno spostamento del defunto, un viaggio verso il mondo che lo attende. Esso può essere di tipo marino, segnalato dalla presenza di mostri o di onde; altre volte si tratta invece di un cammino più complesso, che il defunto sembra compiere prima a cavallo poi raccolto da un mostro marino, che lo attende. Un viaggio non scevro di pericoli, peraltro, come indica la presenza del démone Tuchulcha, volto a becco d’uccello e serpenti che da lui si snodano. Nel tempo di questo trasferimento verso il mondo di là, possiamo supporre, i parenti del morto compivano sacrifici per propiziargli un felice viaggio. E forse per garantirgli lo stato di deus animalis, come spiegavano i Libri Acheruntici.

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Gli Etruschi in mostra a Bologna

Eva Cantarella, Gli spiriti di un popolo. Etruschi, la vita «normale» dell’aldilà e sui diritti civili arrivarono per primi, “Corriere della Sera“, 23 ottobre 2014

La parola che un tempo tornava più spesso quando si parlava della civiltà etrusca era «misteriosa». A contribuire a questa fama stava, in primo luogo, il problema delle sue origini: chi era, da dove veniva quel popolo stanziato nel II millennio a.C. nell’attuale Toscana? Per Erodoto si trattava di genti venute dall’Asia minore, mentre secondo Dionigi di Alicarnasso erano una popolazione indigena. 
Ma la dottrina moderna ha risolto il mistero: la civiltà etrusca (la cui la lingua, registrata in una scrittura simile al greco, è da tempo decifrata) nacque dalla fusione tra correnti migratorie anatoliche e popolazioni indigene prelatine. A livello popolare, poi, torna spesso l’idea, alimentata dalla gran quantità dei monumenti sepolcrali lasciati dagli etruschi, di un misterioso rapporto di questi con la morte. 
Ma la spiegazione di questa abbondanza è semplice: le tombe erano costruire con materiali più nobili e dunque meno deperibili di quelli usati per le case di abitazione, che quindi sono andate perdute. Quella che può sembrare una singolare attrazione per l’aldilà (popolato di demoni non diversamente da quello dei greci e dei romani) è solo la conseguenza del modo in cui gli etruschi concepivano la vita oltre la morte: per loro, infatti, era una vita assolutamente identica a quella terrena, con la sola differenza che era eterna. Nelle tombe dunque nulla di quello che il defunto aveva avuto e di cui aveva avuto bisogno in vita doveva mancare: dalle suppellettili agli oggetti di uso quotidiano, dagli abiti ai segni del potere. Insomma, l’ideologia funeraria degli etruschi era tutt’altro che inquietante. In definitiva, non è il mistero quello su cui val la pena riflettere, ma qualcosa di più importante: è il problema dei possibili influssi della loro cultura su quella della vicina Roma — sulla quale, sul finire dell’età regia dominarono ben tre re etruschi. 
Cominciamo, dal campo del diritto criminale: un’antichissima legge voleva che il colpevole di perduellio (alto tradimento) venisse sospeso con una corda a un arbor infelix (albero infelice) e fustigato a morte. Ebbene, al di là del fatto che la distinzione tra alberi felici e infelici (di buono e di cattivo auspicio), era etrusca, come scrive Cicerone questa legge venne introdotta dal re etrusco Tarquinio il Superbo. Passiamo alle pratiche sociali: anche i giochi gladiatori erano stati importati dall’Etruria, dove venivano praticati durante i funerali in onore del defunto. Ma quel che più interessa è vedere se e come la cultura etrusca agì sulle strutture fondamentali della civitas romana e in particolare sulla famiglia, che i romani consideravano il fondamento della stabilità dello Stato. Per ragionare su questo tema, bisogna ricordare che originariamente, sia in Grecia sia a Roma, le donne erano totalmente subordinate ai maschi della famiglia, e che in Grecia la situazione rimase praticamente immutata fino all’età ellenistica. A Roma, invece, verso la fine della repubblica, le donne nel campo del diritto privato avevano raggiunto una quasi totale parificazione con i diritti maschili. È lecito pensare che alla base di questo fenomeno stia l’influsso del mondo etrusco, dove le donne godevano di ben altra libertà e ben altri diritti? 
Sia ben chiaro. Non si intende, con questo, riesumare la teoria da tempo ampiamente superata del cosiddetto matriarcato etrusco, né quella, indimostrata, che parla della sua matrilinearità (trasmissione del nome e del patrimonio in linea femminile). Ma questo non toglie che le donne etrusche, a differenza di quelle romane, fossero parte attiva della vita sociale: ad esempio, partecipavano ai banchetti stando sdraiate e non sedute, come le romane, che tra l’altro erano ammesse solo alla prima parte della cena, quando non si beveva vino. 
Erano «coltivate», godevano di autonomia patrimoniale; disponevano liberamente dei loro beni. È possibile che il progressivo riconoscimento di diritti alle romane (in particolare, quello di ereditare il patrimonio paterno insieme e al pari dei fratelli, cosa mai concessa alle ateniesi) fu conseguenza dell’influsso etrusco? Difficile provarlo ma l’ipotesi è più che plausibile. A ben vedere, gli etruschi ci sono molto meno estranei di quanto siamo soliti pensare. 

