Virgilio a Ground Zero

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Nulla dies umquam memori vos eximet aevo.

Il verso del IX libro dell’Eneide, tratto dal celebre episodio di Eurialo e Niso,  è stato impresso in cubitali lettere, fuse con l’acciaio delle distrutte Twin Towers, sul muro del National September 11 Memorial Museum, oltre il quale si trova il deposito (Remains Depository) dei resti ancora non identificati delle vittime dell’attentato dell’11 settembre 2001. L’entrata stessa al museo è stata concepita come una citazione “visiva” del VI libro dell’Eneide: un viaggio nell’oltremondo, tra i morti, per trarre auspici per il futuro.
Negli Stati Uniti è sorto un animato dibattito tra i classicisti sull’opportunità di scegliere proprio quella citazione virgiliana, soprattutto alla luce del contesto epico-narrativo da cui è tratta.

PER APPROFONDIRE:

Il passo virgiliano tradotto da L. Canali, con testo a fronte: CLICCA QUI.

Jean Baptiste Roman, Eurialo e Niso, 1827, Louvre

DAVID W. DUNLAP, A Memorial Inscription’s Grim Origins Scholarly Perspectives on Inscription at the 9/11 Memorial Museum, “New York Times”,  2 aprile  2014 

A. SCHIESARO, Eurialo e Niso a Ground Zero, “Domenica –  Il Sole 24 ore”, 10 agosto 2014
Naturalmente, dal primo giorno, il sito dove si ergevano le Torri gemelle è diventato luogo di memorie. La voragine delle fondamenta rimosse, le dimensioni dei nuovi edifici (One World Trade Center è alto 1.776 piedi, l’anno della Costituzione), un’intricata geometria di spazi cavi e flussi d’acqua, ora, soprattutto, il National September 11 Memorial and Museum, tutto insiste sulla necessità del ricordo, un antidoto all’orrore di migliaia di morti dissolti nel nulla. Un monumento all’assenza, quindi, che si dipana tra insidie e incertezze, non ultima quella di trasformare le vittime in eroi. Per esprimere in forma sintetica, e memorabile, le emozioni e le intenzioni del luogo, è stato scelto un verso di Virgilio, che campeggia sul muro principale: «No day shall erase you from the memory of time» traduce nulla dies umquam memori vos eximet aevo, «mai nessun giorno al ricordo vi toglierà dei futuri». È un verso enfatico, icastico. Evoca la possibilità che il ricordo un giorno svanisca, ma prontamente la esorcizza; è anzi il futuro stesso che, con audacia sintattica, si fa “memore”, a garanzia di una perennità collettiva, quasi impersonale, della memoria che traguarderà i secoli. Scandite sul cemento in cubitali caratteri d’acciaio sottratto alle macerie, le parole di un poeta antico, prova tangibile che la nostra memoria sa davvero battere il tempo, consacrano la promessa di un impegno duraturo.
Da tempo erano sorti dubbi sull’opportunità di utilizzare proprio quel verso, e le polemiche si sono fatte più intense dopo l’inaugurazione. Quel verso, infatti, appartiene a un contesto, anzi a uno degli episodi più famosi dell’Eneide. La guerra tra i Troiani e i Latini che li respingono dalle proprie terre è iniziata da poco (siamo nel nono libro). Cala la notte sull’accampamento troiano. Niso, e il più giovane Eurialo, «di cui più bello nessuno fu tra i fidi d’Enea», fanno da guardia alle porte, ma bramano di poter colpire il nemico in una sortita. È una “folle passione” ad animarli, l’unica strada per attingere alla gloria. Invasati, fanno strage di uomini in preda al sonno e al vino. Eurialo indossa l’elmo strappato alle spoglie di Messapo. Cavalieri nemici lo avvistano sulla via del ritorno. Niso torna indietro a difenderlo, per morire anch’egli abbattendosi sul compagno già esanime. È alla fine di questo episodio che Virgilio, per l’unica volta in tutto il poema, prende la parola in prima persona: «Fortunati l’uno e l’altro! Se posson qualcosa i miei versi / mai nessun giorno al ricordo vi toglierà dei futuri, / fin che la casa d’Enea del Campidoglio l’immobile / rupe dòmini e il padre Romano abbia impero» (così traduce Rosa Calzecchi Onesti).
