Alessandro Magno e la Pop art (2)

Ecco un altro esempio delle metamorfosi e delle “persistenze” della figura di Alessandro nell’immaginario contemporaneo e nella cultura di massa.

Andy Warhol (1928-1987) rappresentò Megalexandros nel suo “pop Pantheon”, ispirandosi ad un busto di età ellenistica conservato a Basilea. L’opera fu commissionata dal gallerista e collezionista greco Alexander Iolas.

Alessandro_warhol_la fonte

Alessandro è l’unica personalità appartenente al mondo classico rappresentata da Warhol nelle sue creazioni ed  è l’unico caso in cui il modello sia venuto da una scultura e non da un’immagine pittorica o fotografica (FONTE: http://revolverwarholgallery.com).

L’artista  pubblicò la serie nel 1982, in collaborazione con la Hellenic Heritage Foundation e in occasione dell’inaugurazione della mostra  “The Search for Alexander” al Metropolitan Museum of Art (Ottobre 1982- Gennaio 1983).

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Alessandro Magno e la Pop Art (1)

Il nome di Alessandro il Grande compare nel dipinto di Jean Michel  Basquiat All coloured Cast, Part II, 1982 (acrilico e olio su tela, 152,5 x 152,5 cm. Collezione Leo Malca).

Alessandro è rappresentato anche in False, 1983 (acrylic, charcoal, crayon, pastel, pencil 57 x 76.5 cm), Daros Collection, Zurich, Switzerland.

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Le attrici dell’antica Pompei

Theatre fresco from Herculaneum.

Eva Cantarella, Pompei: prima dell’eruzione, una città che amava le sue attrici. Methe, Cestilia e le altre Le donne di scena come star, “Corriere della Sera”, 15 settembre 2014

Nel 79 d.C., quando scomparve, Pompei era una città fiorente, vivace e cosmopolita, nella quale diverse etnie e culture si erano nel tempo incontrare e al di là degli inevitabili problemi (e a volte veri e propri conflitti bellici) si erano alla fine amalgamate. Il primo nucleo di abitanti del luogo, nel VII sec. a.C., era composto da popolazioni osche. Grazie alla posizione particolarmente felice dello stanziamento, allo sbocco marittimo della ricca e produttiva area agricola dell’entroterra campano, la comunità divenne presto una fiorente cittadina, che nei primi secoli della sua vita subì l’influsso sia degli Etruschi (all’epoca ampiamente presenti nella zona), sia dei Greci la cui cultura (a seguito della sconfitta degli Etruschi da parte di una coalizione cumano-siracusana, nel 474 a.C.) prese peraltro il sopravvento. Verso la fine del V secolo una nuova popolazione, i Sanniti, calò dalle sue povere montagne stanziandosi tra l’altro anche a Pompei, e per finire nell’81 (secondo alcuni l’80) a.C. giunsero i Romani. Pompei, infatti, insieme agli altri alleati italici di Roma (i socii italici), stanchi di essere di fatto trattati come dei sudditi, aveva preso le armi per ottenere la cittadinanza romana, ma nell’89 era stata assediata da Silla, che dopo averla espugnata vi aveva stanziato una colonia. Pompei, insomma era un amalgama di etnie e di culture diverse, ciascuna delle quali aveva lasciato le sue tracce, contribuendo a renderla una città aperta, viva e pronta a recepire le novità.
La sua economia era fiorente. La straordinaria fertilità dell’agro campano aveva consentito di sviluppare diverse industre che esportavano i suoi prodotti. Il vino locale veniva venduto oltre che in Italia in Francia, Spagna, Africa e Germania. Fiorenti anche l’industria della ceramica e quella tessile , nonché la produzione di calzature. Tutto contribuiva a consentire agli abitanti della città una vita piacevole e varia, arricchita da una intensa vita culturale e da una serie di svaghi tra i quali, in particolare, frequenti rappresentazioni teatrali. Dopo un lungo periodo nel quale queste avevano avuto luogo in strutture provvisorie di legno erette nelle piazze e davanti ai templi, nel secolo a.C. la città si dotò di un edificio teatrale in muratura, il Teatro Grande, eretto presso il margine meridionale della città, la cui capienza, a seguito dei restauri di età augustea, arrivò fino a 5.000 persone. A darci un’idea delle popolarità di queste rappresentazioni sono i graffiti conservati sui muri della città, che testimoniano, in particolare, dell’entusiasmo dei pompeiani per le attrici che giungevano al seguito di compagnie girovaghe. Anche se non potevano recitare nelle tragedie e nelle commedie, ma solo nelle pantomime e nei mimi vi erano infatti numerose donne che calcavano le scene pompeiane: una certa Methe, ad esempio, definita attrice della «atellana» (un tipo di commedia di origine italica, così chiamata da Atella, in Campania); una Histrionica Actica, della compagnia di Aniceto; una Novella Primigenia, forse identificabile con una Primigenia di Nocera, il cui nome appare insieme a una serie di graffiti di saluto di una troupe di attori girovaghi. E poi una Cestilia, evidentemente molto apprezzata e popolare al punto da essere salutata come «la regina dei pompeiani».
L’attività teatrale a Pompei, insomma, era intensa, non solo nel Teatro Grande ma anche nell’Odeion (che poteva ospitare circa 1.500 persone), costruito a fianco del teatro nei primi decenni della colonia sillana, verosimilmente destinato ad audizioni musicali, scene mimiche, recitazioni e forse anche declamazioni letterarie e poetiche.
L’interesse per il teatro dei pompeiani traspare anche dalle raffigurazioni parietali con soggetti tratti da tragedie e commedie, e dall’ingente numero di maschere realizzate in marmo, in mosaico e in pittura, che decorano molte case della città. È bello, a distanza di quasi due millenni, vedere questo teatro tornare a vivere. Peccato solo (impossibile tacerlo) che ciò accada in un edificio, come il Teatro Grande, irrimediabilmente devastato da improvvide (a dir poco) opere di cosiddetto restauro.

