Segui Latinorum via Email
-
Articoli recenti
Tag
- Achille
- Alessandro Magno
- Anfipoli
- Antico presente
- Antropologia
- Arte
- Augusto
- Cesare
- Cicerone
- Cinema
- Classici
- Cleopatra
- Cristianesimo
- Didattica
- Dioniso
- Donne
- Enea
- Eneide
- Epica
- Grecia
- Guerra
- Iliade
- Imperatori
- Lingua latina
- Lingue classiche
- Miti
- mitologia
- Omero
- Ovidio
- Pericle
- Poesia contemporanea
- Pompei
- Religione romana
- Ricostruzioni virtuali
- Roma
- Seneca
- Simposio
- Storia militare
- Storia romana
- Strade di Roma
- Studio del latino
- Tradurre
- Traiano
- Ulisse
- Virgilio
Categorie
Archivi
- Luglio 2020
- Novembre 2019
- Ottobre 2019
- Agosto 2019
- Luglio 2019
- Giugno 2019
- Febbraio 2019
- Gennaio 2019
- Dicembre 2018
- Novembre 2018
- Ottobre 2018
- Settembre 2018
- Luglio 2018
- Giugno 2018
- Febbraio 2018
- Gennaio 2018
- Novembre 2017
- Ottobre 2017
- Settembre 2017
- Agosto 2017
- Luglio 2017
- Giugno 2017
- Gennaio 2017
- Dicembre 2016
- Novembre 2016
- Ottobre 2016
- Settembre 2016
- Luglio 2016
- Giugno 2016
- Maggio 2016
- Aprile 2016
- Marzo 2016
- Febbraio 2016
- Gennaio 2016
- Dicembre 2015
- Novembre 2015
- Ottobre 2015
- Settembre 2015
- Agosto 2015
- Luglio 2015
- Giugno 2015
- Maggio 2015
- Aprile 2015
- Marzo 2015
- Febbraio 2015
- Gennaio 2015
- Dicembre 2014
- Novembre 2014
- Ottobre 2014
- Settembre 2014
- Agosto 2014
- Luglio 2014
La tomba macedone di Anfipoli (6)
Pubblicato in Archeologia, Storia greca
Contrassegnato Alessandro Magno, Anfipoli, Ricostruzioni virtuali
Lascia un commento
Bruto minore
Tomaso Montanari, Morire per la libertà. Ma uccidere? Bruto e la domanda impossibile, “il Fatto Quotidiano“, 6 ottobre 2014
Michelangelo non voleva farli, i ritratti. Gli pareva che non fosse così importante ricordare per sempre la faccia di qualcuno: quando gli fecero notare che una sua statua non assomigliava al principe che avrebbe dovuto rappresentare, rispose: «A chi importerà tra mille anni?». Forse proprio per questo Michelangelo accettò invece di fare il ritratto di Bruto, un uomo vissuto quasi milleseicento anni prima. Bruto non è una figura facile, da amare: perché uccise il suo padre adottivo, Giulio Cesare, quando questi voleva uccidere la repubblica e farsi re. Per secoli ci si era chiesti: si può uccidere un tiranno? La libertà di tutti vale la vita del nemico di questa libertà? Il poeta che Michelangelo amava di più, Dante, aveva scritto che la libertà è così dolce che gli uomini sono disposti a morire pur di non perderla. A morire: ma anche ad uccidere?
Eppure Michelangelo volle scolpirlo, questo ritratto di Bruto. Perché ai suoi giorni il verso di Dante sulla libertà era scritto sulle bandiere verdi di chi combatteva per la libertà di Firenze, mortalmente minacciata da un nuovo Cesare: Cosimo I de’ Medici, insieme magnifico signore e terribile tiranno. Nel 1538 si uccise in prigione Filippo Strozzi, il capo della resistenza che combatteva contro Cosimo. Egli lasciò una lettera bellissima e terribile, bagnata dal suo stesso sangue. E in quella lettera Filippo chiamava Cosimo con il nome del tiranno ucciso da Bruto: «E te, Cesare, prego con ogni reverenza t’informi meglio dei modi della povera città di Firenze, riguardando altrimenti al bene di quella, se già il fine tuo non è di rovinarla». Michelangelo, che pure era cresciuto in casa Medici, la pensava come Filippo Strozzi: amava la libertà e la Repubblica, e quando toccò a lui la difese sul serio, lavorando a rafforzare le mura di Firenze. E quando, infine, fu chiaro che la partita era persa per sempre, non volle rimetter più piede nella sua Firenze ridotta in schiavitù.
Non aveva un carattere facile, Michelangelo. E anche il suo Bruto è difficile: con il suo collo taurino, lo sguardo duro, i capelli irrisolti come il nostro giudizio su di lui e sul suo gesto terribile. Non ci guarda negli occhi, Bruto: e di questo gli siamo grati. Così come siamo grati di essere nati in una delle rare epoche della storia umana in cui la libertà dobbiamo difenderla non con la forza del pugnale, ma con quella delle parole e delle idee. Le idee di Bruto: che saranno vive in questo marmo anche tra mille anni.
PER APPROFONDIRE:
“…e l’aura il nome e la memoria accoglia…”: G. Leopardi, Bruto minore, 1821
Antiche lezioni di tolleranza
Greci e Romani non hanno mai fatto una guerra per affermare la propria religione su un’altra. È quello che ci suggerisce nel suo libro Maurizio Bettini
Roberto Escobar
“Il Sole 24 Ore – Domenica”, 5 ottobre 2014
I Greci e i Romani non hanno mai fatto una guerra per affermare la propria religione su un’altra. La circostanza è sotto i nostri occhi, ma non la vediamo. È bene stupirsene, sia della circostanza, sia del fatto che non la vediamo. Questo ci ricorda e ci suggerisce Maurizio Bettini in un libro dal titolo trasparente: Elogio del politeismo. Quello che possiamo imparare oggi dalle religioni antiche.