L’epitafio finale esorta all’ammirazione, legando indissolubilmente la vicenda dei due giovani alla persistenza stessa di Roma, quasi che la loro incursione notturna ne avesse favorito in modo decisivo la nascita. Come sempre in Virgilio, però, abbondano suggestioni di altro tenore. Neppure i protagonisti sanno spiegarsi la forza dell’emozione che le spinge a un’impresa tanto pericolosa: quali sono i confini tra audacia e imprudenza? E quali tra la passione che li accomuna in battaglia e l’amor che li lega in privato? Eurialo viene scoperto perché la luna riflette i suoi raggi sull’elmo che ha sottratto a una delle sue vittime: è questo l’eccesso che lo perde? 
Tutte queste, e altre, sono domande legittime per il lettore di Virgilio. Ma quali problemi pongono al visitatore del National memorial? O per meglio dire: quali problemi hanno posto a chi lo ha scelto come emblema e motto del memorial, riprodotto su gadgets e dépliants? Alice Greenwald, la direttrice, risponde imperturbabile: nessuno. Non importano, dichiara, i dettagli della narrazione virgiliana, solo il riferimento al fatto che «un singolo giorno non potrà cancellare la memoria di coloro che amiamo». La parafrasi porta fuori strada, perché le parole dicono in realtà tutt’altro, che nessun giorno futuro cancellerà il ricordo dei caduti, non che un singolo giorno, quello della loro morte, può cancellarne la memoria. Ma il paradosso più forte risiede nell’ammissione che il verso si presta all’uso solo in seguito a una decontestualizzazione violenta, che rende un atto di memoria (dell’Eneide) finalizzato a preservare memorie (quelle dei morti nell’attentato) fruibile secondo le intenzioni del monumento solo a patto di cancellarne ogni connotazione storica, cioè, appunto, ogni traccia di memoria. Il verso dell’Eneide in cui Virgilio immortala le azioni di Eurialo e Niso nella loro complessità etica ed erotica, ricordato e studiato dopo duemila anni, può farsi memorial solo se si dimenticano Eurialo, Niso, l’Eneide e in fondo anche Virgilio. Se insomma quel verso, scarnificato e smaterializzato, si riduce a mero veicolo fuori dalla storia e dal tempo, come una frase musicale illustre rapita alla partitura e ridotta a musica da sottofondo. 
L’alternativa a questa abdicazione è in effetti impervia. Eurialo e Niso sono celebrati non perché vittime, ma perché autori di una strage notturna che comunque stride con i canoni del duello epico a viso aperto; per attenuare la distanza tra citazione e contesto si è provato a insistere sulla nobiltà del sacrificio di Niso nel vano tentativo di salvare il compagno, che però risulta monco se si ignora la tensione omoerotica tra il nuovo Achille e il nuovo Patroclo. Tutto troppo complicato, anche se perfettamente in linea con le strategie tipiche di Virgilio, che mai costringe a una visuale univoca e ama erodere la certezza dell’opposizione tra vincitori e vinti, tra eroismo e crudeltà. Tutto troppo lontano, però, dalle anodine intenzioni di chi deve aver trovato la frase in qualche repertorio tematico, privo di riferimenti al contesto. Non è il caso di scandalizzarsi: quella dei florilegi è una tradizione antichissima cui dobbiamo non pochi reperti di testi altrimenti scomparsi per sempre, solo che da tempo è finita l’illusione che le parole dei poeti si possano liberare da ogni sovrasenso quasi attraversando un immaginario Lete purificatore.
Dopo le polemiche, il verso resta al suo posto, unito al nome dell’autore. È scomparso, invece, il riferimento all’Eneide, nella speranza, si presume, che questo ulteriore gesto di decontestualizzazione attenui il potenziale eversivo della citazione. Per ora l’elisione della memoria auspicata dai progettisti ha suscitato l’effetto opposto, riportando l’Eneide e il suo poeta al centro della discussione e dimostrando che davvero non esistono testi senza contesto, e senza interpretazione: quasi a riprova che la storia, e la memoria, non possono essere ritagliate a misura, e tanto meno dimenticate.

