Bimillenario ovidiano. Dialogo postmoderno con l’esule linguistico

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Rossana Valenti, “Il Manifesto – Alias”, 9 luglio 2017

Derek Walcott e Josif Brodskij hanno assunto il poeta augusteo non come modello ma come «destinatario»: e così ne hanno fatto un personaggio

Può apparire come un singolare paradosso la circostanza per la quale la ‘fortuna’ di Ovidio − come viene definito quell’insieme di elementi costituiti dalla diffusione della sua opera, gli studi che ha suscitato, gli influssi su altri poeti – sia oggi legata a un evento che Ovidio stesso non esita a definire frutto della sua miserrima fortuna (Tristezze III, 11): l’esilio e la condizione dell’esule.
Tra i temi che costituiscono la cifra più ‘attuale’ e immediatamente riconoscibile dell’opera ovidiana – la concezione dell’amore, la metamorfosi, l’esilio – mi sembra infatti soprattutto quest’ultimo oggi al centro dell’attenzione: ciò avviene non solo quest’anno, in concomitanza con la celebrazione del bimillenario della morte, con un naturale e immediato riferimento alla condizione in cui Ovidio morì, ma già da qualche tempo in diversi contesti è apparsa una nuova e fertile lettura del poeta latino come drammatico cantore dell’esule e della sua pena.
L’attenzione che viene accesa su un classico si manifesta lungo linee distinte, tra loro correlate: la critica, l’editoria e la pubblicistica, il mondo della scuola, e infine gli artisti e gli altri poeti: sono soprattutto questi ultimi che oggi leggono nella vicenda biografica di Ovidio, e nell’ultima parte della sua produzione poetica, la rappresentazione di una condizione umana sradicata, ferita, offesa, nella quale si riconoscono e che vogliono a loro volta esprimere. Essi assumono Ovidio non come ‘modello’, ma come destinatario del loro fare poetico, intrattenendo con lui un dialogo che attraversa, indenne, il tempo, le contingenze storiche, gli schemi mentali, espressi in lingue e culture diverse. Si delinea in questi termini un’idea e una pratica della ricezione ovidiana come ‘conversazione’, un contatto tra universi artistici lontani, che non si limita al giudizio critico ma è piuttosto un segno di intesa, di comprensione reciproca e profonda.
Uno degli autori contemporanei che più di ogni altro si è rivolto a Ovidio è Derek Walcott, il poeta caraibico recentemente scomparso, premiato con il Nobel nel ’92, che illumina bene la dimensione postcoloniale come ibridazione tra l’Occidente, rappresentato per lui dal latino e dall’inglese, e le terre di conquista, in questo caso l’isola di Santa Lucia nei Caraibi – il luogo di nascita di Walcott –, la cui lingua è il creolo. Walcott dichiara di scrivere per i poeti morti, e in alcune sue raccolte di versi (Hotel Normandie Pool del 1981 e Midsummer del 1984) dialoga con il fantasma di Ovidio, chiedendosi, e chiedendogli, se è corretto usare l’inglese per un poeta caraibico, se scrivere in inglese non significa forse di per sé militare nei ranghi della Regina: «No language is neutral». Il rapporto tra la lingua acquisita (l’inglese) e la propria (il creolo) appare rovesciato rispetto al bilinguismo lamentato da Ovidio, che più volte dichiara nelle opere dell’esilio di avere dimenticato il latino, a mano a mano che cominciava a usare la lingua dei Geti e dei Sarmati: quella perduta è per Ovidio la lingua dell’Impero e della tradizione letteraria alta, a vantaggio di una lingua definita barbara e ferina; ma il movimento che permette a Walcott di avvicinare la sua vicenda a quella ovidiana va oltre un processo di semplice ripresa, o di rovesciamento, di situazioni e temi, per toccare invece un punto nevralgico della condizione dell’esule, o dell’emarginato: la perdita, l’esilio dalla propria lingua prima ancora che dalla terra di origine. In questi termini, il riferimento a Ovidio non è per Walcott semplicemente un gioco di allusioni o di rispecchiamento, ma è piuttosto l’instaurazione di un rapporto personale, che porta allo scoperto un’istanza nuova, nascosta nelle pieghe del testo antico, un’istanza che coinvolge in profondità la poetica dell’autore moderno.
Un altro poeta che trova ispirazione nell’Ovidio esule è Josif Brodskij, anch’egli insignito del premio Nobel, nel 1987. Condannato nel ’64 al massimo della pena prevista per il reato di parassitismo (cinque anni di lavori forzati nel distretto di Konoš), Brodskij si identifica con l’Ovidio dell’esilio («as if Ovid is alive”) e, definendosi abitante della «Scizia settentrionale», più di una volta scrive di ritenere Ovidio, «sbattuto fuori da Roma dall’amato Augusto di Orazio», il più grande tra i poeti latini. Ovidio è peraltro molto presente sia nella poesia di Anna Achmatova, sia in quella di Osip Mandel’štam, che addirittura ha ripreso per una sua raccolta il titolo dei Tristia («Io so la scienza dei commiati, appresa / fra lamenti notturni e chiome sciolte»). In un’opera intitolata Otryvok (Frammento), datata 1964-’65 e scritta a Norenskaja durante il confino, Brodskij propone un confronto tra la sua situazione personale e quella di Ovidio: ambedue sono soggetti a un provvedimento che li condanna all’isolamento forzato; ambedue non sono esiliati nel senso stretto del termine. I primi quattro versi della prima ottava ci presentano il poeta che parla di Ovidio in terza persona, usando il cognomen: «Nasone non è pronto a morire. / Perciò è cupo. / Il gelo della Sarmazia / gli confonde la mente». Davvero Ovidio si rifiutò di morire: nella X elegia del IV libro dei Tristia, egli rivendica alla poesia la forza che lo tiene in vita, che lo spinge a ostinarsi contro i duri disagi ai quali è stato condannato. Sulla stessa linea, Brodskij ricorda i freddi della Sarmazia – la denominazione che i Romani davano alla regione a est della Vistola e che comprende parte delle odierne Polonia e Russia sud-occidentale; osserva la tristezza di Nasone e chiude la prima ottava con quattro versi che non è chiaro se appartengano al discorso mentale di Ovidio stesso oppure se siano ancora parole del poeta che lo osserva: «Più vicina di Roma sei tu, o stella. / Più vicina di Roma è la morte. / Il vantaggio è che a lei / si può guardare». Nella sua Nobel Lecture il poeta russo disse che se l’arte insegna qualcosa (all’artista, in primo luogo), questa è l’interiorità della condizione umana. Essendo la più antica e la più letterale forma di un gesto personale, l’arte promuove in un uomo – che ne sia o meno consapevole – il senso della sua unicità, individualità, separatezza, così trasformandolo da animale sociale in autonomo «io». Il poeta così proseguiva: «Molte cose possono essere condivise: un letto, un pezzo di pane, convinzioni, un’amante … ma non una poesia, ad esempio, di Rainer Maria Rilke. Un’opera d’arte, di letteratura soprattutto, e una poesia in particolare, intrattiene con un uomo un rapporto tête-à-tête, entrando con lui in una relazione diretta, libera da ogni mediazione».
Proprio questo rapporto ‘personale’, libero da mediazioni, costituisce l’aspetto a mio parere più interessante della ricezione moderna della poesia antica: la cultura classica ha raggiunto un profilo elevato nella poesia contemporanea, mentre il numero di lettori che oggi è in grado di leggere in originale le opere greche e latine è drasticamente diminuito. Se da un lato le discipline classiche sono state spinte ai margini della moderna vita intellettuale, dall’altro la classicità ha guadagnato un’attenzione diffusa e profonda, grazie alla maggiore accessibilità di testi e opere attraverso le traduzioni. I più grandi poeti contemporanei legati alla tradizione del classico provengono, in grandissima parte, da zone periferiche del mondo culturale, nelle quali il latino ha da tempo perso la centralità sul piano della formazione, e il canone degli autori da leggere non ha più al suo vertice i poeti classici: ma proprio la «sconsacrazione» di grandi opere poetiche, nel senso della fine della loro centralità culturale come testi canonici e immutabili, in genere conosciuti e letti nelle loro lingue originali, permette ai poeti moderni di creare nuove opere ‘classiche’ usando materiali classici e soprattutto attivando un processo di identificazione personale con i greci e i latini, perché trovano in loro temi politici e sociali che sentono coerenti e vicini a quelli emergenti nei loro paesi d’origine. Si volgono alla tradizione classica, quindi, non in spirito di omaggio, ma con un atteggiamento di serena, limpida appropriazione.
In sede teorica, sta emergendo, soprattutto in ambito anglosassone, un filone di ricerca che viene identificato con il nome di career criticism, il cui oggetto è l’autorappresentazione che poeti e scrittori dell’antichità hanno dato di se stessi, presentando la loro opera come un insieme organico e completo: in questa operazione essi hanno spesso ripreso e ricalcato situazioni esterne, eventi, circostanze della vita di altri autori presi a modello, in un procedimento di aemulatio destinato a immensa fortuna nel mondo antico. Emerge in queste analisi il tentativo di rileggere la dimensione esistenziale del poeta antico, cogliendo nelle sue parole l’immagine e la rappresentazione di se stesso consapevolmente orientata e costruita. Uno dei più analizzati nell’ambito del career criticism è proprio Ovidio, che presenta se stesso come novello Ulisse, dando uno spessore letterario alla personale, bruciante esperienza dell’esilio. Ulisse è il narratore di se stesso: è dal suo stesso racconto nei libri IX-XII che l’Odissea prende forma, e le avventure che egli narra sono le tappe non solo di un viaggio, ma anche di un percorso attraverso il ricordo. La stessa circostanza si produce nel racconto ovidiano: ma in questo caso poeta e personaggio si fondono l’uno nell’altro; non c’è più la distanza epica tra il poeta e il racconto, c’è una sola, drammatica, identità, e la voce che si leva dalla poesia è al contempo quella dell’autore e del protagonista al centro di una vicenda sconvolgente.
A differenza di Cicerone, Ovidio non dà una risposta politica al suo esilio, e, a differenza di Seneca, non ne dà una filosofica. Forse questa è una delle ragioni che fanno di Ovidio un poeta e un personaggio moderno, in cui tutti gli esuli, di qualunque condizione, si possono riconoscere.