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La tomba macedone di Anfipoli (4)

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Che cosa sappiamo della tomba di Anfipoli allo stato attuale degli scavi? LEGGI l’articolo di Greekreporter (in lingua inglese).

La storia della scoperta del leone di Anfipoli. Una ricostruzione storica e fotografica a cura di Algargosarte (in lingua spagnola).

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La tomba macedone di Anfipoli (3)

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Gli scavi della collina di Kasta ad Anfipoli rivelano in questi giorni i corpi delle due straordinarie cariatidi che custodiscono la camera interna della tomba. Si susseguono le ipotesi sull’identità del personaggio che può esservi sepolto. Olimpia, la madre di Alessandro III il Grande? la sposa Roxane con il figlio Alessandro IV, uccisi da Cassandro  nel 310 a.C  nel corso delle lotte per la successione al trono macedone? E’ possibile che la tomba fosse stata originariamente eretta per accogliervi le spoglie di Megalexandros, secondo la tradizione della casa reale degli Argeadi, e che sia poi stata destinata ad altri, una volta che Tolomeo I si conquistò con la forza dell’astuzia e delle armi il privilegio di seppellire il re divinizzato ad Alessandria? 

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La tomba macedone di Anfipoli (2)

7 settembre 2014: ad Anfipoli proseguono gli scavi, che riportano oggi alla luce il sorriso e l’enigma di due meravigliose cariatidi. Da Greekreporter, un articolo dello studioso A. Chugg. LEGGI TUTTO…

GALLERIA FOTOGRAFICA: CLICCA QUI.

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Manoscritti vaticani online

Ecco una rassegna dei 975 manoscritti fino ad ora digitalizzati della Biblioteca Apostolica Vaticana. CLICCA QUI.

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Luoghi oraziani

…nihil supra / deos lacesso nec potentem amicum / largiora flagito, / satis beatus unicis Sabinis… [per niente di più importuno gli dei, non chiedo all’amico potente doni più preziosi, mi basta e sono lieto di questa sola villa sabina]. Orazio, Carmina, II, 18, 11-14.