etruschi
Andrea Rinaldi, Vasi, sculture e ologrammi. Come si ricostruisce la storia
Accanto ai reperti, il sarcofago degli Sposi virtuale

Come negli scritti di Tito Livio, dove Felsina, l’antico nome di Bologna, si era guadagnata il rango di insediamento più importante tra i 12 che costituivano la confederazione etrusca della pianura Padana. Come allora, il capoluogo emiliano torna al centro dell’Etruria del Nord Italia con una mostra che, nei temi e nell’allestimento vuol segnare uno spartiacque nel tradizionale racconto del passato. 
Fino al 22 febbraio, infatti, Palazzo Pepoli-Museo della Storia di Bologna sarà il teatro di Il viaggio oltre la vita. Gli etruschi e l’aldilà tra capolavori e realtà virtuale , un allestimento dove i reperti, alcuni dei quali provenienti dal museo di Villa Giulia di Roma, dialogheranno con musica, design e soluzioni di avanzata tecnologia. «Abbiamo sempre ritenuto che il multimediale fosse importante per integrare quello che viene fatto con le parole e le immagini, cioè per sposarsi con il tradizionale, con il libro, con la lettura, anche se non può essere esclusivo», argomenta Fabio Roversi Monaco, presidente di Genus Bononiae, il circuito dei musei a cui fa capo Palazzo Pepoli. 
Realizzata da Genus Bononiae, Fondazione Carisbo e Museo Villa Giulia, l’esposizione presenterà reperti per la prima volta fuori dal museo romano come alcune ceramiche figurate, due sculture in pietra da Vulci e Cerveteri, vasi attici da tombe etrusche come il Cratere di Euphronios, trafugato e poi restituito all’Italia dagli Stati Uniti e la trasposizione della Tomba della Nave di Tarquinia, le cui pareti sono state rimontate su pannelli così da ricreare nelle sale del Palazzo l’ambiente sepolcrale viterbese. Ci saranno anche tre stele felsinee figurate, due di più antico rinvenimento e una di più recente scoperta, tutte e tre importantissime per la ricostruzione dell’immaginario funerario della città e per la rappresentazione del viaggio del defunto verso l’aldilà. Ma c’è un’altra ricostruzione, questa virtuale. È l’installazione, firmata dal regista Giosuè Boetto Cohen e realizzata dal Cineca, che riproduce il famoso Sarcofago degli Sposi, simbolo della civiltà etrusca e di cui esistono solo due esemplari, uno appunto a Villa Giulia e uno al Louvre. Nella Sala della Cultura di Palazzo Pepoli, dove si potrà assistere allo spettacolo a gruppi di 30 persone, 21 proiettori illustreranno la storia degli antichi villanoviani su tre pareti, giocando quindi su uno schermo di 38 metri per 12, mentre in una teca al centro comparirà l’ologramma del Sarcofago a grandezza naturale e in ogni suo dettaglio. Lo spettacolo è in 4 atti e dura 11 minuti, scandito dalle musiche di Marco Robino, già al lavoro con Peter Greenaway, e di un quintetto d’archi (il musicista suonerà oggi all’inaugurazione). «Tutti i musei hanno il problema di comunicare con un pubblico oggi che non parla più la loro lingua colta. Chi vuole consegnare qualcosa deve farlo con mezzi nuovi. Ecco la nostra sfida», osserva Boetto Cohen a proposito di questa narrazione innovativa. 
Tant’è che oltre al progetto del Sarcofago, il regista ha curato anche un film per illustrare il legame tra Etruria del Sud e quella del Nord. Boetto Cohen già nel 2011, per conto di Genus Bononiae, aveva realizzato un corto 3d sulla Bologna villanoviana, in cui a dar voce al piccolo etrusco Apa era stato Lucio Dalla. Adesso invece il testimone passa a Sabrina Ferilli, che farà parlare una donna etrusca in «Ati alla scoperta di Veio». Il corto verrà proiettato all’interno della mostra e rimarrà nella collezione permanente di Villa Giulia. 


Mariangela Cerrino, E Lariza riaccolse Xestes sulla tomba. «Così staremo per sempre insieme»