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Illusione più meraviglioso, il modello ‘Metamorfosi’

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Mario Citroni, “il manifesto – Alias”,  9 luglio 2017

Bimillenario ovidiano . L’intrinseca figuratività della maniera ovidiana nel saggio «Narciso e Pigmalione» di Gianpiero Rosati, Edizioni della Normale

Va salutata con molta soddisfazione la scelta delle Edizioni della Normale di ridare vita a un libro importante e ormai introvabile: Gianpiero Rosati, Narciso e Pigmalione Illusione e spettacolo nelle Metamorfosi di Ovidio (pp. 177). Il saggio, agile e brillante (alla sua prima uscita, da Sansoni, nel 1983, fu finalista al Premio Viareggio), muove da una raffinata analisi di due celebri episodi delle Metamorfosi per farne discendere un’interpretazione generale del poema e della poetica che lo sostiene. Un’interpretazione che conserva oggi tutta la sua validità, e anzi si propone con l’ulteriore forza che le deriva dal fatto di essere divenuta nel frattempo un punto di riferimento negli studi ovidiani: critici italiani e stranieri di orientamenti diversi continuano a confrontarsi con questo saggio di Rosati e a sviluppare, in direzioni anche in parte diverse, linee interpretative in esso tracciate. Una sintetica serie di indicazioni su tali percorsi negli studi più recenti la offre Rosati stesso nella nuova prefazione che apre il volume.
Quando il saggio apparve la prima volta, su Ovidio ancora gravava il pregiudizio postromantico di superficialità disimpegnata, di virtuosismo godibile ma un po’ futile. Rosati è stato tra i primi a cercare significati profondi e attuali entro questo presunto disimpegno. Il suo saggio si è posto così, con pochi altri, alle soglie di quella spettacolare ripresa di interesse per Ovidio che sarebbe poi presto seguita, che ancora continua anche fuori degli ambiti specialistici, e che ha fatto parlare di questi decenni, in campo letterario, come di una nuova aetas Ovidiana.
Il tema dominante
In quanto grande repertorio di miti, le Metamorfosi suscitavano interesse per gli approcci all’antico di tipo antropologico o di tipo psicoanalitico. Un tratto particolarmente originale di Rosati è la dimostrazione che nella scrittura ovidiana dei miti di Narciso e di Pigmalione il tema dominante non è quello erotico, non è la deviazione dell’oggetto del desiderio, come era parso a larga parte della ricezione successiva: ai padri della Chiesa, a diversi successivi moralismi e soprattutto, appunto, alla psicoanalisi. Questo elemento è, certo, presente ma più importa a Ovidio il tema dell’illusione, che il poeta esalta anche attraverso il legame, non prima attestato, dell’inganno visivo di cui Narciso è vittima per opera della sua immagine con l’inganno acustico di cui egli è vittima per opera della ninfa Eco. In Ovidio, Narciso non ama se stesso ma il giovane che vede nello stagno credendolo altro da sé: quando scopre che quel giovane è la propria immagine, muore per la sofferenza dell’illusione frustrata. Pigmalione sa che la statua è solo una statua, l’ha creata lui: ma tale è la potenza illusionistica dell’arte, che è spinto a desiderarla perché appare donna viva e non statua. Dalla dimostrazione convincente, e coinvolgente, della centralità del tema dell’illusione, del tema degli incerti limiti tra realtà e immagine di essa in Narciso e in Pigmalione, Rosati ricava la valenza meta-poetica dei due miti, come emblemi delle intenzioni di un poema dedicato appunto alla universale ingannevole mutevolezza delle forme e del loro apparire. Narciso attribuisce realtà autonoma a suoni (la voce di Eco) o immagini (la propria) create da un mero gioco di riflessi. Pigmalione crea un’immagine ideale con arte così perfetta da apparire natura, ma che solo grazie al miracolo della metamorfosi sarà natura. Così il poeta crea, nelle Metamorfosi, un mondo di immagini improbabili, cercando di illudere il lettore della loro realtà e al tempo stesso suggerendogli, con complici cenni di intesa e suggestioni ironiche, la consapevolezza che si tratta solo di un gioco di illusioni. In tal modo Ovidio ci propone di vedere il mondo come governato da una legge segreta di mutevolezza, in cui ciò che sembra reale e definitivo rivela improvvisamente la sua natura transitoria, o si rivela come inganno, travestimento, identità camuffata, equivoco fatale.
La forma si fa contenuto
L’ultimo capitolo sperimenta questa chiave di lettura attraverso l’intero poema con analisi a campione su passi che verificano sia gli aspetti che abbiamo qui riassunti, sia altri che non ho qui lo spazio per esporre. Segnalo solo le raffinate analisi stilistiche che mostrano come in Ovidio la forma linguistica a volte sappia mimare il contenuto fino al punto di identificarsi con esso, «di farsi essa stessa contenuto» (p. 38): caso emblematico, gli effetti di specularità linguistica che accompagnano gli episodi di Eco e Narciso. Molta evidenza ha in tutto il saggio il tema della visualità: le vicende di metamorfosi sono sottoposte allo sguardo del lettore come uno spettacolo, stupefacente e ammaliante. Il lettore è indotto, sia da frequenti richiami all’atto del vedere, sia dalla tecnica stessa della rappresentazione, a sovrapporre la dimensione verbale con quella della visione, e questa a sua volta è visione di immagini in cui l’illusione di realtà propria della poetica figurativa classica si incontra, con effetti di grande suggestione, con l’ovvia irrealtà empirica delle scene di metamorfosi. L’immenso ruolo avuto dalle Metamorfosi come fonte di temi e immagini per le arti figurative antiche e moderne, e a sua volta la probabile (ma raramente dimostrabile) dipendenza di molta della immaginazione ovidiana da rappresentazioni figurative, vengono da Rosati connessi a una intrinseca ‘figuratività’ della maniera ovidiana di rappresentare personaggi, azioni, scene e paesaggi.
Questo è uno dei temi del libro che ha avuto maggiore influenza sugli studi successivi. Rosati lo connette a una tendenza profonda della sensibilità del tempo verso l’estetizzazione, il compiacimento ‘narcisistico’ per l’elaborazione artistica. Una visione appunto estetizzante che investe anche la percezione della realtà naturale, considerata attraverso il filtro dell’arte. Rosati identifica, nell’episodio di Pigmalione e in altri luoghi ovidiani, il concetto per cui l’arte, con la sua opera di raffinazione e idealizzazione, che esclude l’accidentalità del dato naturale, diventa modello di perfezione per la natura, capovolgendo la dominante concezione antica, e non solo antica, secondo cui l’arte è imitazione, sempre imperfetta, della natura. Rosati segnala gli importanti sviluppi che questa idea avrà nella letteratura, ma anche, tipicamente, nell’architettura dei giardini, e nella generale visione della realtà in età flavia.
L’elemento meraviglioso era presente nei miti, e dunque nella tradizione epica: in Omero, nell’Eneide. Ma nell’epica latina era marginalizzato rispetto a istanze generalmente umane, e anche storiche e senz’altro politiche. Orazio nell’Ars poetica rifiuta il meraviglioso. Proprio la metamorfosi gli appare il culmine dell’irrealtà, impossibile perciò da porre sulle scene, davanti allo spettatore, che reagirebbe con disgusto. Vitruvio, negli stessi anni, esprime sdegno per le raffigurazioni pittoriche di mostri in base a un’esigenza di naturalità e realismo analoga a quella di Orazio: ma così attesta l’esistenza di una tendenza opposta, impaziente di un’arte standardizzata sui modelli ‘naturali’. Ovidio ha il coraggio di fare ciò che Orazio vietava: ‘mette in scena’, con la potenza del suo illusionismo, tutto un universo di metamorfosi. Contrastando la tendenza naturalistica dominante, dando spazio alle istanze che Vitruvio e Orazio combattono, ha il coraggio di dedicare un intero vasto poema alla messa in scena di un mondo surreale di presenze ingannevoli, di identità incerte e fluttuanti, che induce ad ogni passo il lettore a mettere in dubbio la fondatezza del presunto ‘reale’ con cui si confronta quotidianamente. Una scelta di grande audacia, una sfida che non per caso ha nuovamente affascinato la coscienza novecentesca e postmoderna, e di cui Rosati dimostra la piena consapevolezza da parte dell’autore.