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Appia, regina di storia e di abusi

Un articolo di Tomaso Montanari, “Il Fatto Quotidiano”, 31 luglio 2014

Sulla Via Appia Antica. E da nessun’altra parte: solo camminando su questa lunga, struggente ferita – che ancora potrebbe unire, scorrendo in un verde ininterrotto, il Colosseo ai Castelli Romani – si può davvero capire cos’è il patrimonio culturale italiano. Qui tutti i frammenti della magnificenza antica – quelli che nei musei archeologici annoiano inconfessabilmente anche gli addetti ai lavori – prendono senso e vita: si animano in un contesto, in un tessuto che si fonde col verde e col cielo.
E non è un caso: nel 1824 fu il grande architetto Giuseppe Valadier a voler ricomporre ai lati della strada tutto ciò che giaceva a terra. Invece che «confonderli tra i moltissimi esistenti nei musei e nei loro magazzini». Valadier, e poi Luigi Canina, avevano negli occhi le incisioni visionarie con cui Piranesi aveva reinventato l’Appia, e collegando il sogno alla realtà riuscirono a lasciarci un corpo vivo. Un corpo che dobbiamo ad ogni costo tramandare a chi verrà dopo di noi. Non è un’impresa impossibile, basterebbe volerlo: proprio sull’Appia vedi perché lo Stato riesce a mettere a segno alcuni strepitosi successi, e anche perché quello stesso Stato sembra far di tutto per vanificarli. Sull’Appia incontri l’Italia: al suo peggio e al suo meglio.
La regina viarum – la più importante e famosa strada dell’antichità– fu aperta nel 312 a. C. dal console Appio Claudio: allora collegava Roma a Capua, arrivando fino a Brindisi (porta verso la Grecia) nel 191 a. C. Una strada modernissima: a due corsie, pavimentata in modo da consentire ai carri la massima velocità. Una strada presto straordinariamente bella: a causa dell’enorme quantità di tombe monumentali, sculture, epigrafi cresciute ai suoi lati. Una strada in cui puoi letteralmente mettere i piedi sulle orme della storia: qua nel 37 a. C. viaggiarono insieme Orazio, Virgilio e Mecenate, da qua Carlo V volle entrare trionfalmente a Roma nel 1536, e come lui il generale Clark, liberatore americano di Roma nel 1944. 
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2 agosto: giorno di battaglie. 2

216 a.C., 2 agosto, Canne (Puglia). Nel corso della II guerra punica il cartaginese  Annibale sconfigge l’esercito di Roma guidato dai consoli Lucio Emilio Paolo e Gaio Terenzio Varrone.

PAOLO RUMIZ, L’inferno di Canne, la strage e l’epifania di una morte sconcia, “La Repubblica”, 11 agosto 2007, ora in Annibale. Un viaggio, Feltrinelli, 2008