Il sole era al tramonto, e la facciata del Tempio della Dea Uni ne assorbiva lo splendore. Non era mai stato tanto magnifico. Il suo riflesso si stemperava nella vasca colma di acqua purificatrice, appena al di fuori del recinto interno, ma era distorto dal vento che ne increspava la superficie, e i colori erano confusi. Xestes evitò di soffermarsi sulle immagini mutevoli che si creavano: potevano portargli presagi infausti. 
Xestes si voltò, perplesso, a guardarlo. Pyrgi, la bella città-porto di Xaire, era traboccante di vita, di suoni, di marinai e di mercanti indaffarati. Lui riusciva a distinguere le vele ripiegate delle holkades alla fonda, cullate dalle onde, ma le banchine gli apparivano deserte, e il ricco quartiere appena oltre giaceva nell’oscurità. Perché i servi tardavano ad accendere i lumi? Perché le innumerevoli locande non avevano dinanzi alle soglie le torce e i bracieri accesi? Eppure c’era una musica… un suonatore di doppio flauto, nascosto, era così abile che la melodia si espandeva in ogni dove. Tuttavia era inconsueta e toccando toni ora acuti ora gravi si ripeteva, sempre uguale, trascinando la mente in una sorta d’incantamento. 
Xestes rabbrividì. Perché era lì, sul finire del giorno? Lui era di Tarchna e Pyrgi non era la sua città, così come non lo era Xaire. La sua famiglia era imparentata con i Tarquini e lui ricopriva una carica importante. Ma provava un senso di smarrimento, pensandoci. Qual era la sua funzione nella sua città? Non riusciva a ricordarlo. Tutto quello che sapeva era che aveva compiuto le sue dieci settimane di sette anni ciascuna e che, come insegnava la Disciplina di Tagete, il legame con gli Dei creato al momento della sua nascita si era dissolto. Forse per questo gli era così difficile ricordare? 
Poi la vide. Forse era uscita dal Tempio, di certo non gli era passata accanto. Sostava immobile sul lato opposto della vasca e l’ultimo bagliore del sole la coronava di luce. Il chiton leggero brillava come se fosse cosparso d’oro. I capelli scuri erano raccolti in due trecce pesanti a ogni lato del viso, ma sulle spalle erano liberi. Quanto aveva amato quei capelli! 
Gli sembrò che il cuore mancasse un battito e che, di rimando, l’intero universo restasse immobile. «Lariza?» mormorò. Lei gli sorrise, muovendosi per raggiungerlo. Gli sembrò più giovane dell’immagine che aveva nella mente. Ma poi la donna gli arrivò accanto, e intrecciò le mani alle sue. «Ti ho atteso, come mi avevi chiesto di fare», disse, e Xestes la attirò contro di sé, e sentì il suo calore avvolgerlo, e la felicità colmarlo. «Te l’ho chiesto? Quando?» «Quando hai voluto i nostri corpi modellati per la nostra tomba. Ricordi quello che hai detto? Niente potrà dividerci. Saremo insieme per l’eternità, e quello che andrà per primo aspetterà nel giorno senza tempo che l’altro lo raggiunga». Xestes ora ricordava. Avevano persino riso quando l’artista (fatto venire da Tarchna!) aveva infine mostrato loro l’opera compiuta. 
«Questi sposi non ci somigliano poi così tanto…», era stato il suo commento d’allora. Ma poi aveva compreso. Non era solo argilla. Avevano voluto trattenere uno dei loro tanti momenti felici e un frammento della loro essenza si era amalgamato alla materia, e vi sarebbe rimasto infuso, fino alla fine del Tempo del Mondo. 
Lariza sorrise, prendendolo per mano. «Ricordi il giorno delle nostre nozze? Abbiamo chiesto alla Dea Uni di custodire il nostro amore come un tesoro prezioso. Proprio qui». Xestes annuì. Era stato il giorno più bello della sua vita! Ricordava che per lei aveva scelto di lasciare la sua città, e di rinunciare agli onori dovuti alla sua famiglia, accettando l’incarico più modesto di zilath a Xaire. «Sei pentito di quella scelta?» sussurrò Lariza, con un sorriso. «Di aver passato la mia esistenza con te a Xaire? Non me ne sono mai pentito e non me ne pento ora». Le passò un braccio intorno alla vita; scesero fino alla battigia e sedettero sulla sabbia. «Così, siamo finalmente insieme nel giorno senza tempo», comprese Xestes. «Sono morto». Lariza gli poggiò la testa sulla spalla. L’onda lieve lambiva loro i piedi e il cielo si era chiuso in una sfera brillante di stelle. «I nostri figli hanno appena deposto le tue ceneri unendole alle mie, nel sarcofago», sussurrò la donna. «Ora siamo sposi nell’eternità». 

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23 ottobre 42 a.C.: la battaglia di Filippi

Questo il ricordo del poeta Orazio, che, poco più che ventenne,  partecipò alla battaglia di Filippi come tribunus militum nello schieramento repubblicano. Si salvò grazie ad una celerem fugam, abbandonando lo scudo:

Carmina, II, 7

O saepe mecum tempus in ultimum
deducte Bruto militiae duce,
     quis te redonauit Quiritem
     dis patriis Italoque caelo,

Pompei, meorum prime sodalium,               5
cum quo morantem saepe diem mero
     fregi, coronatus nitentis
     malobathro Syrio capillos?

Tecum Philippos et celerem fugam
sensi relicta non bene parmula,               10
     cum fracta uirtus et minaces
     turpe solum tetigere mento;

sed me per hostis Mercurius celer
denso pauentem sustulit aere,
     te rursus in bellum resorbens               15
     unda fretis tulit aestuosis.

Ergo obligatam redde Ioui dapem
longaque fessum militia latus
     depone sub lauru mea, nec
     parce cadis tibi destinatis.               20

Obliuioso leuia Massico
ciboria exple, funde capacibus
     unguenta de conchis. Quis udo
     deproperare apio coronas

curatue myrto? Quem Venus arbitrum               25
dicet bibendi? Non ego sanius
     bacchabor Edonis: recepto
     dulce mihi furere est amico.