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Pericle campione della democrazia ma anche spietato imperialista

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Giorgio Ieranò, “La Stampa Tutto Libri”, 8 luglio 2017

Lo storico esplora la figura di un eroe ambiguo avvolto dalla leggenda e ne ricostruisce la fama postuma: dal critico Montaigne all’ammirato Hitler

Chi era Pericle? Ovvio, si dirà: era l’artefice dello splendore di Atene nell’età classica, quando a teatro andavano in scena i drammi di Sofocle e sull’Acropoli si costruiva il Partenone. Ed era il simbolo della democrazia, il campione di quel «governo del popolo» che, sotto la sua guida illuminata, si realizzò come non mai nella storia umana. Anche in anni recenti, l’Epitafio di Pericle, cioè il discorso per i caduti nella guerra contro Sparta che lo storico Tucidide fa pronunciare allo statista ateniese nel 430 a. C., è stato spesso citato e recitato come un inno ai valori democratici. Nessuno però recita l’altro discorso di Pericle che compare nell’opera tucididea. Un discorso cinicamente imperialista, dove si ricorda agli ateniesi che il loro dominio sulle città e sulle isole dell’Egeo «è come una tirannide: esercitarla può essere ingiusto ma abbandonarla ci espone al pericolo». E, spesso, si sorvola anche sul bilancio che Tucidide fa del governo pericleo: «Una democrazia solo a parole, ma nei fatti il governo del primo cittadino».  
Artefice dello splendore di Atene nell’età classica, quando sull’Acropoli si erigeva il Partenone 
Pericle, insomma, è figura ambigua. Ci appare come un fautore della democrazia ma anche come un leader carismatico e autoritario. Un uomo schierato con il popolo ma anche un aristocratico sdegnoso. Un illuminato promotore delle arti ma anche un imperialista spietato che reprime nel sangue ogni tentativo degli alleati di liberarsi dal dominio di Atene. Un politico che gode di un consenso straordinario ma che già ai suoi tempi è oggetto di attacchi ferocissimi. Prima i poeti comici e poi Platone lo accusarono di essere un guerrafondaio e un demagogo, corrotto e corruttore del popolo. Si puntava il dito anche contro il «cerchio magico» dei suoi amici: a partire da Fidia, l’artefice del Partenone, finito in galera con l’accusa di essersi intascato i soldi stanziati per la costruzione del tempio. Lo si dipingeva persino come un malato di sesso, che al povero Fidia chiedeva pure di organizzargli incontri segreti con signore della buona società ateniese. Raccontare Pericle è dunque difficile. Anche lo storico francese Vincent Azoulay, nella sua nuova biografia, non può che muoversi sul crinale di queste ambiguità. Pericle, dice Azoulay, non va né idealizzato né demonizzato. Bisogna piuttosto leggere la sua figura sullo sfondo del gioco complesso che, nell’Atene democratica, intercorre tra il carisma del leader e il potere delle masse. Pericle è un aristocratico che deve sfruttare, ma al tempo stesso mascherare, i privilegi che gli derivano dalla nascita e dalla ricchezza, cercando un rapporto con il popolo, dal cui favore, comunque, deriva il suo potere. 
Il suo profilo umano sfugge: secondo Plutarco pianse una sola volta, quando morì il figlio Paralo  
Della vita di Pericle, del resto, le cose che sappiamo con certezza sono poche. Il suo profilo umano ci sfugge. Sappiamo della prima moglie, che le fonti neppure nominano, con la quale concorda un divorzio, perché, scrive Plutarco, «la convivenza non riusciva gradevole a nessuno dei due». Sappiamo della morte del figlio Paralo: l’unica volta in cui, racconta sempre Plutarco, Pericle fu visto piangere. E poi ci fu l’amore per Aspasia, donna libera e, per di più, straniera: un doppio scandalo agli occhi dell’ateniese medio. Ma, a parte quanto Tucidide racconta sui suoi ultimi anni, fino alla morte (429 a. C.) nell’epidemia di peste che colpì Atene, il resto è spesso leggenda. Per capire davvero Pericle, dunque, bisogna innanzitutto capire come si siano formate certe leggende e certe tradizioni. E’ questo il lavoro che fa Azoulay. E forse la parte più interessante del suo libro è la seconda, dove si ricostruisce la fama postuma di Pericle. Azoulay dimostra che, fino al Settecento, il mito di Pericle non esisteva: di lui si parlava poco e, in genere, male. Per Montaigne, era solo un demagogo chiacchierone: nella severa e ben governata Sparta, scriveva, «lo avrebbero fatto fustigare». Per Mably, era «un tiranno che blandiva la massa per imporsi sui suoi rivali». Solo a partire dall’Ottocento, con l’idealizzazione della democrazia ateniese, nasce il mito di Pericle. Il quale, comunque, avrà tra i suoi ammiratori anche Adolf Hitler: nella Germania nazista, i paragoni tra lo stratego ateniese e il Führer si sprecavano. A riprova del fatto che, come già sapeva Tucidide, identificare Pericle con la democrazia non è poi così ovvio. 