Per quanto la nostra cultura affondi le radici in quella classica, a noi mancano parole che ne indichino direttamente la religione. La chiamiamo idolatria o paganesimo, termini coniati dal cristianesimo vincente. Mai gli antichi li avrebbero usati. E neppure avrebbero usato politeismo o politeistico, che hanno senso solo in una prospettiva monoteistica. Per i Greci e i Romani era ovvio che gli dèi fossero plurali, e non c’era alcun bisogno di ribadirlo con un sostantivo o un aggettivo.
D’altra parte, l’intento di Bettini non è solo liberare la religione classica dal peso fuorviante e spregiativo del lessico cristiano. Il suo intento è anche e soprattutto indicare nella sua visione del mondo, nel suo vivere e procedere un concreto valore d’esperienza, una capacità di far fronte a problemi e a conflitti sociali e politici più e meglio del monoteismo.
Centrale in questa prospettiva è la nozione di tolleranza. Nata dalle guerre di religione che hanno coperto di sangue l’Europa, nella tolleranza c’è comunque l’impronta dell’intolleranza. Essere tolleranti significa astenersi dall’azione violenta nei confronti dell’altro e della sua fede, ma sempre considerando questa un errore e quello un peccatore.
Al di fuori del proprio dio, e anzi al di fuori del proprio modo di intendere quel dio, per il tollerante non c’è verità. La fede e la verità si identificano, per lui come per l’intollerante. I due abitano uno spazio religioso e umano comune: il primo astenendosi con prudenza dal trarne conseguenze più o meno violente, il secondo pronto a farlo anche con passione omicida.
Non erano tolleranti, i Greci e i Romani. Non essendo intolleranti, non ne avevano bisogno. I secondi, in particolare, consideravano gli dèi degli altri non una minaccia – e neppure una falsità –, ma una risorsa (prima di conquistare una città, per esempio, con il rito dell’evocatio ne chiamavano fuori con pio rispetto il dio, pronti a integrarlo nel loro pantheon).
Nessun dio romano si professava geloso, come invece quello monoteistico, che nasce pretendendo signoria totale sulla complessità della vita e degli esseri umani. Piuttosto, ognuno partecipava a un sistema multiforme, in movimento. Per spiegarlo, Bettini propone un parallelo con il linguaggio.
Come accade alle parole che usiamo nei nostri discorsi, anche fra gli dèi romani c’erano un rapporto e un confronto ininterrotti. E se dai nostri discorsi nascono nuove parole, dal rapporto e dal confronto tra dèi nascevano dèi nuovi, che andavano ad arricchire l’intero pantheon.
Questo non valeva solo dentro i confini del mondo romano, ma anche fuori, nell’incontro con dèi stranieri. Era questa l’interpretatio: una mediazione interpretativa, un compromesso raggiunto mediante valutazioni e congetture tra un dio straniero e quello romano che più sembrava essergli vicino. Il risultato era un nuovo dio, o una modificazione e un arricchimento del vecchio.
Al pari di una lingua ben viva, la religione romana si modificava, si muoveva, cresceva. Che bisogno avrebbe mai potuto avere d’esser tollerante? Era invece curiosa, attenta alla relazione con gli dèi degli altri, aperta al loro valore d’esperienza. Attenzione e apertura, queste, che l’assolutismo monoteistico rende impossibili.
Se dio e la verità si identificano, ogni altro dio e ogni altra verità non potranno essere che falsi, perciò da combattere, vincere, eliminare. Per proseguire nella metafora linguistica, i monoteismi sono lingue bloccate: lingue in cui il discorso – la progressione di parola in parola, verso parole e idee nuove – è negato dalla fissità di un testo dato una volta per tutte, e sottratto a ogni interpretatio. Questo loro “blocco” li rende solidi, ma anche aggressivi.
In termini politici contemporanei, si può sospettare che lasciati a sé, in assenza di limiti e correttivi, i monoteismi tendano a opporsi alla laicità e alla democrazia, nel senso che alla pluralità delle opinioni, al loro confronto aperto e “discorsivo” preferiscono l’assoluto di una verità unica e gelosa.
E se anche così non fosse, resterebbe il fatto increscioso che, al contrario del mondo greco e romano, quello cristiano e quello islamico sono stati e restano zeppi di guerre fatte nel nome di dio. Se non altro, dalle religioni antiche dovremmo imparare almeno questo.
Pubblicato in Attualità dell'antico, Storia greca, Storia romana
Contrassegnato Religione romana
Lascia un commento
1 ottobre 331 a. C.: Gaugamela
Nella battaglia di Gaugamela (o Arbela, oggi Arbil), il 1 ottobre del 331 a. C. il re dei Macedoni Alessandro sconfisse Dario, re dei Persiani. La testimonianza più antica dell’evento è riportata in un diario astronomico babilonese; la tavoletta è ora conservata al British Museum:
“Il ventiquattresimo [giorno del mese lunare], nel mattino, il re del mondo [Alessandro Magno] [ha instaurato il suo] ordine [lacuna]. Opposti l’uno all’altro, combatterono ed una pesante sconfitta delle truppe [del re fu inflitta da lui]. Il re [Dario, re dei Persiani], le sue truppe lo hanno abbandonato ed alle loro città [sono tornate]. Sono fuggite nella terra del Guti”.
Il racconto di Curzio Rufo
Curzio Rufo, Historiae Alexandri Magni, Liber IV: Il discorso di Dario prima della battaglia
14 “[…] Ad extrema perventum est. Matrem meam, duas filias, Ochum, in spem huius imperii genitum, principes, illam sobolem regiae stirpis, duces vestros reorum instar vinctos habet: nisi quid in vobis, ipse ego maiore mei parte captivus sum. Eripite viscera mea ex vinculis, restituite mihi pignora pro quibus ipsi mori non recusatis, parentem, liberos; nam coniugem in illo carcere amisi. Credite nunc omnes hos tendere ad vos manus, inplorare patrios deos, opem vestram, misericordiam, fidem exposcere, ut compedibus, ut servitute, ut precario victu ipsos liberetis. An creditis aequo animo iis servire, quorum reges esse fastidiunt? Video admoveri hostium aciem, sed quo propius discrimen accedo, hoc minus iis quae dixi possum esse contentus. Per ego vos deos patrios, aeternumque ignem qui praefertur altaribus, fulgoremque Solis intra fines regni mei orientis, per aeternam memoriam Cyri, qui ademptum Meis Lydisque imperium primus in Persidem intulit, vindicate ab ultimo dedecore nomen gentemque Persarum. Ite alacres et spiritus pleni, ut, quam gloriam accepistis a maioribus vestris, posteris relinquatis. In dextris vestris iam libertatem, opem, spem futuri temporis geritis. Effugit mortem, quisquis contempserit; timidissimum quemque consequitur. Ipse non patrio more solum, sed etiam, ut conspici possim, curru vehor, nec recuso quo minus imitemini me, sive fortitudinis exemplum, sive ignaviae fuero.”