Pompeo, tu che spesso con me ti sei spinto, sotto il comando di Bruto, agli estremi pericoli, chi ti ha restituito,  cittadino, agli dei della patria, al bel cielo d’Italia –  Pompeo, tu il primo fra tutti i miei amici? Insieme a te ho spesso spezzato il giorno Che indugiava, bevendo, coi capelli lucidi d’unguento siriaco, e inghirlandati. Insieme a te ho vissuto Filippi e la rapida  fuga, lo scudo lasciato ingloriosamente, quando la virtù fu spezzata e uomini alteri toccarono con il mento il suolo abietto. Me mi rapì il veloce Mercurio nell’aria densa in mezzo ai nemici, atterrito; te ti riprese ancora in mezzo alla guerra, l’onda rifluendo nei gorghi impetuosi. Dunque offri a Giove il banchetto promesso: appoggia sotto il mio alloro il tuo fianco sfinito dalla lunga milizia, e non risparmiare il vino che ti è destinato. Riempi le coppe lucide del Massico che dà l’oblio versa dalle conchiglie capaci il profumo. Su, chi si occupa delle corone di umido apio, o di mirto? Chi Venere elegge arbitro del convito? Voglio impazzare più follemente dei Traci: mi è dolce folleggiare per l’amico che ho ritrovato.

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La tomba macedone di Anfipoli (9)

Ritrovata sotto un basamento di marmo, a 15 cm di profondità, la testa della Sfinge (h. 60 cm) posta sul lato est dell’ingresso al tumulo di Anfipoli-Kasta (FONTE  www.theamphipolistomb.com).

testa_sfinge_est

testa_sfinge_est_particolare

Per approfondimenti e per la più interessante proposta di ricostruzione virtuale segnalo  il blog di Panaiotis Kruklidis Il taccuino di Pan.

FONTE: Il taccuino di Pan

FONTE: Il taccuino di Pan

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Amazzoni

Sarcofago con scene di battaglia tra Amazzoni e Greci, II sec. d.C., Musei Capitolini

Sarcofago con scene di battaglia tra Amazzoni e Greci, II sec. d.C., Musei Capitolini

Tutte le (false) leggende sulle Amazzoni
Ma i pantaloni erano veri
Anna Meldolesi, “Corriere – La Lettura”, 19 ottobre 2014

Si fa presto a dire Amazzoni, in realtà ne esistono di almeno tre tipi. Quelle dei miti greci, con cui si sono scontrati i grandi eroi come Teseo ed Eracle. Poi ci sono quelle delle saghe asiatiche, dalla Persia alla Cina. Anche loro si battevano con valore, lasciando i nemici maschi in una pozza di sangue. Le Amazzoni del terzo tipo sono le donne guerriere delle steppe, che non appartengono al regno dell’immaginazione ma alla storia. L’archeologia ne ha dimostrato l’esistenza e per chi le vuole conoscere The Amazons di Adrienne Mayor è una lettura obbligata. Sono queste cavallerizze del I millennio a. C., armate di arco e spada, ad aver ispirato i personaggi e le gesta narrate da mitografi e storici antichi. E in definitiva sono sempre loro l’archetipo su cui si è modellata la cultura delle donne guerriere di film e fumetti. Dall’eroina protofemminista Wonder Woman alla marziale Uma Thurman di Kill Bill. Le Amazzoni del quarto tipo, insomma.
Le Amazzoni vere conducevano una vita nomade in un’ampia regione intorno al Mar Nero, popolata da molte tribù e chiamata Scizia. Le sepolture di guerriere qui si contano a centinaia, una donna scita ogni 3 o 4 risulta inumata con le proprie armi, spesso anche con il proprio cavallo. Le bambine venivano addestrate alla caccia e alla guerra come i loro fratelli, da grandi potevano decidere se sposarsi o continuare a combattere. 