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Straniero, ospite o nemico: cosa ci insegna la Storia

Marino Niola, “La Repubblica”, 4 luglio 2017

L’ONDA di piena dei migranti scuote l’Italia e la mette di fronte al dilemma dell’accoglienza. Ricevere a oltranza e rischiare di essere sommersi. O respingere per arginare la marea e porre fine agli effetti collaterali di Frontex. I fatti di questi giorni hanno reso la questione indifferibile.
LA MINACCIA di chiusura dei porti, il timore sempre più strisciante di un’invasione fuori controllo, la percezione di un limite di sicurezza ormai superato, la delusione per l’indifferenza di un’Europa solidale a parole e farisaica nei fatti.
Gli episodi sono nuovi ma la questione viene da molto lontano. E per leggere fino in fondo il tumulto delle nostre emozioni, la confusione nella quale ci troviamo, può essere utile fare un passo indietro, verso la sorgente dei nostri valori e dei nostri timori. Visto che in realtà, sin dall’antichità, lo straniero è l’ospite ma potenzialmente anche il nemico. E questa doppia possibilità è scritta a chiare lettere nelle parole chiave delle civiltà mediterranee, quelle che hanno permeato la nostra cultura e formattato il nostro immaginario. Basti pensare che il latino hostis significava lo straniero ma anche il nemico. Una parola che è stata a doppio taglio per molti secoli della storia di Roma, prima che comparisse il vocabolo hospes, che equivale al nostro ospite. E il greco xenos (da cui espressioni come xenofobia) indicava il forestiero da accogliere e onorare, ma anche lo sconosciuto di cui verificare l’integrabilità. Il che vuol dire che ci troviamo di fronte a figure inestricabilmente intrecciate sin dai primi passi delle nostre civiltà. Insomma, il dilemma dell’accoglienza non nasce oggi. Perché il rapporto con chi viene da fuori oscilla, per sua natura, tra un estremo ospitale e un estremo ostile. È la regolamentazione della relazione a stabilire il giusto equilibrio tra respingimento e accoglimento. Per evitare che l’arrivo di altri uomini diventi un’epidemia inarrestabile. È significativo che il mito e la tragedia greca usassero proprio la parola “epidemie” per definire i rituali riservati agli dèi forestieri. Come Dioniso, l’altro per antonomasia, il nume sconosciuto che giungeva inatteso dal mare. Alla deriva su un’imbarcazione di fortuna. Come i gommoni di ora, privati di motore e timone da trafficanti senza scrupoli. I rituali epidemici prevedevano una cattiva accoglienza del dio, la cui barca veniva inizialmente ricacciata indietro. Così la parola del passato che, dalle sue profondità lontane, parla di noi nel suo presente-remoto anticipando ciò che stiamo vivendo oggi. Secondo il celebre grecista Marcel Detienne, il termine epidemia, in origine, non apparteneva al vocabolario della medicina ma a quello della religione e indicava l’irruzione di una potenza ignota. Una teoxenia. Letteralmente la manifestazione di un dio estraneo. In realtà nel Mediterraneo antico, l’ospite era sacro proprio in quanto in lui poteva nascondersi il dio. Stranieri e mendicanti vengono tutti da Zeus, dice Omero nell’Odissea. E nei Vangeli Cristo dice «sono venuto da lontano e mi avete accolto».
Insomma l’arrivo di forestieri, mortali o immortali, è un chiodo fisso delle mitologie e delle religioni proprio perché esprime in linguaggio figurato il pericolo e al tempo stesso la necessità dell’ospitalità, il disordine e la ricchezza della mescolanza. O, come si direbbe oggi, i rischi e i vantaggi della globalizzazione. Non a caso il patto di ospitalità che legava l’abitante della polis greca al forestiero si chiamava xenía ed era posto sotto la protezione di Dioniso. In virtù di questo patto, il cittadino si faceva garante del nuovo arrivato nei confronti dell’intera comunità accogliente. Tutto questo sembra dire che, ora come allora, l’apertura è indispensabile, ma non può essere incondizionata. Nemmeno i Greci, che pure avevano il culto dell’ospitalità, accoglievano tutti e in tutti i casi. E distinguevano accuratamente diritti e doveri dello straniero accolto e perciò tutelato dalle leggi civili e dalle norme morali, da quello che noi chiameremmo clandestino, profugo, migrante economico. La vera sfida del presente è di immaginare forme di xenía a misura di questo tempo. Per fronteggiare la diaspora globale in atto, con nuove norme in grado di conciliare sicurezza e umanità. Solo così potremo evitare che quell’equazione secca straniero uguale nemico, che Primo Levi considerava una infezione latente in ciascuno di noi, degeneri in malattia mortale.

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Che cos’è il latino?

Nicola Gardini, in Viva il latino. Storia e bellezza di una lingua inutile, Garzanti, 2016

Il latino è la lingua dell’antica città di Roma e della civiltà che vi si è originata e di lì si è espansa nel corso di numerosi secoli su un territorio assai ampio, il cosiddetto impero, diventando mezzo di espressione e comunicazione per una gran parte dell’umanità, in forma scritta e orale, e fornendo ancora nell’età moderna, pur molto tempo dopo che il latino parlato ha dato luogo a idiomi distinti (le cosiddette lingue romanze), un mezzo espressivo a poeti, letterati e studiosi di varie discipline.
Il latino è la lingua delle istituzioni giuridiche, dell’architettura e dell’ingegneria, dell’esercito, della scienza, della filosofia, del culto e – quel che qui più interessa – di una florida letteratura, che è servita da modello a tutta la letteratura occidentale dei secoli successivi. Non c’è campo della creatività linguistica e del sapere che in latino non si esprima in modi eccellenti e modellizzanti: la poesia (epica, elegia, epigramma ecc.), l’oratoria, la commedia, la tragedia, la satira, la lettera confidenziale e quella ufficiale, il romanzo, la storia, il dialogo, e poi la filosofia morale, la fisica, la giurisprudenza, la dottrina culinaria, la teoria dell’arte, l’astronomia, l’agricoltura, la meteorologia, la grammatica, le scienze antiquarie, la medicina, la tecnica, la misurazione, la religione.
Il latino letterario, in centinaia di capolavori, parla d’amore e di guerre, ragiona sul corpo e sull’anima, teorizza il senso della vita e i compiti dell’individuo e il destino dell’anima e la struttura della materia, canta la bellezza della natura, l’importanza dell’amicizia, il dolore per la perdita delle cose care; e critica la corruzione, medita sulla morte, sull’arbitrarietà del potere, sulla violenza e sulla crudeltà; e costruisce immagini di interiorità, confeziona emozioni, formula idee sul mondo e sul vivere civile. Il latino è la lingua del rapporto tra l’uno e il tutto; del confronto complesso tra libertà e costrizione, tra privato e pubblico, tra vita contemplativa e vita attiva, tra provincia e capitale, tra campagna e città… Ed è la lingua della responsabilità e del dovere personale; la lingua della forza interiore; la lingua della proprietà e della volontà; la lingua della soggettività che si interroga di fronte al sopruso; la lingua della memoria. L’intenzione parla latino; la protesta parla latino; la confessione parla latino; l’appartenenza parla latino; l’esilio parla latino; il ricordo parla latino.
Il latino è il più vistoso monumento alla civiltà della parola umana e alla fede nelle possibilità del linguaggio. […] è portato per qualunque forma di espressione verbale: la causa giuridica, il racconto storico, i versi, la lettera. E non gli manca niente: è scorrevole e sublime, leggero e grave, dolce e aspro, secondo la convenienza. […]
Dire latino significa prima di tutto dire un impegno totale a organizzare il pensiero in discorsi equilibrati e profondi, a selezionare i significati nella maniera più pertinente possibile, a coordinare i vocaboli in assetti armonici, a esprimere verbalmente anche gli stati più fuggevoli dell’interiorità, a credere nell’espressione e nella dimostrazione, a registrare il contingente e il transeunte in un linguaggio che duri oltre le circostanze.