“[…] Si è arrivati alla rovina. (Alessandro) ha mia madre, due figlie, Oco, nato per la speranza di questo impero, i principi, celebre discendenza di stirpe reale, i vostri comandanti prigionieri come criminali: se non fosse perché è riposta qualche risorsa in voi, io sono prigioniero per la maggior parte di me stesso. Liberate le mie viscere dai vincoli, restituitemi gli ostaggi, per i quali voi stessi non esitate a morire, il genitore, i figli: infatti persi la moglie in quella prigione. Credete ora che tutti vi tendano le mani, invochino gli dei patrii, implorino il vostro aiuto, pietà, fiducia, perché li liberiate dai vincoli, dalla servitù e dal vitto precario. O forse credete che facciano con serenità da servi a coloro dei quali disdegnano di essere re? Vedo che viene avvicinata la schiera dei nemici, ma quanto più mi avvicino al momento decisivo, tanto meno, per le cose che ho detto, vedo di poter essere contento. Dunque, nel nome degli dei patrii, dell’eterno fuoco che viene portato agli altari, dello splendore del sole che sorge fra i territori del mio regno, dell’eterna memoria di Ciro, che per primo portò in Persia il regno portato via ai Medi e ai Lidi, sottraete all’estremo disonore il nome e il popolo dei Persiani. Andate pronti e pieni di spirito a lasciare ai posteri la gloria che avete ricevuto dai vostri antenati. Nelle vostre destre già portate la libertà, l’aiuto, la speranza di un tempo futuro. Sfugge alla morte chiunque la disprezzi; essa segue tutti i più paurosi. Io stesso non solo per usanza patria, ma anche per poter farmi vedere, vengo trasportato dal carro, e non rifiuto che mi imitiate, sia che diventi un esempio di forza sia di viltà.”
Le ultime fasi della battaglia e la fuga di Dario
XIV, 15 Maximum tamen periculum adibant, quos maxime tuebantur: quippe sibi quisque caesi regis expetebat decus. Ceterum, sive ludibrium oculorum sive vera species fuit, qui circa Alexandrum erant vidisse se crediderunt paululum super caput regis placide volantem aquilam, non sono armorum, non gemitu morientium territam, diuque circa equum Alexandri pendenti magis quam volanti similis adparuit. Certe vates Aristander, alba veste indutus et dextra praeferens lauream, militibus in pugnam intentis avem monstrabat, haud dubium victoriae auspicium. Ingens ergo alacritas ac fiducia paulo ante territos accendit ad pugnam, utique postquam auriga Darei, qui ante ipsum sedens equos regebat, hasta transfixus est. Nec aut Persae aut Macedones dubitavere quin ipse rex esset occisus. Ergo lugubri ululatu et incondito clamore gemituque totam fere aciem adhuc aequo Marte pugnantium turbavere cognati Darei et armigeri. Laevumque cornu in fugam effusum destituerat currum, quem a dextra parte stipati in medium agmen receperunt.
Dicitur acinace stricto, Dareus dubitasse, an fugae dedecus honesta morte vitaret. Sed eminens curru nondum omnem suorum aciem proelio excedentem destituere erubescebat, dumque inter spem et desperationem haesitat, sensim Persae cedebant et laxaverant ordines. Alexander, mutato equo,—quippe plures fatigaverat,—resistentium adversa ora fodiebat, fugientium terga. Iamque non pugna, sed caedes erat, cum Dareus quoque currum suum in fugam vertit. Haerebat in tergis fugientium victor, sed prospectum oculorum nubes pulveris, quae ad caelum efferebatur, abstulerat; ergo haud secus quam in tenebris errabant, abstulerat; ergo haud secus quam in tenebris errabant, ad sonum notae vocis aut signum subinde coeuntes. Exaudiebant tamen strepitus habenarum, quibus equi currum vehentes identidem verberabantur: haec sola fugientis vestigia excepta sunt.
Tuttavia andavano incontro ad un grandissimo pericolo coloro che essi proteggevano: infatti ciascuno aspirava per sé all’onore dell’uccisione del re. D’altronde, sia stata un’illusione ottica o un fatto reale, coloro che stavano attorno ad Alessandro credettero di aver visto un po’ al di sopra della testa del re un’aquila che volava placidamente, per nulla spaventata dal fragore delle armi né dal gemito dei moribondi, e si trattenne a lungo attorno al cavallo di Alessandro più come se fosse sospesa che se volasse. Certo l’indovino Aristandro, vestito di bianco e portando nella destra una corona, additava ai soldati intenti alla battaglia l’uccello, senza dubbio presagio di vittoria. Quindi, dapprima atterriti, un grande ardore e una grande fiducia li incitò al combattimento, soprattutto dopo che l’auriga di Dario, che sedendo davanti a lui guidava i cavalli, fu trapassato da una lancia. E né i Persiani né i Macedoni dubitarono che lo stesso re fosse stato ucciso. Quindi i parenti e le guardie di Dario, con urla lamentose e scomposto clamore agitarono quasi tutto lo schieramento di coloro che, fino ad allora, stavano combattendo con esito incerto. E l’ala sinistra, messa in fuga, aveva abbandonato il carro, che quelli che erano pressati dal lato destro accolsero al centro della linea.