VENTO e praterie. Lontano, lo scintillio dell’Ofanto e la striscia del mare davanti al Gargano. Non vedo che questo, mentre risaliamo a piedi la vecchia ferrovia Barletta-Canosa-Minervino. Nient’altro che vento, cicale, e il nostro “paso doble” sulle traversine. E poi ancora silenzio, ulivi, filari di vigne come eserciti, sudore, respiro pesante, sete. Intorno, solitarie masserie dai nomi incompatibili col sole libico che ci sovrasta: Maltempo, Epitaffio, Lamacupa.
Canne va raggiunta così, controvento, lontano dalle grandi strade, col sole di mezza estate allo zenith, nella controra quando l’ombra è pesante, i fantasmi escono come a mezzanotte, e i trapassati – come temeva Pitagora – si arrampicano per le radici delle fave. Caldo tremendo: come quel 2 agosto 186 avanti Cristo, quando in un pomeriggio il generale Annibale distrusse otto legioni.
“Guardati da questa bellezza” esala esausto Giovanni Brizzi. Non è solo la sete che gli abbassa la voce; è l’emozione.
Della battaglia sa tutto, ma per lui ogni volta è come la prima. Ci sediamo nel cono d’ombra della stazioncina “Canne della Battaglia”, magnifica nel suo rosso pompeiano d’ordinanza. Sopra di noi rotea un falco. Il luogo dell’ecatombe è davanti a noi, chiuso fra la vecchia linea e una barriera di colli sui sessanta metri.
Basta salire di poco verso il Monte San Mercurio e subito pare di affacciarsi su un’incommensurabile nulla, una voragine di luce che inghiotte ogni cosa e ti spara in una dimensione senza tempo. Siamo sul luogo dove la morte in battaglia raggiunse dimensioni inimmaginabili. Un evento fuori scala.
Sessantamila morti fanno seicento cataste di cento corpi ciascuna. Il doppio di Austerlitz. Più dei caduti americani in anni di guerra in Vietnam. E’ la più orrenda strage del mondo antico, l’epifania di una morte sconcia, deturpante. Una morte “moderna”; la stessa che Remarque racconta nella Grande Guerra. A Canne si celebra l’epitaffio del duello omerico, quello che finisce con i corpi lavati e profumati da consegnare all’eternità. Brizzi: “La battaglia di Cheronea fu un trauma per i Greci, ed ebbe quattromila caduti. Al confronto, Canne è l’inferno”.
Leggiamo da Tito Livio cosa si vide il mattino dopo. “Alcuni, cui le ferite morse dal freddo avevano fatto riprendere i sensi, nell’atto di alzarsi in piedi coperti di sangue furono annientati dal nemico… Altri erano distesi a terra anche se vivi, poiché avevano i femori e i garretti tagliati, scoprivano la nuca e la gola e invitavano i nemici a bere il sangue che rimaneva loro… Certuni furono trovati con le teste affondate in buche, ed era chiaro che da soli se l’erano scavate e che,
seppellendo i volti, col gettarvi sopra la terra si erano soffocati”.
Ma l’immagine più atroce è un’altra. La leggano, quelli che credono alla bellezza della guerra. “Attrasse l’attenzione di tutti un Numida ancor vivo, tratto col naso e gli orecchi mozzati di sotto a un Romano che gli si era steso sopra morto; questo, non servendogli più le mani per afferrare un’arma, aveva trasformato in rabbia la sua ira ed era spirato straziando con i denti il nemico”.
Canne è il macello di una classe dirigente che vuole combattere in prima linea, la morte di tre consoli ed ex consoli, di otto questori, quaranta tribuni, ottanta senatori. Il fratello minore di Annibale, Magone, portò a Cartagine tre canestri di anelli, tolti dalle dita degli “equites” in quella sola battaglia.
Canne è morti insepolti, divorati dai cani e spogliati delle loro armature; è gambe sgarrettate dal colpo di gladio dei cavalleggeri spagnoli; è “Detruncata corpora”, ferite che “ultra mortem patebant”; è agonia di settimane per infezione e setticemia senza un medico o un’infermiere sul campo. Non c’è la Croce Rossa a quei tempi; Canne è anche scannamento dei sopravvissuti, all’alba del giorno dopo. Un’ammucchiata sanguinolenta di vivi e morti.
Dalla cima del monte uno guarda la piana accanto alla ferrovia e dice: impossibile. E’ lo spazio di uno stadio. Invece no: a Canne tutto avviene davvero nello spazio di uno stadio. O meglio, di una tonnara. Avviene con la tecnica e i tempi di una tonnara. Per capire, devi averne visto una, con il mare che ribolle, le vittime che si ostacolano a vicenda e gli uomini come posseduti che cantano “alamoa alamoa, janzù janzù”, lanciano colpi d’arpione alla cieca.
Penso: ma la tonnara non è una pesca rituale inventata dai fenici e dai cartaginesi? Perché in tutte le altre battaglie, i morti sono dispersi su una scia, e invece qui sono concentrati in un fazzoletto di terra? Sessantamila caduti in un fazzoletto. Perché i Romani non si mossero di un pollice e si lasciarono massacrare?
Fa caldo da bestie, non è facile ragionare sotto un sole che accieca. Con un bastoncino Brizzi traccia segni nella ghiaia, parla di “superamento della falange macedone di Alessandro Magno”, di nascita della “manovra avvolgente”, di valorizzazione della cavalleria contro una legione basata sulla fanteria pesante. Ma di tutto, sotto il sole di Canne, capisco una cosa soltanto. Tre parole.
“Annibale-vinse-arretrando”. Vedo sulla ghiaia il fronte cartaginese convesso che si lascia investire, diventa concavo, poi si richiude, finché le cavallerie alle ali sigillano lo spazio rimanente, formando una camera della morte imperforabile come quella di una tonnara.
Ma ancora non basta, dico. I Romani erano novantamila, buon dio, più del doppio del nemico. Come poterono soccombere?
“Il numero eccessivo fu il limite. Combatterono in novantamila nello spazio in cui erano abituati a combattere in quarantamila. Si ostacolarono a vicenda e non riuscirono a reagire”. Non basta ancora…
“La cavalleria romana era inferiore e i fanti erano quasi tutti reclute, dopo le stragi sulla Trebbia e sul Trasimeno”.
Ma l’organizzazione romana era comunque una macchina mortale…