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Il tiranno risparmiato

Laurence Alma Tadema, Tarquinio il Superbo

Roma cacciò il re Tarquinio il Superbo ma non fu un’autentica rivoluzione

Paolo Mieli, “Corriere della Sera”, 27 giugno 2017

La prima, ancorché poco conosciuta, rivoluzione nella Roma antica fu quella che nel 509 a.C. portò alla detronizzazione dell’ultimo re. Ma potrebbe non essere stata una vera e propria rivoluzione. Questa strana vicenda ha affascinato Thierry Camous al punto da dedicarle la parte più importante del libro, Tarquinio il Superbo. Il re maledetto degli Etruschi, che la Salerno dà ora alle stampe nell’eccellente traduzione di Mariavittoria Mancini. Molte pagine mettono in dubbio si sia trattato di una vera e propria rivoluzione. Tarquinio il Superbo è un sovrano più potente dei suoi sei predecessori. Compresi gli ultimi due, Tarquinio Prisco e Servio Tullio, anche loro etruschi. Un re capace di mettere in ginocchio i Latini, di mortificare il Senato, costringere la plebe a lavori bestiali, di strappare un enorme patrimonio ai Volsci e di spenderlo quasi per intero a propria gloria. Un personaggio, scrive Camous, che «sarebbe potuto passare legittimamente alla storia con il nome di Tarquinio il grande». E che invece è stato oggetto del primo implacabile processo di demonizzazione della romanità. Dannazione della memoria che si estese per certi versi all’intero popolo degli Etruschi al quale, pure, Roma doveva moltissimo. A cominciare dal Circo Massimo, per proseguire con il Tempio a Giove Capitolino, l’intero sistema di fognature, i ludi con pugilato e corse dei cavalli, l’arte della navigazione marittima. Dagli Etruschi veniva la cultura della divinazione e di conseguenza il credito di cui per secoli continuarono a godere gli aruspici: Cicerone metteva però in guardia dai ciarlatani che si annidavano tra gli uomini che si dicevano in grado di predire il futuro, anche se riconosceva all’«etrusca disciplina» di aver consentito la previsione della guerra sociale, degli scontri tra Silla e Cinna, della congiura di Catilina; apparteneva poi a una famiglia di Tarquinia quello Spurinna che, prevedendo sinistri accadimenti nel giorno delle Idi di marzo del 44 a.C., provò a scoraggiare Cesare dal recarsi in Senato.
La rivoluzione, o meglio il golpe del 509 contro il Superbo, fu opera di Bruto e Tarquinio Collatino, destinati a divenire i primi due consoli della Repubblica. Il re deposto stranamente non fu ucciso, bensì gli si concesse di rifugiarsi a Chiusi da Porsenna. Il quale Porsenna però, narra la leggenda, colpito dall’eroismo di Orazio Coclite, Muzio Scevola e Clelia, gli avrebbe tolto il proprio sostegno per poi allearsi con l’Urbe divenuta repubblicana. Una ricostruzione che, osserva maliziosamente Camous, «manca di logica». Di Porsenna, secondo Camous, fu tramandata quell’immagine tutto sommato positiva al solo scopo di farne meglio risaltare il carattere opposto al Superbo.
Cosa vuol dire, in ogni caso, che gli ultimi tre dei sette re di Roma fossero etruschi? Non quello che si potrebbe supporre e cioè che sotto quei tre sovrani Roma fu sottomessa agli Etruschi. Già Theodor Mommsen sostenne che «il trono dato a un cittadino originario dell’Etruria non implica affatto la conquista di Roma da parte degli Etruschi». E anche Jacques Heurgon, che pure aveva opinioni diverse da quelle di Mommsen, tenne a precisare che «la Roma etrusca era rimasta una città latina». Del resto, sostiene Camous, se Roma fosse diventata davvero etrusca, la sua lingua ne avrebbe portato segni evidenti, mentre, come hanno dimostrato fin dal 1932 Alfred Ernout e Antoine Meillet, latino ed etrusco, salvo marginali eccezioni, sono rimaste due lingue tra loro estranee.
Ma vediamo in dettaglio le differenze tra il Superbo e i suoi due ultimi predecessori. Tarquinio Prisco, detto Lucumone (re), aveva sposato la nobile tarquinese Tanaquil (grande esperta dell’arte divinatoria etrusca) e, con il suo imponente seguito, era andato a Roma, su cui regnava ancora il sabino Anco Marzio, autentico fondatore della potenza romana. C’era andato in cerca di fortuna e aveva messo i suoi opliti a disposizione di Anco per una serie di operazioni militari. In questo modo se ne era conquistato la gratitudine e, alla sua morte, ne era stato il successore. Fu anche lui un grande conquistatore: sconfisse i Latini, i Sabini e gli stessi Etruschi. L’elenco delle città da lui sottomesse, scrive Camous, è «impressionante». Secondo la leggenda il Superbo sarebbe stato un suo nipote o forse il figlio di una sua seconda, assai giovane, moglie. Dopo la sua morte salì al trono Servio Tullio. Sarebbe stata Tanaquil a favorirne l’ascesa a discapito dei propri figli. Riferiscono Cicerone e Tito Livio che Servio Tullio creò 12 centurie supplementari e assestò così un duro colpo all’aristocrazia patrizia. Regnò senza l’accordo del Senato, appoggiandosi esclusivamente al popolo. Attraverso la sua riforma, scrive Camous, «ruppe il legame politico che univa i patrizi ai loro clienti, tessendo un legame particolare con la plebe che gli varrà la nomea di buon tiranno».
Perché il suo successore, Tarquinio il Superbo, verrà identificato invece come un «tiranno malvagio»? Innanzitutto per il fatto che, secondo la leggenda, con l’aiuto di sua moglie Tullia, figlia di Servio, ordì l’uccisione dello stesso Servio. Consumato l’«orribile parricidio», Tarquinio il Superbo, racconta Livio nella Storia di Roma , fu il primo a rompere con la tradizione di consultare il Senato su ogni questione che implicasse cambiamenti nella vita del regno e «resse lo Stato fondandosi solo sui consigli di famiglia: guerra, pace, trattati, alleanze, lui solo faceva e disfaceva a suo piacimento e con i consiglieri che voleva, senza mai avvalersi dei suggerimenti del popolo e dei senatori». Dopo l’uccisione del suocero, Tarquinio inventò un complotto di Turno Erdonio da Ariccia (spingendosi a fabbricare le prove di un supposto attentato ai propri danni) per giustificarne l’uccisione e assieme la brutale e definitiva sottomissione dei Latini. Un «doppio abominevole crimine», scrive lo storico, «consente dunque al Superbo di imporre la sua autorità politica: per il suo popolo egli è l’uccisore del suocero (Servio Tullio), fuori dalle mura il selvaggio assassino di Turno Erdonio». Il suo potere «è quindi illegittimo e ottenuto con l’omicidio più efferato, eseguito, ogni volta, in maniera barbara, impressionante — e nel caso di Erdonio sono gli antichi che lo sottolineano — contro un innocente».