Si narra che, sguainata la scimitarra, Dario fosse stato indeciso se scongiurare con una morte dignitosa l’onta della fuga. Ma sporgendosi dal suo carro si vergognava di abbandonare l’esercito dei suoi, che non si ritirava ancora tutto dalla battaglia, e mentre tentennava tra la speranza e la disperazione, a poco a poco i Persiani cedevano e avevano allentato i ranghi. Alessandro, cambiato il cavallo, poiché ne aveva stremati parecchi, colpiva di fronte coloro che ancora resistevano, alla schiena quelli che fuggivano. Ormai non si trattava più di una battaglia, ma di una strage, allorché anche Dario voltò il suo carro in fuga. Il vincitore era alle calcagna dei fuggitivi, ma delle nuvole di polvere, che si estendevano fino al cielo, li avevano sottratti alla vista; quindi vagavano come immersi nelle tenebre, radunandosi al suono di una voce nota o ad un segnale. Tuttavia udivano bene gli schiocchi delle fruste con cui venivano incessantemente percossi i cavalli che tiravano i carri: furono questi i soli segnati uditi del fuggitivo.
XIV, 16 Cecidere Persarum, quorum numerum victores finire potuerunt, milia XL; Macedonum minus quam CCC desiderati sunt. Ceterum hanc victoriam rex maiore ex parte virtuti quam fortunae suae debuit: animo, non, ut antea, loco vicit. Nam et aciem peritissime instruxit et promptissime ipse pugnavit et magno consilio iacturam sarcinarum inpedimentorumque contempsit, cum in ipsa acie summum rei videret esse discrimen, dubioque adhuc pugnae eventu pro victore se gessit; perculsos deinde hostis ut fudit, fugientes, quod in illo ardore animi vix credi potest, prudentius quam avidius persecutus est. Nam si parte exercitus adhuc in acie stante instare cedentibus perseverasset, aut culpa sua victus esset aut aliena virtute vicisset. Iam si multitudinem equitum occurrentium extimuisset, victori aut foede fugiendum aut miserabiliter cadendum fuit. Ne duces quidem copiarum sua laude fraudandi sunt; quippe vulnera, quae quisque excepit, indicia virtutis sunt: Hephaestionis brachium hasta ictum est, Perdicca et Coenos et Menidas sagittis prope occisi. Et, si vere aestimare Macedonas qui tunc erant volumus, fatebimur et regem talibus ministris et illos tanto rege fuisse dignissimos
Caddero quarantamila Persiani, il cui numero i vincitori poterono calcolare; dei Macedoni si lamentò la perdita di meno di trecento uomini. Del resto il re dovette questa vittoria in maggior parte al suo valore che alla propria fortuna: vinse per il suo coraggio, non, come prima, grazie al luogo. Infatti schierò molto accortamente l’esercito, lui stesso combatté con gran valore e con opportuna valutazione non dette peso alla perdita delle salmerie e dei bagagli, quando si accorse che il punto cruciale era nello stesso campo di battaglia, e si comportò da vincitore quando l’esito della battaglia era ancora in bilico; quindi, quando mise in fuga i nemici sconfitti, tenne dietro ai fuggitivi con maggior prudenza che foga, cosa che a stento si potrebbe credere, dato l’ardore del suo animo. Infatti, se avesse continuato ad incalzare i fuggitivi mentre parte del suo esercito si trovava ancora impegnata in campo, sarebbe stato o sconfitto per colpa sua o avrebbe vinto grazie al valore altrui. E se avesse avuto timore della massa di cavalieri che lo assalivano, avrebbe dovuto, benché vincitore, o scappare vergognosamente o cadere miserevolmente. Neppure i comandanti delle sue truppe devono esser privati del suo elogio; infatti le ferite che ognuno aveva riportato sono testimonianze di valore: un braccio di Efestione fu trafitto da una lancia, Perdicca, Ceno e Menida per poco non furono uccisi dalle frecce. E, se davvero vogliamo considerare chi erano allora i Macedoni, dovremo confessare che sia il re fu degno di tali sudditi sia essi degnissimi di cotanto re.
Pubblicato in Archeologia, Storia greca
Contrassegnato Alessandro Magno, Battaglie, Storia militare
Lascia un commento
Cremuzio Cordo, “homo ingenio animo manu liber”.
Cremuzio Cordo in Seneca e Tacito:
SENECA, Consolatio ad Marciam, 3
Ut vero aliquam occasionem mutatio temporum dedit, ingenium patris tui, de quo sumptum erat supplicium, in usum hominum reduxisti et a vera illum vindicasti morte ac restituisti in publica monumenta libros quos vir ille fortissimus sanguine suo scripserat. Optime meruisti de Romanis studiis: magna illorum pars arserat; optime de posteris, ad quos veniet incorrupta rerum fides, auctori suo magno inputata; optime de ipso, cuius viget vigebitque memoria quam diu in pretio fuerit Romana cognosci, quam diu quisquam erit qui reverti velit ad acta maiorum, quam diu quisquam qui velit scire quid sit vir Romanus, quid subactis iam cervicibus omnium et ad Seianianum iugum adactis indomitus, quid sit homo ingenio animo manu liber.
Appena invero il cambiamento dei tempi te ne offrì l’occasione, hai messo a disposizione della gente l’intelletto di tuo padre, che era stato condannato a morte, l’hai sottratto dalla vera morte ed hai restituito alla pubblica memoria i libri che quel valoroso ed eroico uomo aveva scritto con il suo sangue. Hai reso un grandissimo servigio alla cultura romana: gran parte di quei libri era stata bruciata; ai posteri, ai quali giungerà fedele la realtà dei fatti, ascritta al loro grande autore; a lui stesso, di cui è vivo e vivrà il ricordo finché sarà apprezzata la conoscenza della storia romana, finché qualcuno vorrà sapere cosa sia un Romano, cosa sia un uomo rimasto indomito quando ormai le teste di tutti erano già piegate e costrette sotto il giogo di Seiano, cosa sia un uomo libero di intelletto, di animo e di azione.
25 d. c., principato di Tiberio. Il processo e la morte di Cremuzio Cordo.