Una tomba tipica è quella del IV secolo a. C. scoperta a Tira. Due lance conficcate nel terreno all’entrata, due all’interno di fianco allo scheletro. Sul cranio la lesione lasciata da un colpo d’ascia, nel ginocchio la punta di una freccia. Il corredo funebre comprendeva gioielli e uno specchio, ma anche una faretra con venti frecce. Si pensa che ne venissero scagliate fino a 15-20 al minuto e coprissero una distanza di 150-180 metri. La tecnica prevedeva che il cavallo corresse in avanti mentre la guerriera era rivolta all’indietro. Proprio frecce e cavalli consentivano alle donne di essere altrettanto veloci e letali dei soldati dell’altro sesso. Le Amazzoni storiche vivevano una condizione di parità inimmaginabile nella Grecia antica ma non odiavano gli uomini, non avevano scelto di vivere senza di loro, non costituivano una ginecocrazia. Non erano vergini né mantidi religiose, non schiavizzavano né mutilavano i maschi come ci siamo abituati a credere. Non è vero neppure che si privassero di un seno per tirare meglio con l’arco. 
Dal punto di vista della medicina e della tecnica sportiva non ha alcun senso, eppure questa credenza diffusa dagli storici antichi — con l’eccezione di Erodoto — resiste da 25 secoli. Deve aver fatto presa perché allude a qualche stranezza di tipo sessuale, è pulp, sembra dire che la femminilità è il prezzo da pagare per l’indipendenza. Agli Sciti maschi, però, se ci pensate, è andata anche peggio: cancellati dai miti con l’invenzione delle tribù unisex o raccontati come disabili e succubi. L’ipotesi che degli uomini sani accettassero di condividere con le donne il potere doveva sembrare inverosimile. 
La parola Amazzone ha un’etimologia dibattuta ma non significa «senza seno» come la vulgata vorrebbe. Omero ha usato l’espressione Amazones antianeirai. Un sostantivo senza desinenza femminile, a indicare un popolo composto da ambedue i sessi, accompagnato da un epiteto femminile a rimarcare l’eccezionalità delle sue donne (antianeirai non vuol dire «contro gli uomini» ma «uguali agli uomini»). 
È curioso che i Greci le raccontassero con un seno solo ma le dipingessero con entrambi, per non rinunciare alla bellezza di un corpo simmetrico. Comunque su vasi e fregi le raffiguravano più coperte degli eroi maschi, a cui la tradizione imponeva una nudità atletica. 
Di solito le Amazzoni fantasy dei tempi nostri, come Xena, esibiscono le forme strizzandole in corazze sagomate come corsetti. Quelle vere no. Si vestivano in modo colorato, con berretti a punta, tuniche a maniche lunghe (magari rinforzate con tante piccole placche metalliche) e un indumento inammissibile in Grecia: i pantaloni. Sulla pelle usavano tatuarsi animali veri e immaginari, bevevano latte di giumenta fermentato e si inebriavano con la cannabis, praticavano una religione animista e totemica. Esploratori e mercanti devono aver raccontato i loro costumi ai Greci, che ai fraintendimenti hanno aggiunto l’immaginazione. Il loro successo nell’arte e nella letteratura antica è dovuto a una miscela di sex appeal e brivido, come per gli odierni vampiri, ha scritto la storica Amanda Foreman sullo «Smithsonian Magazine». Ma c’è più di questo. Una scuola di pensiero sostiene che le Amazzoni facessero parte di un rituale di iniziazione per i ragazzi, mentre alle ragazze fornivano un modello negativo, da non seguire. Forse, ragiona Mayor, la loro ubiquità indica altro. L’idea della libertà delle donne era inconcepibile nella società ellenica, ma aveva già il suo fascino e una sua plausibilità se relegata in terre lontane.