“Però i due consoli erano in disaccordo tra loro, e la tecnica del comando a giorni alterni giocava a favore di Annibale”.
La tonnara, la maledizione della tonnara… Forse Annibale non fece che applicare su terra le tecniche secolari di una civiltà di mare…
“Ti rispondo con Polibio: dopo Canne ‘risultò evidente ai posteri che in tempo di guerra è meglio avere la metà dei fanti rispetto ai nemici e un’assoluta superiorità in cavalleria, piuttosto che affrontare la battaglia con le forze più o meno uguali a quelle dei nemici’. Canne cambiò la storia della strategia”.
Beviamo limonata fresca sulla terrazza del museo, ascoltando il rumore del trenino per Barletta che taglia la campagna. Manifesti dell’associazione “Pro Canne” annunciano escursioni e ricostruzioni storiche sul campo. Ci ha raggiunto Vincenza Morizio, professoressa di storia romana all’università di Foggia, e discutiamo della suggestione ipnotica del luogo, di questo maledetti campi della morte che sono spesso di una bellezza sconvolgente.
Mi tormenta un dubbio. E se i generali avessero scelto questi luoghi non solo per motivi strategici, ma anche per costruire una cornice mitologica “indimenticabile”? Se così non fosse, come mai il campo di Waterloo riesce a emanare una pace arcadica anche sotto la pioggia? Non si spiega, altrimenti, come mai Gettysburg, dove gli americani ebbero nella guerra civile più morti che in Giappone o in Normandia, sia un idillio assoluto. Per non dire del mare di Lepanto, fra Itaca e Patrasso: divino spazio blu di quiete e maestrale.
E se fosse solo suggestione? E se Canne fosse altrove? Nel museo vedo che nella vallata si è trovato poco o niente che confermi l’ecatombe. Ma qui sono tutti d’accordo. Delle grandi battaglie non rimane mai nulla. Già di Waterloo non si trova più nulla. I corpi vengono spogliati di tutto ciò che serve, i contadini fanno il resto. Proprio la battaglia di Canne lo dimostra: i fanti libici si presentano, terribili, davanti alle legioni, indossando le armi tolte ai romani uccisi nella battaglia del Trasimeno. Mostrano al nemico la sua stessa morte. E poi, qui o altrove fa poca differenza. “Canne è un luogo della mente” ammette la Morizio che proprio lì ha imparato ad amare la storia antica. “Ricordo il generale Ludovico che illustrava la battaglia ai bambini delle elementari, rumorosissimi, poi questi scappavano fuori a mangiare fave, ma alla fine, davanti alla valle, si fermava il respiro anche nel loro petto di mocciosi”.

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2 agosto: giorno di battaglie.

338 a.C., 2 agosto, Cheronea (Beozia). Filippo II assieme al figlio Alessandro sconfigge le poleis greche alleatesi per contrastare l’egemonia macedone.

Nella battaglia fu annientato dalla cavalleria guidata da Alessandro il Battaglione sacro di Tebe.

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Adriano e Antinoo

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«Ho imposto al mondo questa immagine: oggi, esistono più copie dei ritratti di quel fanciullo che non di qualsiasi uomo illustre, di qualsiasi regina. Sulle prime, mi stava a cuore far registrare dalle statue la bellezza successiva d’una forma nel suo mutare; in seguito, l’arte divenne una specie di magia, capace di evocare un volto perduto».

M. Yourcenar, Memorie di Adriano, 1951

Antinoo, il giovane originario della Bitinia amato dall’imperatore Adriano, annegato nel Nilo verso il 130 d.c  e divinizzato dopo la sua morte,  è uno dei soggetti più diffusi della statuaria antica. LEGGI TUTTO…