Cornelio Cosso Asinio Agrippa consulibus Cremutius Cordus postulatur novo ac tunc primum audito crimine, quod editis annalibus laudatoque M. Bruto C. Cassium Romanorum ultimum dixisset. Accusabant Satrius Secundus et Pinarius Natta, Seiani clientes. Id perniciabile reo et Caesar truci vultu defensionem accipiens, quam Cremutius relinquendae vitae certus in hunc modum exorsus est: ‘Verba mea, patres conscripti, arguuntur: adeo factorum innocens sum. Sed neque haec in principem aut principis parentem, quos lex maiestatis amplectitur: Brutum et Cassium laudavisse dicor, quorum res gestas cum plurimi composuerint, nemo sine honore memoravit. Titus Livius, eloquentiae ac fidei praeclarus in primis, Cn. Pompeium tantis laudibus tulit ut Pompeianum eum Augustus appellaret; neque id amicitiae eorum offecit. Scipionem, Afranium, hunc ipsum Cassium, hunc Brutum nusquam latrones et parricidas, quae nunc vocabula imponuntur, saepe ut insignis viros nominat. Asinii Pollionis scripta egregiam eorundem memoriam tradunt; Messala Corvinus imperatorem suum Cassium praedicabat: et uterque opibusque atque honoribus perviguere. Marci Ciceronis libro quo Catonem caelo aequavit, quid aliud dictator Caesar quam rescripta oratione velut apud iudices respondit? Antonii epistulae Bruti contiones falsa quidem in Augustum probra set multa cum acerbitate habent; carmina Bibaculi et Catulli referta contumeliis Caesarum leguntur: sed ipse divus Iulius, ipse divus Augustus et tulere ista et reliquere, haud facile dixerim, moderatione magis an sapientia. namque spreta exolescunt: si irascare, adgnita videntur.
Non attingo Graecos, quorum non modo libertas, etiam libido impunita; aut si quis advertit, dictis dicta ultus est. Sed maxime solutum et sine obtrectatore fuit prodere de iis quos mors odio aut gratiae exemisset. num enim armatis Cassio et Bruto ac Philippensis campos optinentibus belli civilis causa populum per contiones incendo? an illi quidem septuagesimum ante annum perempti, quo modo imaginibus suis noscuntur, quas ne victor quidem abolevit, sic partem memoriae apud scriptores retinent? suum cuique decus posteritas rependit; nec deerunt, si damnatio ingruit, qui non modo Cassii et Bruti set etiam mei meminerint.’ Egressus dein senatu vitam abstinentia finivit. Libros per aedilis cremandos censuere patres: set manserunt, occultati et editi. Quo magis socordiam eorum inridere libet qui praesenti potentia credunt extingui posse etiam sequentis aevi memoriam. nam contra punitis ingeniis gliscit auctoritas, neque aliud externi reges aut qui eadem saevitia usi sunt nisi dedecus sibi atque illis gloriam peperere.
Nell’anno del consolato di Cornelio Cosso e di Asinio Agrippa, venne sottoposto a processo Cremuzio Cordo con una imputazione nuova e inaudita: nei suoi Annali, appena pubblicati, aveva tessuto l’elogio di Marco Bruto e chiamato Gaio Cassio l’ultimo dei Romani. Lo accusavano Satrio Secondo e Pinario Natta, clienti di Seiano. Tale circostanza si rivelò fatale per l’accusato, ed era brutto segno il volto indurito di Cesare nell’ascoltare la difesa, che Cremuzio, sicuro di dover lasciare la vita, pronunciò in questi termini: «Si mettono sotto accusa, o padri coscritti, le mie parole: a tal segno sono prive di colpa le mie azioni. Ma esse non sono rivolte contro l’imperatore o la madre dell’imperatore, le sole persone protette dalla legge di lesa maestà. Mi si imputa di aver lodato Bruto e Cassio, quando molti ne hanno narrato le gesta, e nessuno senza celebrarne il ricordo. Tito Livio, il più grande di tutti per lo stile e il rigore storico, celebrò con tante lodi Gneo Pompeo che Augusto lo chiamava il Pompeiano, il che non offuscò la loro amicizia. E Scipione e Afranio e questo stesso Cassio e questo Bruto non li chiama banditi e parricidi, termini oggi di moda, ma li cita spesso come uomini insigni. Gli scritti di Asinio Pollione tramandano splendida memoria di loro; Messalla Corvino amava ricordare Cassio come suo comandante e l’uno e l’altro furono colmati di ricchezze e di onori. Al libro di Marco Cicerone, in cui Catone era innalzato alle stelle, in che altro modo diede una risposta il dittatore Cesare, se non con un altro discorso, quasi fossero davanti a dei giudici? Le lettere di Antonio, i discorsi di Bruto
contengono giudizi feroci, anche se calunniosi, nei confronti di Augusto; leggiamo le poesie di Bibaculo e di Catullo piene di attacchi ai Cesari: eppure lo stesso divo Giulio, lo stesso divo Augusto le tollerarono senza intervenire, non saprei dire se per moderazione o più per saggezza. Si tratta di affermazioni che, se non raccolte, svaniscono; una reazione irosa la si legge come un’ammissione di verità. 35. Non voglio toccare i Greci, di cui non solo le manifestazioni di libertà, ma perfino gli eccessi restavano impuniti; e chi volle reagire, si vendicò delle parole con le parole. Ma soprattutto c’era piena libertà, senza opposizione alcuna, di pronunciare giudizi su quanti la morte aveva sottratto all’odio o all’amore. Infiammo forse il popolo alla guerra civile, mentre Cassio e Bruto occupano in armi la piana di Filippi? E come a settant’anni dalla loro morte li riconosciamo nelle statue, che neppure il vincitore ha osato abbattere, perché non possono avere la loro parte di ricordo nelle opere degli storici? La posterità conferisce a ciascuno l’onore che merita. E non mancherà, se mi colpisce la vostra condanna, chi si ricorderà non solo di Cassio e di Bruto, ma anche di me.» Poi uscì dal senato e si lasciò morire di fame. I senatori decretarono il rogo, per mano degli edili, dei suoi libri; ma sopravvissero, prima nascosti e poi divulgati. Un motivo in più dunque per deridere la bassezza di quanti, forti della loro potenza nel presente, credono che si possa estinguere anche il ricordo nel futuro. Al contrario anzi, l’ingegno perseguitato acquista autorità crescente. Infatti i re stranieri e quanti hanno fatto ricorso alla stessa intolleranza, sono riusciti solo a provocare disonore a sé e notorietà alle loro vittime.