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Anfipoli. L’ultimo segreto di Alessandro Magno

Viaggio alla scoperta dei misteri di un miracolo archeologico, tra fascinose cariatidi, sfingi acefale e mosaici mai visti
Gli studiosi si dividono, giornali e tv si scatenano, i turisti si accalcano, la domanda è una sola: davvero questo mausoleo del IV secolo era la tomba del grande macedone?
Pietro Del Re, “La Repubblica”,  16 ottobre 2014

AMPHIPOLIS. IL ronzio di un generatore è il solo indizio delle attività che fervono nelle viscere del tumulo Kastà, una collina argillosa tra i mandorleti dell’antica Amphipolis. A duecento metri dall’entrata degli scavi, ci ferma un poliziotto intirizzito dal vento gelido che scende dal vicino Monte Pangeo. L’ingresso al più grande monumento funebre mai rinvenuto in Grecia è ancora vietato ai più. Mezz’ora dopo, lo stesso cerbero in divisa bloccherà un ambasciatore che da Atene ha appena percorso 700 chilometri per visitare il ritrovamento archeologico, la tomba del Quarto secolo prima di Cristo che fa trepidare un intero Paese e che qualcuno sta già usando come antidoto patriottico contro le devastazioni della crisi economiche. Al momento, il solo non addetto ai lavori penetrato là sotto è stato il premier greco Antonis Samaras, che lo scorso agosto, con le scarpe ancora inzaccherate di fango, ha dichiarato che da questa straordinaria scoperta partirà il rinascimento della Grecia, «perché sono certo che qui sia sepolto un grande». In attesa che gli esperti riescano a svelare di chi sia la tomba di Amphipolis, l’intera Ellade è sospesa nel limbo delle illazioni, mentre i suoi abitanti trattengono il fiato per la prossima apertura della quarta stanza sotterranea, che è forse la camera funeraria. Ma può davvero esserci Alessandro il Grande, come tutti sperano? L’ipotesi è stata scartata da molti studiosi, ma non da tutti. Lo storico Sarantos Kargakos sostiene che Olimpiade, madre di Alessandro, fece segretamente trasferire il corpo di suo figlio ad Amphipolis: «L’imponenza del monumento è la prova che fosse dedicato a una delle più importanti personalità dell’epoca. E a quei tempi chi era più importante di Alessandro?». La teoria di Kargakos sembra confortata dal fatto che la collina non nasconda, come si credeva, molte tombe macedoni, bensì un unico grande mausoleo, di ciclopiche proporzioni: 498 metri di circonferenza, 87 di diametro, con al suo interno tre stanze finora esplorate che contengono due Cariatidi di grandiosa raffinatezza, due sfingi decapitate messe a guardia dell’ingresso e un ampio mosaico di cui si è venuti a sapere solo tre giorni fa.
Dallo scorso luglio, lo scavo è seguito con lo stesso entusiasmo di una storica finale calcistica, probabilmente anche come risposta psicologica alla grande crisi — ieri Atene si è di nuovo trascinata le Borse negli abissi — che ancora attanaglia il paese. Quindi la copertura mediatica è totale. «È diventato un reality show dell’archeologia, e tutti i greci aspettano con il batticuore la puntata successiva», dice Nikolaos Zirganos, cronista del quotidiano Ephimeride Syntakton, una cui recente inchiesta sul traffico illegale di reperti ha fatto sì che importanti musei americani restituissero alla Grecia i pezzi trafugati. «Ogni giorno i quotidiani dedicano almeno due pagine ad Amphipolis, e tutte le televisioni ci aprono i loro tiggì. È diventata un’ossessione. E c’è da chiedersi perché ciò avvenga solo per questa tomba, di cui ancora non si è certi al cento per cento che sia di epoca alessandrina, né se sia stata già trafugata o meno dai tombaroli, mentre ci sono oggi altri trecento scavi altrettanto importanti in Grecia».
Ovviamente una scoperta di un simile calibro offre materia a non finire per le polemiche. La figlia del grande archeologo Dimitri Lazaridis, che negli anni Sessanta scavò ad Amhipolis, ma che non ebbe la fortuna di rinvenire le camere con le sfingi e le cariatidi, ha scritto una lettera ai giornali per denunciare l’eccessivo battage che circonda il recente ritrovamento. Altri studiosi criticano invece il metodo «poco scientifico» che accompagna la divulgazione dei lavori in corso. Dice Yannis Karliambas, eminente membro dell’Associazione degli archeologi greci: «Non mi piace l’enfasi che circonda il tumulo Kastà, perché è puramente politica. Prima di svelare il contenuto di uno scavo è necessario attendere la fine dei lavori. Si deve poi valutare l’importanza dei pezzi ritrovati, pubblicare il tutto e aspettare le reazioni dei colleghi, per trarre finalmente le prime conclusioni». Qui avviene l’esatto contrario, con il ministero della Cultura, anzi la pagina Facebook di una giornalista di Salonicco assunta ad hoc dal ministro stesso, che quotidianamente ammannisce foto e commenti sulla tomba. Quando gli chiediamo se anche lui crede che Amphipolis possa ospitare Alessandro Magno, Karliambas dice: «Da archeologo, non voglio neanche rispondere a una domanda del genere. Ma se vuole il mio parere personale, le dirò che lo escludo categoricamente. Semmai può essere la tomba di un generale di Alessandro, o di un suo parente. Di certo non è la sua».
Ma sono solo sterili polemiche secondo lo scrittore ateniese Christos Ikonomou, che ha narrato la crisi greca in sedici racconti tradotti anche in italiano (Qualcosa capiterà, vedrai, Editori Riuniti). Sostiene Ikonomou: «È meraviglioso che un popolo oppresso da tanti mali ritrovi la luce ritornando al suo glorioso passato. C’è tanta fierezza nella riscoperta di questa nostra antica grandeur . La speculazione e la propaganda nazionalistica sul tumulo Kastà è purtroppo il rovescio della medaglia di questa vicenda. Ma anche se i politici cercano di distrarre i greci dai loro problemi sfruttando le scoperte di Amphipolis, non mi sento di condannarli perché i loro schiamazzi serviranno comunque a far ripartire il turismo e l’economia locali, oltre che a tenere alto il nome della Grecia nel mondo».


Intanto, a Mesolakkia, il paesino agricolo più vicino allo scavo, gli abitanti sognano l’arrivo di una nuova, insperata ricchezza. Molti di loro sono già stati contattati da agenzie immobiliari che con folgorante tempismo intendono acquistare terre in loco per potervi costruire alberghi o ristoranti il giorno che la tomba verrà finalmente aperta al pubblico. All’unico bar del villaggio, incontriamo Stelos Zurnagis, agricoltore «ma non per molto tempo ancora», fermamente convinto che quella tomba sia di Alessandro. Dice Zurnagis, sfregandosi le mani: «Anche se gli archeologi ancora non si pronunciano, e anche se lo scavo è chiuso al pubblico, nei weekend già arrivano migliaia di curiosi da tutto il pianeta. Deve spesso intervenire l’esercito per tenerli alla larga dal tumulo Kastà». Come a dire che per lui e per gli altri contadini di Mesolakkia la quarta stanza del mausoleo, o la quinta e la sesta se dovessero esserci, sono già piene d’oro.

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Paolo Matthiae, La suggestione di Amphipolis, la terra dei sepolcri dei re