«Quando mi volgo indietro a quegli anni, mi sembra di ritrovare l’Età dell’oro». A parlare è Adriano, afflitto da idropisia del cuore e ormai vicino alla morte. L’imperatore ricorda con nostalgia il viaggio in Asia Minore di un’estate lontana. Una sera, durante un incontro letterario, intravede un giovinetto in disparte, dall’aria pensosa e distratta al tempo stesso: ne rimane subito colpito, accosta la sua immagine a quella di un pastore nel cuore della foresta, lo avvicina.
Da allora Antinoo diventerà il prediletto dell’imperatore e lo seguirà ovunque come un animale: «Quel bel levriero, ansioso di carezze e di ordini, si distese sulla mia vita». Adriano, che porta via fisicamente il giovinetto dai suoi luoghi, è costretto a subire in realtà il rapimento più profondo, quello sentimentale: il dominatore del mondo viene soggiogato dalla bellezza acerba di Antinoo, dalla sua allegria che si mescolava con l’«indolenza di un cucciolo», dalla sua innocenza, dalla sua «amarezza ardente».
Nelle pagine centrali delle sue Memorie di Adriano, Marguerite Yourcenar punta sui risvolti tragicamente romantici della relazione: il potere universale si inchina, fino alla totale prostrazione, di fronte alla bellezza selvatica del ragazzino. Il loro rapporto entra in una cornice bucolica quando Adriano decide di accompagnare il suo giovane amico in Arcadia, dove si lascia possedere dalla forza trascinante del canto mentre osserva le dita del suo compagno muoversi delicatamente sulle corde tese della lira.
Ma nonostante le dolcezze reciproche non sarà un amore felice, perché il ragazzino è attratto dalla morte e ogni suo gesto ha il sapore della fine. A suicidio avvenuto (Antinoo a vent’anni sceglie di affogare nelle acque di un fiume egiziano), Adriano si chiede se i rimorsi che lo hanno animato non fossero anch’essi «un aspetto amaro di possesso», un modo per assicurarsi «d’esser stato fino alla fine lo sventurato padrone del suo destino», una maniera per impadronirsi delle responsabilità del ventenne in fuga dalla vita. Perché «avvilire quel raro capolavoro che fu la sua fine»? Lasciargli il merito della sua morte è l’ultimo, necessario, atto d’amore, forse il più doloroso.
Paolo Di Stefano, “Corriere della Sera”, 4 aprile 2012

PER APPROFONDIRE: Antinoo. La religione della bellezza.

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Villa Adriana: The Digital Project

La ricostruzione digitale di villa Adriana, patrimonio dell’UNESCO è un progetto a cura dell’IDIA Lab, in collaborazione con il Virtual World Heritage Laboratory (VWHL) dell’Università di Virginia (UVA), diretto da  Bernard Frischer e fondato dalla National Science Foundation.

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A proposito di Caligola

Tanta illi palloris insaniam testantis foeditas erat, tanta oculorum sub fronte anili latentium torvitas, tanta capitis destituti et ~emendacitatis~ capillis adspersi deformitas; adice obsessam saetis cervicem et exilitatem crurum et enormitatem pedum. 

«Tanto era ripugnante il suo pallore, sintomo di pazzia, tanto erano torvi i suoi occhi, infossati sotto una fronte da vecchia, tanto era brutta la sua testa, spelata e spruzzata di un po’ di capelli; aggiungi il collo irsuto di ispidi peli, e le gambe sottili e i piedi enormi.»
Seneca,  De constantia  sapientis,  18, 1

Iulius Caesar Germanĭcus (Anzio, 12 d. C. – Roma, 41 d. C), figlio di Germanico e di Agrippina maggiore, soprannominato Caligula dalla calzatura militare (calǐga) che portò fin da fanciullo, divenne princeps alla morte di Tiberio, nel 37 d. C. Quattro anni dopo, nel 41 d.C., fu ucciso in una congiura di pretoriani.  LEGGI TUTTO…

“Seneca è stato il primo […] a parlare nei suoi scritti, a proposito di Caligola, di pazzia (furor e insania). Ma se si esaminano con maggior attenzione quei passi, si constata come egli non abbia emesso alcun giudizio clinico, ma si sia limitato, colmo di odio, a rimproverare all’imperatore defunto un comportamento tirannico e l’annientamento della libertà. Lamenta la vergogna che sarebbe così ricaduta sul l’Impero romano. Il termine «pazzia» è usato come un insulto per fustigare l’immoralità e il sovvertimento di tutte le convenzioni aristocratiche. In senso analogo Seneca parla di «pazzia» anche quando descrive quelle donne che, dedite a un lusso esagerato, portavano appesi alle orecchie gioielli del valore di due о tre patrimoni di famiglia. È infine da sottolineare come in diversi passi dei suoi scritti abbia usato per Alessandro Magno espressioni quasi identiche, definendolo «folle» e «megalomane», un parallelo sul quale Caligola non avrebbe avuto nulla da obiettare”. A. Winterling, Caligola. dietro la follia, Roma-Bari, Laterza, 2005

“Questo resterà il gran segreto del mio regno. Tutto quello che oggi mi si può rimproverare è di aver fatto qualche passo avanti sulla via della potenza e della libertà.  Per un uomo che ama il potere, la rivalità degli Dei ha un leggero sapore di provocazione.  Io l’ho soppressa. Ho provato a questi Dei illusivi che un uomo, se ne ha voglia, può  esercitare senza tirocinio il loro ridicolo mestiere”.