Traduzione in lingua inglese. CLICCA QUI.
Progetto Traiano
“Progetto Traiano nasce qualche anno fa dalla collaborazione tra ingegneri e archeologi e si propone di utilizzare le moderne tecniche 3D per dare corpo a rilievi ed osservazioni di tipo ingegneristico-archeologico riguardo allo studio dei monumenti di Roma antica. In questa fase si è voluta concentrare l’ attenzione sul proporre ricostruzioni che siano fedeli dal punto di vista dei volumi di costruzione, delle dimensioni degli alzati, della fattibilità dal punto di vista ingegneristico – strutturale, ed in questo senso sono stati di volta in volta elaborati e corretti i modelli qui presentati; non vi è, allo stato attuale, la pretesa di attendibilità dal punto di vista estetico, e dunque i colori e le finiture sono da intendersi come finalizzate all’ aspetto evocativo. Nel sito non trovano posto tutti i modelli, i filmati e le animazioni, che pure sono la vera finalità di questo progetto. Le ricostruzioni nascono da un’ attenta analisi: sono stati utilizzati in maniera critica i rilievi delle varie Sovrintendenze, fotografie, pubblicazioni, e quanto di volta in volta si è riusciti a reperire, analizzando il tutto alla luce di ricognizioni sul campo. Per l’ aspetto volumetrico si è preso spunto dai plastici presenti al Museo della Civiltà Romana di Roma, analizzandoli e reinterpretandoli alla luce di nuove scoperte”.
Canale YOUTUBE di Progetto Traiano: CLICCA QUI.
La tomba macedone di Anfipoli (5)
Una breve rassegna in progress di link utili per seguire gli straordinari lavori di scavo ad Anfipoli (in lingua greca o inglese):
http://www.theamphipolistomb.com/
http://alexgreathistory.blogspot.it/2014/09/el-enigma-de-amphipolis-enigma.html
Pubblicato in Archeologia, Storia greca
Contrassegnato Alessandro Magno, Anfipoli
Lascia un commento
Il rapimento di Proserpina
Il mito raccontato da Cicerone, In Verrem, II, 4, 106 sgg.
[106] Vetus est haec opinio, iudices, quae constat ex antiquissimis Graecorum litteris ac monumentis, insulam Siciliam totam esse Cereri et Liberae consecratam. Hoc cum ceterae gentes sic arbitrantur, tum ipsis Siculis ita persuasum est ut in animis eorum insitum atque innatum esse videatur. Nam et natas esse has in his locis deas et fruges in ea terra primum repertas esse arbitrantur, et raptam esse Liberam, quam eandem Proserpinam vocant, ex Hennensium nemore, qui locus, quod in media est insula situs, umbilicus Siciliae nominatur. Quam cum investigare et conquirere Ceres vellet, dicitur inflammasse taedas iis ignibus qui ex Aetnae vertice erumpunt; quas sibi cum ipsa praeferret, orbem omnem peragrasse terrarum.
[107] Henna autem, ubi ea quae dico gesta esse memorantur, est loco perexcelso atque edito, quo in summo est aequata agri planities et aquae perennes, tota vero ab omni aditu circumcisa atque directa est; quam circa lacus lucique sunt plurimi atque laetissimi flores omni tempore anni, locus ut ipse raptum illum virginis, quem iam a pueris accepimus, declarare videatur. Etenim prope est spelunca quaedam conversa ad aquilonem infinita altitudine, qua Ditem patrem ferunt repente cum curru exstitisse abreptamque ex eo loco virginem secum asportasse et subito non longe a Syracusis penetrasse sub terras, lacumque in eo loco repente exstitisse, ubi usque ad hoc tempus Syracusani festos dies anniversarios agunt celeberrimo virorum mulierumque conventu. Propter huius opinionis vetustatem, quod horum in his locis vestigia ac prope incunabula reperiuntur deorum, mira quaedam tota Sicilia privatim ac publice religio est Cereris Hennensis. Etenim multa saepe prodigia vim eius numenque declarant; multis saepe in difficillimis rebus praesens auxilium eius oblatum est, ut haec insula ab ea non solum diligi sed etiam incoli custodirique videatur.
[108] Nec solum Siculi, verum etiam ceterae gentes nationesque Hennensem Cererem maxime colunt. Etenim si Atheniensium sacra summa cupiditate expetuntur, ad quos Ceres in illo errore venisse dicitur frugesque attulisse, quantam esse religionem convenit eorum apud quos eam natam esse et fruges invenisse constat? Itaque apud patres nostros atroci ac difficili rei publicae tempore, cum Tiberio Graccho occiso magnorum periculorum metus ex ostentis portenderetur, P. Mucio L. Calpurnio consulibus aditum est ad libros Sibyllinos; ex quibus inventum est Cererem antiquissimam placari oportere. Tum ex amplissimo collegio decemvirali sacerdotes populi Romani, cum esset in urbe nostra Cereris pulcherrimum et magnificentissimum templum, tamen usque Hennam profecti sunt. Tanta enim erat auctoritas et vetustas illius religionis ut, cum illuc irent, non ad aedem Cereris sed ad ipsam Cererem proficisci viderentur.
[109] Non obtundam diutius; etenim iam dudum vereor ne oratio mea aliena ab iudiciorum ratione et a cotidiana dicendi consuetudine esse videatur. Hoc dico, hanc ipsam Cererem antiquissimam, religiosissimam, principem omnium sacrorum quae apud omnis gentis nationesque fiunt, a C. Verre ex suis templis ac sedibus esse sublatam. Qui accessistis Hennam, vidistis simulacrum Cereris e marmore et in altero templo Liberae. Sunt ea perampla atque praeclara, sed non ita antiqua. Ex aere fuit quoddam modica amplitudine ac singulari opere cum facibus perantiquum, omnium illorum quae sunt in eo fano multo antiquissimum; id sustulit. Ac tamen eo contentus non fuit.