Licenza (Roma): due video illustrativi del Prof. Bernard Frischer, Departiment of Classics UCLA Director e responsabile degli scavi dal 1996 al 2003, ci guidano alla scoperta della villa sabina del poeta OrazioCLICCA QUI: prima parte; seconda parte.

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La tomba macedone di Anfipoli (1)

Continuano gli scavi ad Anfipoli, nel nord della Grecia, dove si sta riportando alla luce una tomba reale risalente alla fine del IV secolo avanti Cristo, sepolta sotto un tumulo di quasi 500 metri di circonferenza, 160 di diametro e 25 di altezza. Secondo le ultime ipotesi, si potrebbe trattare della sepoltura di Nearco, comandante della flotta macedone di Alessandro Magno.

GALLERIA FOTOGRAFICA: CLICCA QUI.

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Cesare Augusto: il bimillenario

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Perché abbiamo dimenticato l’imperatore figlio di Enea che inventò la pace globale
MAURIZIO BETTINI, “La Repubblica”, 20 agosto 2014
Adriano ebbe la Yourcenar, il Divo Giulio, Shakespeare.
Ma a duemila anni dalla morte nessuno celebra Ottaviano
 
 DUEMILA anni fa, il 19 Agosto del 14 d. c., moriva Gaio Giulio Cesare Ottaviano Augusto. L’uomo che pose fine alle guerre civili (benché le sue mani non fossero certo monde di sangue), che impresse un’orma indelebile sull’organizzazione dello Stato, che influì profondamente sulla vita della società romana e soprattutto che seppe polarizzare intorno a sé una straordinaria quantità di energie. Non a caso Augusto ha associato il proprio nome a un’intera età, l’età augustea appunto: quello straordinario lasso di tempo in cui hanno convissuto Virgilio, Orazio, Ovidio, Livio — in pratica tutti i maggiori scrittori e poeti della letteratura romana — e nel quale sono state erette opere come l’Ara Pacis o il Teatro di Marcello. Fu Augusto, del resto, a mutare il volto architettonico della Città, avvolgendola di quella definitiva aura di splendore che l’avrebbe accompagnata nei secoli avvenire. Se dunque esiste un personaggio che ha segnato profondamente la storia che ci ha preceduto, questi è proprio Augusto.
Eppure il bimillenario della sua morte — malgrado la mostra organizzata alle Scuderie del Quirinale, forse con troppo anticipo l’anno scorso, e le visite guidate al suo Mausoleo aperto per l’occasione — sembra passato sotto silenzio. Si è davvero parlato di Augusto quanto e come questa figura avrebbe meritato? E soprattutto, Augusto è stato capace di suscitare l’interesse che molti si aspettavano? Altri personaggi che Roma ci ha lasciato, e di cui sono stati celebrati altri storici anniversari, hanno certo appassionato molto di più. Basti per tutti l’esempio di Costantino, e la ragione di tanto successo è chiara. Egli fu l’imperatore che rese l’impero cristiano, e dato che il cristianesimo è a tutt’oggi è una religione ben viva, e per tanti aspetti dominante, la sua figura ha suscitato grande e prolungato interesse. Augusto invece, a dispetto della sua posizione centrale nella storia di Roma e nel seguito della civiltà occidentale, non sembra aver avuto altrettanta fortuna. La sua immagine resta quella della statua di Prima Porta, maestosa, imperturbabile, bella anche, ma fredda. Perché?
Si potrà dire che non si è fatto abbastanza, sul piano organizzativo, per far comprendere l’importanza di questa figura a un pubblico più vasto. In una società come la nostra, che tanta fiducia ripone nella comunicazione, è ancora alla comunicazione che si finisce spesso per attribuire la responsabilità di un tiepido o mancato successo. Non so però se ciò basterebbe a spiegare questo fenomeno. In realtà potremmo forse azzardare un’altra spiegazione, meno legata alla forma comunicativa che non alla sostanza di quanto si è voluto comunicare: Augusto non è in sintonia con la nostra cultura, o meglio con le pulsioni più profonde che la caratterizzano. Lo è molto di più Nerone, per esempio, l’imperatore fosco e crudele che però, allo stesso tempo, fu malato di arte e toccato dalla follia. Nerone è un personaggio che “risuona” con il mondo che ci circonda, Augusto no.