IL FASCINO avvincente della scoperta archeologica dipende dalla combinazione dell’attrazione derivante dalla concretezza materiale del ritrovamento e della suggestione imposta dal recupero della memoria del passato. Quel fascino è potenziato quando l’oggetto della scoperta è una tomba, è moltiplicato quando la tomba è di un personaggio regale, è al culmine se il titolare della tomba è un protagonista della storia. Di qualunque paese e di qualunque epoca.
La ricchezza, materiale o artistica, dei corredi e la grandiosità degli allestimenti funerari rendono queste scoperte leggendarie. La seconda metà del Novecento ha conosciuto almeno tre casi esemplari. Il rinvenimento, accidentale, in Cina nel 1974 di un settore della tomba di Qin Shi Huang, il primo imperatore della Cina, morto nel 210 a.C., presso Xi’an, con il suo spettacolare esercito di oltre 6.000 guerrieri di terracotta. La scoperta, tra il 1977 e il 1980, ad opera di Nicolis Andronicos, del grande tumulo di Vergina, non troppo lontano da Salonicco, dove si ritiene verosimile che sia stato sontuosamente sepolto Filippo II di Macedonia, il padre di Alessandro Magno, morto nel 336 a.C. Il ritrovamento in Perù nel 1987, da parte di Walter Alva della ricchissima tomba del cosiddetto Signore di Sipàn, un capo della cultura Moche, morto probabilmente nel III secolo d.C.
L’immaginario collettivo è stato sempre fortemente sollecitato, ieri come oggi, dalla speranza di trovare le tombe dei grandi uomini del passato. Nel Medioevo si sognava di trovare la tomba di Re Artù e nel 1191 i monaci di Glastonbury ritennero che la sepoltura di due personaggi di grande statura non poteva che essere quella del “famoso re Arturo, con Ginevra sua seconda moglie, nell’isola di Avalon”. Ancora oggi, le complesse ricerche archeologiche ad Alessandria non sono estranee all’idea di trovare tracce della celebre tomba del grande macedone, in cui fu sepolto dopo la traslazione del corpo da Babilonia dove finì i suoi giorni e il mistero della sepoltura di Gengis Khan, morto nel 1227, è una delle suggestioni che promuovono ricerche archeologiche in Mongolia.
Finora senza troppo scalpore malgrado diverse dichiarazioni ufficiali anche delle massime autorità della Grecia, l’antica colonia attica di Amphipolis in Macedonia è stata ripetutamente ricordata nelle cronache degli ultimi anni, da quando nel 2012 fu annunciato l’inizio degli scavi di un gigantesco tumulo funerario della fine del IV secolo a.C., lungo poco meno di 500 metri, circondato da un muro perimetrale alto ancora quasi 3 metri costruito in marmo di Thassos. La tomba di Amphipolis è il più monumentale sepolcro finora scoperto in Grecia ed è circa dieci volte più grande della tomba di Vergina attribuita a Filippo II.
Che la tomba di Amphipolis sia stata costruita per un personaggio regale è fuor di dubbio. Due sfingi alate oggi acefale vigilavano all’entrata. Una gigantesca statua leonina, oggi sistemata a qualche distanza dalla tomba, doveva essere, secondo Katerina Peristeri, responsabile dello scavo, il coronamento del monumento funerario. Uno splendido mosaico con la raffigurazione di Ermes che con il suo carro conduce nell’Ade il corpo dell’inumato, appena scoperto in uno dei primi vani della tomba ha un soggetto particolarmente appropriato: Ermes introduce nell’Oltretomba le anime dei defunti e sul celebre Cratere di Eufronio Ermes è rappresentato mentre assiste al trasporto del corpo di un eroe troiano nell’Aldilà.
La tomba fu certo saccheggiata in età romana e il mistero su chi vi fu sepolto o per chi fu costruita non è certo che sarà risolto alla fine della sua esplorazione. L’ipotesi più verosimile è che sia stata costruita, forse addirittura ad opera di Dinocrate un grande architetto amico di Alessandro, per uno dei diadochi o uno dei grandi generali del conquistatore macedone.
Ma come escludere che la spettacolare tomba non fosse proprio destinata ad Alessandro, dato che le fonti antiche ricordano che le spoglie del signore dell’Asia dovevano raggiungere la Macedonia per essere sepolte nella patria del gran re e che furono invece inopinatamente sottratte da inviati del fedelissimo Tolomeo per tumularle ad Alessandria? E, se questa ipotesi di eccezionale suggestione fosse fondata, chi mai avrà osato disporre di essere sepolto nel monumento funerario destinato al divino Alessandro?

P. Matthiae è archeologo, scrittore e orientalista, ed è stato direttore della spedizione italiana ad Ebla. Il suo ultimo libro è La città del Trono, Einaudi)

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La tomba macedone di Anfipoli (8)

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… ed ecco Persefone. L’intero mosaico è stato portato alla luce ed oggi il Ministero della Cultura greco ha diffuso le immagini complete del pavimento musivo della seconda stanza della tomba di Anfipoli.  La scena rappresenta il rapimento di Persefone (rossi capelli al vento e tunica bianca) da parte di Plutone, dio dell’Ade, alla guida del carro trainato da due cavalli bianchi.

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Lo sguardo di Persefone è volto all’indietro, al luogo dal quale è stata rapita “mentre giocava con le figlie di Oceano / dal florido seno, e coglieva fiori: / le rose, il croco e le belle viole, su molle prato; /coglieva le iridi e il giacinto, e anche il narciso” (Inno a Demetra).

Plutone, “il figlio di Crono, con le cavalle immortali”, è proteso in avanti, nella corsa verso il suo regno notturno:
“Afferrata la dea, sul suo carro d’oro, riluttante e in lacrime,
la condusse via; la fanciulla gettò alte grida,
invocando il padre Cronide, sovrano possente.
Ma nessuno degli immortali o degli uomini
mortali udì la sua voce, e neppure gli ulivi di frutti splendenti.
[…]
Intanto, con il volere di Zeus, rapiva la dea riluttante
il Cronide dai molti nomi, fratello del padre, che è signore
di molti uomini e molti ne accoglie, con le cavalle immortali”.