A. Camus, Caligola, 1937-1958, I atto, IV scena

Elicone: Buon giorno Gaio.
Caligola: Buon giorno Elicone.
Elicone: Sembri affaticato.
Caligola: Ho camminato molto.
Elicone: Sì, la tua assenza è durata a lungo.
Caligola: Era difficile da trovare.
Elicone: Che cosa?
Caligola: Ciò che volevo.
Elicone: E che volevi?
Caligola: La luna.
Elicone: Cosa?
Caligola: La luna. Sì, volevo la luna.
Elicone: Ah, e per fare cosa?
Caligola: Ebbene, è una delle cose che non ho.
Elicone: Sicuramente. E adesso è tutto a posto?
Caligola: No, non ho potuto averla.
Elicone: è seccante
Caligola: Sì, ed è per questo che sono affaticato… Elicone…
Elicone: Sì, Gaio?
Caligola: Tu pensi che io sia folle…
Elicone: Sai bene che io non penso mai. Sono troppo intelligente per pensare.
Caligola: Sì, d’accordo. Ma non sono folle e posso dire perfino di non essere mai stato così ragionevole come ora. Semplicemente mi sono sentito all’improvviso un bisogno di impossibile. Le cose così come sono non mi sembrano soddisfacenti.
Elicone: E’ un’opinione abbastanza diffusa.
Caligola: E’ vero, ma non lo sapevo prima. Adesso lo so. Questo mondo così com’è fatto non è sopportabile. Ho bisogno della luna, o della felicità o dell’immortalità, di qualcosa che sia insensato forse, ma che non sia di questo mondo.
Elicone: E’ un ragionamento che sta in piedi. Ma, in generale, non lo si può sostenere fino in fondo, non lo sai?
Caligola: Tu, Elicone, non ne sai nulla; è perchè non si sostiene mai fino in fondo che nulla è mai ottenuto. Ma basta forse restare logici fino alla fine. Io so ciò che pensi. Quante storie, tu pensi, per la morte di una donna di cui ero innamorato. No, no, non è questo; credo di ricordarmi che una donna che amavo qualche giorno fa è morta.Ma cos’è l’amore? Poca cosa. Questa morte non è niente, te lo giuro. Essa è solo il segno di una verità che mi rende la luna necessaria. E’ una verità molto semplice e perfettamente chiara, un po’ stupida per te, ma difficile da scoprire e pesante da portare.
Elicone: E qual è questa verità, mio imperatore?
Caligola: Gli uomini muoiono e non sono felici.
Elicone: Andiamo, Gaio, questa è una verità con la quale ci si può benissimo arrangiare! Guardati attorno; non è questa una verità che impedisca loro di mangiare e di ballare.
Caligola: Allora è che tutto attorno a me è menzogna, questi uomini sono tutta menzogna, e io, io voglio che si viva nella verità. Da imperatore voglio che si viva nella verità , e io ho proprio i mezzi per farli vivere nella verità, poiché io so ciò che manca loro, Elicone. Essi sono privi di conoscenza e manca loro un maestro che sappia ciò di cui si parla.
Elicone: Non offenderti, Gaio, di ciò che ti sto per dire, ma dovresti prima riposarti un po’… sei stanco.
Caligola: Questo non è possibile, Elicone, non sarà mai più possibile.
Elicone: Perché dunque?
Caligola: Se dormo, chi mi darà la luna?
Elicone: Questo è vero.
Caligola: Ascolta, Elicone, sento dei passi e un rumore di voci. Non parlare e dimentica di avermi appena visto.
Elicone: Ho capito.
Caligola: E, ti prego, aiutami ormai.
Elicone: Non ho ragioni per non farlo, Gaio, ma non so molte cose e poche mi interessano. In che cosa, dunque, ti posso aiutare?
Caligola: Nell’ impossibile.
Elicone: Farò del mio meglio!