Il primo imperatore è troppo classico, come la statua di Prima Porta. O meglio ancora Augusto rappresenta la classicità della classicità, una sorta di classicità esponenziale, quella propria del signore di un’epoca che amò la perfezione della forma, l’eleganza, l’ironia, la cultura, perfino l’erudizione: tutti valori che la nostra società, incline alle sensazioni forti e dedita talora alla poetica della rozzezza, rispetta e ammira, almeno a parole, ma certo non sente proprie. Così come non può sentire veramente “suoi” i poeti e gli scrittori che Augusto protesse e suscitò attorno a sé: l’Orazio dall’ironica moderazione, il Virgilio che scrive un poema sui vincitori ma soffre assieme ai vinti, l’Ovidio che coltivò la perfezione dello stile come forse nessun altro prima di lui, e fu capace di dar forma di parola scritta tutto ciò che accendeva la sua fantasia.
Che cosa possiamo farcene, oggi, del culto dello scrivere, in una società che non scrive quasi più, perché comunica soprattutto per immagini? L’anelito alla perfezione del testo, il gioco ironico delle assonanze, i chiasmi, gli incroci sapienti di fonemi, suscitano rispetto, certo, o forse timore, ma nessuno spenderebbe più i propri anni migliori per raggiungere una simile divina abilità. Oggi c’è Facebook, c’è Twitter. In altre parole, si ha come l’impressione che il tiepido interesse per Augusto, e per la cultura rappresentata dall’età a cui diede nome, vada di pari passo con la crisi del liceo classico: di cui (questo sì) tanto si è invece parlato e si continua a parlare.
Quanto ad Augusto scrittore in prima persona, quello delle Res Gestae, anche lui pare fuori tempo per un motivo inverso, ma del tutto simmetrico, a quello per cui rischia di esserlo Ovidio: perché è troppo semplice, troppo misurato. I grandi di oggi, o quelli che si pretendono tali, praticano il gesto eclatante, la parola azzardata (salvo rimangiarsela il giorno dopo), oscillano fra maestà e quotidianità, ma certo non conoscono l’autorità che viene dalla moderazione. Quando Augusto descrive il momento in cui assunse questo titolo, Augustus appunto, lo racconta così: «Per questi miei meriti ebbi per senatusconsultum l’appellativo di Augustus. A partire da questo momento fui superiore a qualsiasi altro in autorità, ma quanto a potere (potestas) non ne ebbi più di tutti coloro che mi furono colleghi in ciascuna magistratura ». L’appellativo che aveva ricevuto, Augustus, associava quello che fu Ottaviano a una sfera della cultura romana caratterizzata dalla più alta sacralità: quella dell’augurium, ossia l’esplicita approvazione che gli dèi concedevano a un’impresa; quella dell’augur, il nome che designa colui che aveva il compito di prendere gli auspicia , ossia di consultare la divinità riguardo all’azione da intraprendere.
Prendendo quel nome Ottaviano veniva a condividere un epiteto che era addirittura proprio di Giove, la massima divinità dei Romani. Eppure, nel descrivere questo momento, l’imperatore non sottolinea minimamente il carattere straordinario di questo appellativo, si preoccupa di ricordare che esso si fondava su una legge del Senato, e anzi, mette in chiaro che esso non gli dava affatto più potestas di qualsiasi altro magistrato.
Come se non bastasse, leggiamo adesso che la riapertura del grandioso Mausoleo dell’imperatore è stata segnata da uno spiacevole incidente. Si è allagato il fossato che circonda il monumento. Un segno del Divus Augustus? Infastidito dal tiepido interesse che i suoi eredi sembrano avergli dimostrato?
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