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Hermes contempla noi, gli spettatori della rinascita di Persefone e dei suoi miti ctonii e misterici, legati alla madre Demetra e ad Eleusi. Fu Hermes a ricondurre Persefone alla madre, adirata con gli altri dèi, alla vita – almeno temporanea – sulla terra:

“O Ade dalle cupe chiome, che regni sui morti, Zeus, il padre, mi ordina di condurre fuori dell’Erebo, fra gli dei, l’augusta Persefone, affinché la madre rivedendola coi suoi occhi ponga fine al rancore e all’ira inesorabile contro gli immortali; poiché medita un grave progetto: sterminare la debole stirpe degli uomini nati sulla terra tenendo il seme celato sotto la zolla e distruggendo le offerte che spettano agli immortali. Tremendo è il suo rancore; e non si unisce agli dei, ma, in disparte, entro il tempio odoroso d’ incenso siede, e abita l’aspra rocca di Eleusi.”

Le citazioni sono tratte dall’Inno a Demetra, che fa parte dei cosiddetti Inni omerici (VII sec. a.c.)

Verghina, Ratto di Persefone, affresco della cosidetta “Tomba di Persefone”

Verghina, Ratto di Persefone, affresco della cosidetta “Tomba di Persefone”

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I luoghi di Alessandro (1)

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Da Malala Yousafzai [premio Nobel per la Pace 2014] with Christina Lamb, I AM MALALA. The Girl Who Stood Up for Education and was Shot by the Taliban, Weidenfeld & Nicolson, London, 2013

I liked to sit on the roof and watch the mountains and dream. The highest mountain of all is the pyramid-shaped Mount Elum. To us it’s a sacred mountain and so high that it always wears a necklace of fleecy clouds. Even in summer it’s frosted with snow. At school we learned that in 327 BC, even before the Buddhists came to Swat, Alexander the Great swept into the valley with thousands of elephants and soldiers on his way from Afghanistan to the Indus. The Swati people fled up the mountain, believing they would be protected by their gods because it was so high. But Alexander was a determined and patient leader. He built a wooden ramp from which his catapults and arrows could reach the top of the mountain. Then he climbed up so he could catch hold of the star of Jupiter as a symbol of his power.
From the rooftop I watched the mountains change with the seasons. In the autumn chill winds would come. In the winter everything was white snow, long icicles hanging from the roof like daggers, which we loved to snap off. We raced around, building snowmen and snow bears and trying to catch snowflakes. Spring was when Swat was at its greenest. Eucalyptus blossom blew into the house, coating everything white, and the wind carried the pungent smell of the rice fields. I was born in summer, which was perhaps why it was my favourite time of year, even though in Mingora summer was hot and dry and the stream stank where people dumped their garbage.

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Near us on our street there was a family with a girl my age called Safina and two boys similar in age to my brothers, Babar and Basit. We all played cricket on the street or rooftops together, but I knew as we got older the girls would be expected to stay inside. We’d be expected to cook and serve our brothers and fathers. While boys and men could roam freely about town, my mother and I could not go out without a male relative to accompany us, even if it was a five-year-old boy! This was the tradition.
I had decided very early I would not be like that. My father always said, ‘Malala will be free as a bird.’ I dreamed of going to the top of Mount Elum like Alexander the Great to touch Jupiter and even beyond the valley. But, as I watched my brothers running across the roof, flying their kites and skilfully flicking the strings back and forth to cut each other’s down, I wondered how free a daughter could ever be.
LEAVING THE VALLEY was harder than anything I had done before. I remembered the tapa my grandmother used to recite: ‘No Pashtun leaves his land of his own sweet will. Either he leaves from poverty or he leaves for love.’ Now we were being driven out for a third reason the tapa writer had never imagined – the Taliban.
Leaving our home felt like having my heart ripped out. I stood on our roof looking at the mountains, the snow-topped Mount Elum where Alexander the Great had reached up and touched Jupiter. I looked at the trees all coming into leaf. The fruit of our apricot tree might be eaten by someone else this year. Everything was silent, pin-drop silent. There was no sound from the river or the wind; even the birds were not chirping.

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La tomba macedone di Anfipoli (7)

Dopo le sfingi, dopo le cariatidi, è la volta di uno spettacolare mosaico (4,5 x 3 le dimensioni), venuto alla luce nella seconda camera della tomba di Anfipoli-Kasta. Sicuramente riconoscibile la figura di Hermes psicopompo. Diverse, ma tutte ancora discusse, le ipotesi sulla figura maschile barbuta e incoronata di alloro alla guida del carro. E’ in corso la ricostruzione/restauro della parte mancante. Chi / che cosa apparirà? Alessandro Magno e la sua epoca ancora, sempre riescono a meravigliarci…

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Ricostruzione virtuale della seconda camera (fda Amfipolinews)

Ricostruzione virtuale della seconda camera (da Amfipolinews)

Amphipolis Tomb Mosaic (aggiornato da Greektoys.org)

Amphipolis Tomb Mosaic (aggiornato da Greektoys.org)

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