Inizialmente, osserva Camous, quella del tiranno era stata una figura positiva. C’è «una forte analogia tra la tirannide ateniese di Pisistrato e quella dei Tarquini». Pisistrato è entrato nella leggenda per aver combattuto nel VI secolo, con l’aiuto del démos (popolo), l’aristocrazia di Atene, la cui potenza era retaggio delle riforme di Solone e Dracone. Suo figlio Ipparco, che morì assassinato, fu solo un tiranno di transizione, mentre l’altro suo figlio, Ippia, non ha goduto del «prestigio riservato fin lì al tiranno» talché «la caduta dei pisistradi venne salutata come un evento positivo». Anche perché di lì, da quella caduta, avrebbe avuto origine la «democrazia». Fondamentale è, dunque, in questo contesto il ruolo del popolo. Anco Marzio aveva incorporato a Roma l’Aventino, il colle della plebe su cui, sottolinea Cicerone, gli umili si ritireranno a mo’ di secessione all’inizio della Repubblica. Tarquinio Prisco, in continuità con la politica di Anco, se ne era anche lui guadagnato i favori. Servio se la ingraziò ulteriormente. L’ultimo re di Roma, perdendone l’appoggio, perse anche il potere. Il Superbo è considerato tale proprio perché perse il consenso popolare. Secondo Camous la «deriva personalistica e tirannica del potere reale risale però ad Anco Marzio e, da un punto di vista strettamente politico, la rottura tra la monarchia latino-sabina e quella etrusca è del tutto inventata». Quella del Superbo è in ogni caso un’esperienza a sé. In particolare nella costruzione di un mito che riconduce a Ercole. Scrive Camous che «la connotazione erculea del potere del Superbo è un dato pieno di significati: cercando di appropriarsi della figura del grande eroe mediterraneo, il tiranno mira a rafforzare allo stesso tempo la sua legittimità, e, direbbero i politologi odierni, a “lavorare sul suo radicamento locale”». Ma cosa aveva fatto Ercole di così speciale per meritare la particolare venerazione di Tarquinio il Superbo? Aveva eliminato il bandito Caco che si era appropriato delle sue giumente e, quattro secoli prima della fondazione di Roma, si era alleato con il patriarca greco Evandro, re del Palatino. In questo modo il figlio di Zeus era divenuto la prima figura leggendaria che «aveva rotto il caos originario, annunciando la vittoria di Romolo su Remo, altro principe delle forze delle tenebre».
Poi però il Superbo aveva perso i favori dell’establishment di Roma e al momento opportuno era stato disarcionato. Quel che più attira l’attenzione di Camous è il desiderio, in particolare di Tito Livio, di presentare la nascita della Repubblica nel solco della legittimità e di aggiungere al colpo di palazzo «una componente popolare necessaria per la visione nazionale del romanzo storico romano». «Avremmo capito», arriva a scrivere Camous, «se l’ultimo Tarquinio fosse finito appeso a un gancio da macello, avremmo volentieri immaginato per la coppia diabolica una fine “alla milanese”, con il re nel ruolo di Mussolini, Tullia in quello della Petacci e la tribuna del Comitium in quello della stazione di servizio di Piazzale Loreto». E invece niente di tutto questo. Attraverso «un grossolano maquillage» si cerca di «far passare» la cacciata del Superbo per una rivoluzione. Mentre si trattò, probabilmente, di una prevedibile congiura riconducibile «alla frustrazione di un’aristocrazia romana che aveva visto ridursi il proprio potere tradizionale da quando la monarchia aveva deviato verso la tirannide, con l’arrivo delle dinastie etrusche e perfino fin dai tempi dell’ultimo re indigeno, Anco Marzio».
Uno dei personaggi che più attraggono l’attenzione dell’autore è il congiurato Bruto, avo di quel Bruto che ritroveremo al momento dell’uccisione di Giulio Cesare. Quando il figlio del tiranno stupra Lucrezia spingendola al suicidio, Bruto giurerà sul pugnale con cui la donna si è uccisa che la vendicherà. Qui Camous si pone in un ideale dialogo a distanza con Andrea Carandini, che in Res publica si è occupato con grande eleganza di questo specifico passaggio. Anche Bruto, fa però osservare Camous, ha origini etrusche, è figlio e fratello di due cospiratori mandati precedentemente a morte dal re. Per nascondere i suoi sentimenti ostili al monarca, Bruto finge di essere stupido. Dominique Briquel ha ben approfondito la collocazione di Bruto nel ruolo (ricorrente all’interno degli schemi indoeuropei) della divinità nascosta e provvidenziale che finge di essere ebete, del falso idiota che aspetta il suo momento. Interessante dettaglio. Il racconto, scrive Camous, «malgrado la volontà nazionalista di attaccarsi alla versione di una rivoluzione romana e popolare contro il tiranno abietto e straniero, presenta un aspetto difficile da eliminare: essa venne dall’interno del palazzo». Fu «un colpo di Stato domestico e Bruto era un etrusco da parte di madre». A dire il vero era anche qualcosa di più: un ufficiale del regime, un tribuno dei celeres , la guardia reale, che — fece notare Tito Livio — poteva all’occorrenza convocare l’assemblea del popolo. Certamente «può sembrare strano che un presunto idiota avesse avuto accesso a una carica di tale rilievo, ma, come riporta maliziosamente Dionigi, per un tiranno impopolare era meglio forse una guardia personale comandata da un personaggio presumibilmente inoffensivo e imbecille piuttosto che da un abile politico». Strano personaggio, Bruto. Sarebbe stato facile «e, per dirla tutta, conveniente per l’orgoglio nazionale romano presentare la fuga dei Tarquini come conseguenza di un vero sollevamento nazionale del popolo romano di fronte ai suoi tiranni stranieri!». E invece «la posizione di Bruto nel cuore della dimora dei Tarquini indebolisce la dimensione nazionale del rivolgimento da cui avrebbe avuto origine la res publica ». La leggenda avrebbe potuto fare a meno di quella figura. E invece ne ha fatto un protagonista. Di più: l’uomo che avrebbe traghettato Roma dalla tirannia alla Repubblica. Per questa ragione, scrive lo studioso, questa vicenda «noi la riteniamo presumibilmente storica, ancorché fortemente e fatalmente deformata».
Me perché queste complicazioni? La costruzione del tempio di Giove da parte dei due Tarquini manifesta «agli occhi di tutti — Romani, Latini, Etruschi — la nuova volontà egemonica della vecchia città di Romolo, il cui destino di conquistatrice fu rivelato dai suoi tiranni etruschi». È difficile sapere con certezza quando Roma prese consapevolezza della sua proiezione nella storia, o meglio del fatto che tale destino di grandezza era uscito allo scoperto al tempo dell’ultimo re etrusco. Ma «per radicare nel tempo la percezione di un destino romano, bisogna identificare una rottura evidente nel continuum storico della città». La vera rottura nella storia di Roma «è da ricercare in questa articolazione fondamentale tra la conquista di Veio nel 396 a.C. e la presa di Roma da parte delle orde galliche di Brenno nel 390». E, secondo l’autore non ci sono dubbi che «quel IV secolo a.C. che vide i Romani sconfiggere i loro vicini più temibili, gli Etruschi, e sottomettere definitivamente i Latini, fu un momento molto propizio per la comparsa di una vera e propria ideologia della conquista e dell’egemonia». Conquista ed egemonia alle cui origini era stato proprio l’ultimo dei sette re di Roma, Tarquinio il Superbo, tiranno colpevole di molti delitti eppure risparmiato al momento della detronizzazione. Risparmiato proprio perché implicitamente gli si riconosceva di aver fatto comprendere a Roma quali sarebbero stati i suoi destini.