[110] Ante aedem Cereris in aperto ac propatulo loco signa duo sunt, Cereris unum, alterum Triptolemi, pulcherrima ac perampla. Pulchritudo periculo, amplitudo saluti fuit, quod eorum demolitio atque asportatio perdifficilis videbatur. Insistebat in manu Cereris dextra grande simulacrum pulcherrime factum Victoriae; hoc iste e signo Cereris avellendum asportandumque curavit.
106. È tradizione antica, signori giudici, che si fonda su antichissime testimonianze dei Greci, che l’isola di Sicilia sia tutta quanta sacra a Cerere e Libera. Questa, che per gli altri popoli è una semplice credenza, è invece così profondamente radicata nell’animo dei Siciliani da sembrare loro congenita. Essi ritengono che le due dee siano nate in questi luoghi, che i cereali siano stati trovati per la prima volta nella loro terra e che Libera, che essi chiamano anche Proserpina, sia stata rapita dal bosco di Enna: il quale luogo, per il fatto che si trova nel centro dell’isola, è chiamato “ombelico della Sicilia”. Cerere, a quanto si dice, volendo cercare ovunque la figlia, accese le fiaccole alle fiamme che erompono dalla sommità dell’Etna, e, portandole davanti a sé, andò vagando per tutta la terra.
107. Enna, ove è vivo il ricordo degli avvenimenti che narro, sorge in un luogo altissimo che domina il territorio circostante, sulla cui sommità si estende una pianura uniforme, solcata da acque perenni e tagliata a picco da ogni parte. Attorno ci sono un lago, numerosi boschi e fiori ridentissimi in ogni stagione, a tal punto che lo stesso luogo sembra apertamente attestare quel famoso ratto della vergine, di cui abbiamo sentito parlare sin da bambini. Lì vicino si apre una spelonca, rivolta verso il settentrione, di una profondità immensa, per dove si racconta che il padre Dite, improvvisamente sbucato sul suo cocchio e afferrata la fanciulla da quel luogo, la trascinasse con sé, e che subito dopo, non lontano da Siracusa, penetrasse sotto terra. In questo punto si formò immediatamente un lago, dove ancora oggi i Siracusani celebrano feste annuali con una straordinaria affluenza di uomini e donne. Poiché dunque tanto antica è la credenza che in questi luoghi si trovino le tracce e quasi la culla di queste divinità, ammirevole è, in tutta la Sicilia, il culto che, sia privatamente che pubblicamente, si tributa alla Cerere ennense. E infatti molti e frequenti prodigi attestano la sua potenza divina: a molti spesso, in gravissime circostanze, venne in soccorso il suo
valido aiuto, a tal punto che appare evidente che la dea non solo ama quest’isola, ma anche l’abita e la protegge.
108. E non solo i Siculi, ma persino tutte le altre genti e nazioni manifestano una straordinaria devozione per la Cerere ennense. Se, infatti, grandissimo è il desiderio di partecipare ai sacri misteri di Atene, dove si dice che Cerere sia giunta nel suo peregrinare e che vi abbia introdotto le messi, quanto grande deve essere la devozione di coloro presso i quali risulta che la dea sia nata e abbia scoperto i cereali? Così, anche i nostri antenati, in un momento difficile per lo stato, poiché in seguito all’uccisione di Tiberio Gracco i portenti lasciavano presagire il timore di gravi pericoli, sotto il consolato di P. Mucio e L. Calpurnio si ricorse ai libri della Sibilla, dai quali si apprese che occorreva placare la più antica Cerere. Allora alcuni sacerdoti del Popolo Romano, appartenenti al nobilissimo collegio dei decemviri, pur essendoci nella nostra città un tempio bellissimo e magnificentissimo di Cerere, tuttavia partirono alla volta di Enna. Era tanta infatti l’autorità e la vetustà di quel culto che, andando in quel luogo, si aveva l’impressione di recarsi non ad un tempio di Cerere, ma da Cerere in persona.
109. Non voglio annoiarvi più a lungo; già da un pezzo infatti temo che il mio discorso possa sembrare estraneo alla prassi giudiziaria e alla quotidiana consuetudine del foro. Aggiungo solamente ciò: proprio questa Cerere, la più antica, la più venerata, la prima a ricevere il culto da parte di tutte le genti e nazioni, da C. Verre fu estromessa dai suoi templi e dalle sue sedi. Chi di voi è stato ad Enna, avrà visto la statua di Cerere in marmo e, in un altro tempio, quella di Libera. Sono grandi ed ammirevoli, ma non tanto antiche. Ce n’era una di bronzo, di modeste dimensioni, ma di singolare fattura, con le fiaccole e antichissima, anzi la più antica di tutte quelle che si trovavano in quel tempio. È questa che ha portato via. E tuttavia non ne fu contento. 110. Davanti al tempio di Cerere, in una larga spianata, vi sono due statue, una di Cerere e l’altra di Trittolemo, bellissime e di notevole mole. Se la loro bellezza costituiva un pericolo, la loro dimensione le salvò, giacché la rimozione e il trasporto apparivano come un’impresa oltremodo difficile. Sulla mano destra di Cerere era collocata una statua della Vittoria, grande e di pregevole fattura: questa costui fece asportare dalla statua di Cerere e condurre via.
I luoghi:
PER APPROFONDIRE:
Il rapimento di Kore in Sicilia, a cura del Gruppo archeologico di Piazza Armerina.
Il ratto di Kore, Miti e leggende della Sicilia antica nelle fonti letterarie, a c. di I. Concordia.
Anche Pericle e Augusto sotto il fuoco dei pettegoli
Luciano Canfora, “Corriere della Sera – La Lettura”, 21 settembre 2014
Grazie alla prodigiosamente ricca documentazione di cui lo storico Svetonio disponeva finché ebbe accesso agli archivi imperiali, conosciamo una lettera di Antonio ad Ottaviano (non ancora Augusto) piuttosto vivace nel contenuto e ruvidamente soldatesca nello stile: «Che cosa ti è successo? Che cosa ha causato il tuo cambiamento verso di me? Che io mi faccio una regina? Ma è mia moglie. Non ho mica incominciato adesso! Sono ormai nove anni. E tu? Forse che ti fai solo Drusilla? Ti pigli un accidente se non è vero che, quando ti arriverà questa lettera, ti sarai già fatto Tertulla, Terentilla, Rufilla o meglio tutte insieme. Che importa dove e con chi?». Poiché Antonio parla di nove anni ormai con Cleopatra vuol dire che siamo a ridosso dello scontro finale di Azio (31 a.C.). Dopo qualche anno Augusto lancerà la campagna moralizzatrice e restauratrice dei sani costumi, del mos maiorum. Il risultato è descritto così da uno storico servile verso il potere, Velleio: «Terminate le guerre civili, seppellite per sempre quelle esterne, ripristinata la pace, restituita la forza alle leggi, l’autorità ai tribunali, la maestà al Senato […] risorge l’agricoltura, il rispetto per la religione, la tranquillità di tutti, la proprietà salvaguardata, le riforme attuate».