 

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La catastrofe siriana

Siria, tre anni di guerra civile: contro l’umanità, contro la storia, contro la civiltà.

Il rapporto ONU. LEGGI TUTTO…

‘Stop the destruction’: THE SYRIA CAMPAIGN contro la distruzione e spoliazione del patrimonio culturale siriano.

It’s important that our heritage is preserved, not only for its intrinsic beauty and historical value, but also because it helps us reconstruct Syrian identity.

Dr. Amr Al-Azm, Director of Science and Conservation Laboratories at the General Department of Antiquities and Museums in Syria, 1999-2004)

Palmira, 2014

Dal sito del Dipartimento di Stato americano: i siti culturali a rischio in Siria. CLICCA QUI per scaricate l’immagine in PDF.

Le foto del saccheggio e della distruzione: Dura Europos, Mari, Tell Sheikh Hamad.

ICOM: la comunità internazionale dei musei del mondo ha pubblicato la EMERGENCY RED LIST del patrimonio culturale siriano a rischio, “with the aim to help art and heritage professionals and law enforcement officials identify Syrian objects that are protected by national and international legislations. In order to facilitate identification, the Emergency Red List illustrates the categories or types of cultural items that are most likely to be illegally bought and sold.”

Siria: splendore e dramma. Roma, Palazzo Venezia, apertura fino al 31 agosto. La  mostra è stata organizzata dalla Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Roma assieme all’Associazione Priorità Cultura, alla Missione Archeologica Italiana in Siria – Università La Sapienza di Roma ed in collaborazione con Institute for Cultural Diplomacy, Berlino.

Il video di presentazione, di Matteo Barzini. Musiche di Ennio Morricone.

“El Paìs” propone un’inchiesta sulla sistematica spoliazione e distruzione del patrimonio archeologico siriano: Miguel Ángel García Vega, La destrucción sistemática del patrimonio sirio, luglio 2014.

Il sito archeologico di Apamea in una foto satellitare del luglio 2011

Ecco come appariva Apamea il 4 aprile 2012: sono visibili le centinaia di perforazioni illegali.

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Il Pantheon

Il primo Pantheon fu fatto costruire nel 27-25 a.C. da Marco Vipsanio Agrippa (63 – 12 a.C),  collaboratore e genero di Augusto, nel quadro del rifacimento monumentale dell’area del Campo Marzio. L’iscrizione originale di dedica dell’edificio, conservata nella  successiva ricostruzione di epoca adrianea, recita:

M. AGRIPPA L. F. COS. TERTIVM. FECIT

“Marco Agrippa, figlio di Lucio, console per la terza volta, edificò”

Il tempio dedicato a tutti gli dei fu fatto ricostruire dall’imperatore Adriano intorno al 126 d. c., dopo che diversi  incendi avevano danneggiato la costruzione di età augustea.  All’inizio del VII secolo il Pantheon fu convertito nella chiesa cristiana di  Santa Maria ad Martyres.

L’edificio è costituito da un pronao collegato ad un’ampia cella rotonda per mezzo di una struttura rettangolare intermedia. La celebre cupola, realizzata con una sola gettata e decorata all’interno da cinque ordini di ventotto cassettoni, ha un diametro di 8,92 m.

Per approfondire CLICCA QUI.

Nel video una ricostruzione virtuale del tempio a cura dell’IDIA LAB:

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Alessandria durante il regno di Cleopatra

Ecco una ricostruzione virtuale della multietnica città fondata da Alessandro il Grande nel 331 e capitale dell’Egitto tolemaico. Cuore della cultura ellenistica, durante il regno di Cleopatra (51 – 30 a.C.) contava circa 325.000 abitanti.

FERNANDO G. BAPTISTA AND AMANDA HOBBS, NGM STAFF ART: JAIME JONES. NGM MAPS SOURCES: EUROPEAN INSTITUTE OF UNDERWATER ARCHAEOLOGY (IEASM); EGYPT’S SUNKEN TREASURES: THE ANCIENT CITY OF ALEXANDRIA, ASAHI SHIMBUN AND TOPPAN PRINTING; JUDITH MCKENZIE, THE ARCHITECTURE OF ALEXANDRIA AND EGYPT; DUANE W. ROLLER, OHIO STATE UNIVERSITY

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