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Il fantasma di Ovidio

Joseph William Turner, Ovidio bandito da Roma, 1838

Joseph William Turner, Ovidio bandito da Roma, 1838

Da duemila anni s’aggira nell’aldilà e non s’è mai placato. È stato il poeta messo da parte. Come oggi i classici

Paola Mastrocola, “Il Sole 24 Ore – Domenica”,  25 giugno 2017

Mi è capitato di evocare Ovidio, qualche giorno fa. Ero a Napoli, ospite dell’Altra Galassia. Valeria Parrella, che dirige il festival, s’è inventata questa modalità: Evocazione d’autore. Si scende nei sotterranei ombrosi di un monastero, buio, qualche candela accesa, il pubblico si dispone intorno e lo scrittore ospite evoca un autore che gli piace, morto non importa da quanto, può essere un mese o un millennio. Dialoga con lui, gli dice cosa pensa delle sue opere, gli fa domande. E il pubblico ascolta. Tra il pubblico anche le padrone di casa, le monache di Santa Chiara, in prima fila, attente, divertite, per nulla stupite che si dialoghi coi morti. Hanno ragione: in fondo, cos’altro è leggere se non la sfida eterna, e il miracolo, di dialogare con gli assenti?
Ovidio si fa poco a scuola. La scena del periodo augusteo è dominata da Virgilio, e Orazio. Ovidio passa in secondo piano, è soltanto il poeta dell’amore, raffinato, mondano: liquidato tra il frivolo e il decadente. È anche il poeta dei miti, certo, colui che ha messo un po’ d’ordine nello sterminato campo mitologico fornendo, di 250 miti, una versione narrativa: per questo nei secoli è stato ampiamente ripreso, citato, ri-raccontato, dal medioevo a oggi, da narratori e poeti. È il poeta frivolo dell’amore, dunque, e anche il poeta del mito, forse più saccheggiato dell’antichità.
Io l’ho scoperto quando studiavo Petrarca all’università: ho letto per conto mio Le metamorfosi, stupita di così rara bellezza. Ovidio ha cercato, legando i miti tra di loro attraverso l’idea di metamorfosi, di suggerire una possibile soluzione alla morte: noi oggi siamo esseri umani, domani saremo un fiore, un cigno, una nuvola… Nulla muore, tutto si trasforma. Questo raccontano i miti: Dafne tramutata in alloro, Batto in sasso, Scilla in gabbiano. Un’idea pacificata del nostro destino mortale. E, anche, l’idea che il mondo che ci circonda non sia soltanto quel che appare: un narciso, per esempio, può esser stato un bellissimo ragazzo che amava specchiarsi; e la fonte a cui andiamo a bere, un tempo era una ninfa che fuggiva per non essere amata da un fiume.
(I fiumi s’innamorano delle ninfe, nei miti…).
Ovidio è arrivato, a un certo punto della nostra seduta spiritica. È apparso, s’è sentita la sua presenza nell’aria. S’è fermato al fondo della sala, nella zona più buia. Elegante, un mantello porpora buttato sulle spalle. Il volto un po’ reclinato, e lo sguardo avanti, perduto nel nulla. È rimasto lì, appoggiato al muro, in disparte.
Ovidio è sempre stato in disparte. E ora è un’ombra triste. È da duemila anni che si aggira tristemente nell’aldilà, non s’è mai placato, non s’è dato ragioni. È stato il poeta messo da parte. Nella sua vita, a un certo punto, si apre una ferita, ed è inguaribile: quando lui ha già cinquant’anni, di colpo, Augusto non lo vuole più, gli manda l’ordine di lasciare Roma, lo relega sul mar Nero, in un posto inospitale, sperduto tra i barbari. In esilio. Senza famiglia, senza amici. I suoi libri banditi da ogni biblioteca. Cancellato! Non si sa il perché. Ovidio non lo ha raccontato, se non per cenni, vaghe allusioni: forse la sua opera, il suo pensiero libero, la sua idea che l’amore travalichi ogni legge davano fastidio al programma augusteo di restaurazione moraleggiante; forse una complicità negli amori illeciti di Giulia minore, nipote dell’imperatore. Chissà. Forse non si conoscono mai le ragioni per cui si viene allontanati, respinti, ostracizzati, esiliati dal mondo che conta e messi da parte, come soprammobili che di colpo non piacciono più, indesiderati, dimenticati, impolverati: morti viventi, abitanti in angoli sperduti d’inesistenza. Oggi come ieri? Forse sì. Si appartiene all’establishment, o non si appartiene. Nel qual caso non si esiste, ovvero si conduce un’esistenza marginale, periferica. Il potere domina, e occulto dirige le nostre sorti, senza fornire le ragioni. Il dolore di Ovidio è eterno, inconsolabile.
Lo evoco leggendo alcuni passi delle sue opere, passi che ho amato, o passi dimenticati, o che non conoscevo, mai letti (questo è evocare gli autori morti: leggerli!). Per esempio un passo dell’Ars amatoria, l’opera incriminata, invisa ad Augusto, un passo dove Ovidio dice agli uomini che per conquistare una donna è bene essere gentili. Essere gentili, che idea… fuori dal tempo! E fornisce questo esempio di gentilezza: «E se per caso, come succede, a lei si posa in grembo un granello di polvere, tu, pronto, cogli con le tue dita quel granello; e se non c’è nulla, coglilo lo stesso».
Ovidio, poeta della gentilezza… e della amorosa finzione. Poeta del granello di polvere che, reale o fittizio, si posa o non si posa sul grembo ella donna, e l’uomo raccoglie, comunque, per sempre, da due millenni…
Stavo pensando, mentre scrivevo: ma chi legge oggi Ovidio? Chi va alla Feltrinelli e si compra un’opera di Ovidio? E di Seneca, o di Properzio?
Voglio dire chi di noi, gente comune, non specializzata in studi classici, si accorge che esistono ancora libri tipo La brevità della vita o i Tristia, e li sceglie, decide di comprarli e portarseli a casa al posto dell’ultimo romanzo del noto giallista o dell’ultimo saggio del noto giornalista o psicanalista? Eppure sono librini maneggevoli ed economici, edizioni tascabili modernissime, BUR, Oscar; non sono tomi polverosi rilegati in pelle. Sono classici vestiti da contemporanei (quali sono, in effetti…).
Forse stiamo commettendo un grosso errore: forse dovremmo smettere di incitare alla lettura dei classici! Smettere di dire che è bello leggerli, che dobbiamo farlo, che se non lo facciamo chissà cosa ci perdiamo.
Dovremmo far finta di niente, e non distinguere i classici da tutti gli altri libri: lasciarli indistinti, non contrassegnati, mescolarli all’ultimo romanzo del noto romanziere contemporaneo, disporli in libreria in ordine alfabetico e basta: Seneca sotto la S, come Stancanelli, Starnone e Sorrentino. Mettere gli autori di duemila anni fa in competizione diretta con noi viventi, e stare a vedere cosa succede. Non relegarli invece in uno scaffale a parte con la dizione «Classici greci e latini». No. Questo è metterli in disparte, esiliarli: renderli marginali, periferici, inesistenti. Lasciamoli liberi, a concorrere in un libero mercato. L’ignoranza può giocare a favore, in questo caso (dico l’ignoranza di tutti noi oggi, infinitamente meno colti delle generazioni precedenti, cattivi studenti, irretiti nella rete dell’utopia digitale, promossi e mai bocciati, laureati e poi, da subito, smemorizzati): voglio dire che magari uno entra in libreria (negozio vero o scaffale online, fa lo stesso), ignora, non sa chi sia questo Ovidio… e lo compra! Magari perché attirato dalla copertina, o dal titolo, o dalla quarta di copertina. Lo compra perché gli va di comprarlo, o perché lo confonde con un cantautore, o perché nello scaffale sta nella O accanto a Odifreddi. Non importa, lo compra e se lo porta a casa, e probabilmente, visto che se l’è comprato, se lo leggerà pure!
Smettiamo di esortare ai classici. Smettiamo di chiamarli classici. Non distinguiamoli dagli altri. Lasciamo che siano felicemente e atemporalmente indistinguibili.
Ecco, chiamiamoli gli Indistinguibili.