Eppure la realtà era altra: in certe occasioni Augusto si recava in Senato con la corazza sotto la toga e faceva perquisire i senatori prima di farli accedere alla seduta. Da Seneca (nel De clementia) apprendiamo che congiure, sventate non senza spargimento di sangue, si ripeterono negli anni dell’interminabile governo di Augusto. Una, la più clamorosa, coinvolse Giulia, figlia del princeps e della sua prima moglie Scribonia, da lui ripudiata poco dopo la nascita di Giulia. La tradizione, compattamente, prende per buona la versione ufficiale. Che cioè Giulia fu allontanata ed esiliata, e il suo amante Iullo Antonio ucciso, a causa della sua condotta immorale. «La sua impudenza — scrive Seneca (De beneficiis, libro VI) — aveva superato quanto di più vergognoso è implicito in questo termine», e segnalava la scelta di lei di prostituirsi «qua e là per la città, nel foro e presso i rostri dall’alto dei quali il padre aveva proclamato le leggi sull’adulterio». Eppure, dietro questo terremoto, c’era anche dell’altro: uno storico bene informato come Cassio Dione (libro 55) dice chiaro che Iullo fu ucciso — secondo Tacito fu «suicidato» — perché epicentro di un piano eversivo contro il princeps. Non è privo di importanza che Iullo fosse figlio del triumviro Marco Antonio e Giulia figlia della ripudiata Scribonia, che era la sorella del consuocero di Pompeo. I rampolli di due rami politicamente sconfitti si incontravano.
Sono vicende delle quali non verremo mai del tutto a capo, perché la propaganda del potere è non meno depistante della malignazione permanente della letteratura «del dissenso». Quest’ultimo ha come ragion d’essere il «fare agitazione» e gettare discredito sul potere; e trova sempre e comunque ascolto presso nemici interni ed esterni. Aristofane, nella commedia intitolata Acarnesi , suscitava le risate degli Ateniesi inventandosi una pochade , a base di ratti di prostitute «allevate» da Aspasia, la grande amica di Pericle oltre che dei filosofi e degli artisti. E la additava come responsabile della guerra con Sparta. Aggiornava e «degradava» l’archetipo, cioè la saga troiana: Elena come causa della rovinosa decennale guerra dei Greci contro Troia. Gli Ateniesi ridevano, ma nessuno prendeva sul serio la greve trovata escogitata dall’astro nascente del teatro comico. Mettiamo in fila questi pezzi. Aspasia causa della guerra tra Atene e Sparta, Cleopatra causa della guerra tra Antonio e Ottaviano o — come si disse allora persino da parte di un «uom prudente e saggio» come Orazio — tra l’Impero romano e l’Egitto; e addirittura Giulia come causa della più grave crisi che abbia mai scosso il governo augusteo. Il cerchio si chiude dunque ben prima che i cristiani demonizzassero la donna come strumento del Maligno: precorritori, in questo, dei ben più radicali musulmani, che la ridussero a semplice oggetto velato.
SVETONIUS, Vita Divi Augusti, 69
[69] Adulteria quidem exercuisse ne amici quidem negant, excusantes sane non libidine, sed ratione commissa, quo facilius consilia adversariorum per cuiusque mulieres exquireret. M. Antonius super festinatas Liviae nuptias obiecit et feminam consularem e triclinio viri coram in cubiculum abductam, rursus in convivium rubentibus auriculis incomptiore capillo reductam; dimissam Scriboniam, quia liberius doluisset nimiam potentiam paelicis; condiciones quaesitas per amicos, qui matres familias et adultas aetate virgines denudarent atque perspicerent, tamquam Toranio mangone vendente. Scribit etiam ad ipsum haec familiariter adhuc necdum plane inimicus aut hostis: “Quid te mutavit? Quod reginam ineo? Uxor mea est. Nunc coepi an abhinc annos novem? Tu deinde solam Drusillam inis? Ita valeas, uti tu, hanc epistulam cum leges, non inieris Tertullam aut Terentillam aut Rufillam aut Salviam Titiseniam aut omnes. An refert, ubi et in qua arrigas? “
69 Anche gli amici non negano che abbia praticato l’adulterio, ma lo giustificano dicendo che lo commise non per libidine, ma per politica, allo scopo di scoprire più facilmente i disegni dei suoi avversari, interrogando le loro mogli. M. Antonio gli ha rimproverato, oltre al suo matrimonio precipitoso con Livia, di aver fatto alzare da tavola, sotto gli occhi del marito, per condurla nella sua camera da letto, la moglie di un ex console, che poi ricondusse al suo posto con le orecchie rosse e i capelli in disordine; di aver divorziato da Scribonia perché questa si era lamentata che un uomo scostumato avesse tanto potere; di essersi procurato donne per la compiacenza di amici che facevano spogliare madri di famiglia e giovani fanciulle adulte, perché potesse esaminarle, quasi fossero messe in vendita dal mercante di schiave Toranio. Questo stesso Antonio scriveva ad Augusto confidenzialmente, quando ancora non erano nemici e in guerra tra loro: «Che cosa ti ha cambiato? Il fatto che mi goda una regina? È mia moglie. Non sono forse nove anni che ce l’ho? E tu ti godi soltanto Drusilla? Stai bene allora se al momento in cui leggerai questa lettera non ti sarai goduto Tertullia, o Terentilla, o Rufilla, o Salvia Titisenia o tutte le altre. Importa forse dove e con chi tu faccia l’amore?»