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Seneca, la conquista della felicità

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Armando Massarenti, “Il Sole 24 ore – Domenica”,  25 giugno 2017

«Quando la Pirelli cominciò a farmi girare per il mondo, non ci misi molto a rendermi conto che l’ubriacatura consumistica della business community e il materialismo reaganiano degli anni Ottanta ricordavano proprio quella società augustea a neroniana che Orazio e Seneca prendevano di mira. Da vizio privato, il tradurre si trasformò per me in pubblica virtù». Così commenta Gavino Manca il suo “pubblico servizio” di manager e al contempo anche di traduttore di testi classici latini: nel leggere la sua versione del dialogo La vita felice (De vita beata) di Lucio Anneo Seneca (da poco riproposta da Einaudi), ci accorgiamo che anche lui, come Seneca – pedagogo e consigliere personale dell’imperatore Nerone -, è un uomo “al vertice” che trova solo nella filosofia quel riparo sicuro dai marosi che l’esistenza non risparmia a nessuno, ma che infligge abbondantemente a chi vive a contatto con qualsiasi forma di potere. Non ci stupisce sapere dunque, come sottolinea Carlo Carena nella sua brillante introduzione, che questo trattato filosofico fu suggerito nel 1645 da Cartesio alla principessa Elisabetta di Boemia quale utile lettura, forse, per sopportare con maggior forza morale i disagi del suo status aristocratico. «Tutti gli uomini vogliono essere felici, ma nessuno riesce a vedere bene cosa occorra per rendere la vita felice». Il tema del dialogo dedicato al fratello Gallione è la difficile ricerca della felicità, da intendersi non certo in senso moderno, ma quale eudaimonia, cioè quel benessere psicofisico o equilibrio interiore che è assolutamente necessario per non cadere in mezzo ai rivolgimenti continui della sorte: la filosofia stoica – incentrata sul principio dell’autarchia – vi è presentata come un “esercizio spirituale” quotidiano, rivolto soprattutto alla sfera pratica del vivere. Le circostanze che spinsero Seneca a comporre questo testo, a ben guardare, furono tempestose: il filosofo, allora ancora precettore di un promettente giovane Nerone, si trovò a dover difendersi dalle accuse di un tal Publio Suillio Rufo, che criticava nel filosofo stoico una vita vissuta nei lussi e nelle ricchezze, assai lontana, nella sua essenza, dalla rigidità dei precetti della dottrina stoica. Per questo, nella lettura, rintracciamo talvolta una certa acrimonia che non è consueta del tono di Seneca: per esempio quando leggiamo le accuse rivolte ai filosofi epicurei, dediti più al piacere del corpo che non a quello dello spirito, ormai lontani dal modello virtuoso del loro frugale predecessore Epicuro. Ma la forza argomentativa maggiore consiste nel dimostrare come la ricchezza materiale non debba affatto considerarsi un male per la virtù: al contrario, le ricchezze, quando guadagnate onestamente, diventano un’opportunità in più per il sapiente che può dedicarsi liberamente all’otium filosofico senza l’oppressione dei gravami della penuria economica e, soprattutto, i beni in quantità divengono per la sua virtù un banco di prova, quando il saggio ricco dimostra al mondo di essere capace di resistere alle passioni e ai desideri che spesso accompagnano la ricchezza. Ma, autodifesa a parte, il vero senso di questo prezioso saggio di filosofia morale – da accostare alle Lettere a Lucilio, proposte quest’anno all’esame di maturità – lo troviamo nella definizione della virtù come pratica intellettuale, un sapiente uso della ragione per affrontare di volta in volta le asperità concrete del vivere. Il valore del discorso senecano consiste nel presentarci tale virtù come un lunghissimo cammino lungo il quale tante volte si cade, ma si diviene tanto più saggi quanto più si è capaci di rialzarsi. È questa, infatti, la nota fondamentale: Seneca non sale in cattedra, non si presenta come un saggio, ma come un uomo qualunque alle prese con la conquista lenta e continua della saggezza. Quest’ultima potrebbe non essere mai raggiunta, ma il fatto stesso di avere tentato di realizzarla, ci ha reso la vita meno invivibile, ci ha reso un po’ meno nemici di noi stessi. In questa ricerca consiste la virtù, in questa condizione interiore di ricerca filosofica pratica consiste la felicità, che è un equilibrio che va riassestato momento dopo momento e non si dà una volta per tutte. «I filosofi – scrive Seneca – non mettono in pratica sempre quello che predicano. Fanno già molto, proprio perché predicano e perché nutrono pensieri elevati: se agissero anche come parlano, chi sarebbe più felice di loro? Intanto non c’è ragione per disprezzare le parole virtuose e gli animi ricchi di buone intenzioni. La meditazione sulla saggezza è sempre lodevole, anche a prescindere dai risultati».

Epistulae ad Lucilium, XVI, 3-5

Non est philosophia populare artificium nec ostentationi paratum; non in verbis sed in rebus est. Nec in hoc adhibetur, ut cum aliqua oblectatione consumatur dies, ut dematur otio nausia: animum format et fabricat, vitam disponit, actiones regit, agenda et omittenda demostrant, sedet ad gubernaculum et per ancipitia fluctuantium derigit cursum.
Sine hac nemo intrepide potest vivere, nemo secure; innumerabilia accidunt singulis horis quae consilium exigant, quod ab hac petendum est. Dicet aliquis: “Quid mihi prodest philosophia, si fatum est? Quid prodest, si deus rector est? Quid prodest, si casus imperat? Nam et mutari certa non possunt et nihil praeparari potest adversus incerta, sed aut consilium meum occupavit deus decrevitque quid facerem, aut consilio meo nihil fortuna permittit”.
Quidquid est ex his, Lucili, vel si omnia haec sunt, philosophandum est; sive nos inexorabili lege fata constringunt, sive arbiter deus universi cuncta disposuit, sive casus res humanas sine ordine inpellit et iactat, philosophia nos tueri debet. Haec adhortabitur ut deo libenter pareamus, ut fortunae contumaciter; haec docebit ut deum sequaris, feras casum.

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Seneca, una strategia stilistica per qualificare l’esistenza

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Classici commentati. Siamo tutti «occupati» e vittime del tempo: il «De brevitate vitae», «dialogo» del filosofo stoico, nella fortunata interpretazione di Alfonso Traina, senecano

Maria Jennifer Falcone, “Il manifesto”, 18 giugno 2017

«Seneca è un moralista doppiato da uno psicologo. Le morali passano, ma l’uomo resta». Non è raro trovare tra le pagine dei saggi di Alfonso Traina sentenze ‘senecane’ come questa, che illuminano il discorso e si incidono nella memoria. La citazione è tratta dal suo fortunato commento al De brevitate vitae di Seneca, uscito originariamente nel 1970, edito più volte dalla Bur (l’ultima nel 2015) e ora pubblicato dalla Bononia University Press in una nuova edizione aggiornata da Daniele Pellacani (Seneca, La brevità della vita, pp. 126). Se il trattato – una serrata e vivace disquisizione sul tempo e sulla saggezza umana – non può mancare «in un’ideale biblioteca di ‘classici per il terzo millennio’» (così nella quarta di copertina), leggerlo con gli occhi di Traina è un privilegio soprattutto per chi conosce il latino.
Della lingua e dello stile, infatti, egli è stato ed è finissimo studioso, capace di mettere in luce il senso profondo del messaggio filosofico attraverso un’attenta analisi delle scelte lessicali e delle caratteristiche formali del testo: il suo fortunato saggio Lo stile ‘drammatico’ del filosofo Seneca (Pàtron 1984), a cui spesso il commento rinvia, ne è un esempio magistrale. Traina individua nella sententia la «cellula stilistica» del suo linguaggio filosofico, la strategia retorica «con cui Seneca combatte la sua battaglia per la salvezza laica dell’uomo» (p. 21). Nulla lascia al caso questo «scrittore di razza»: anafore, antitesi, figure etimologiche, sintassi e lessico, sistemi metaforici danno efficacia nuova ai contenuti di un’antica saggezza stoica.
Come un sommozzatore esperto, Traina accompagna il lettore nell’esplorazione dei fondali linguistici del trattato. Quando Seneca dice che è davvero poco il tempo in cui viviamo veramente, e che «tutto lo spazio rimanente non è vita, ma tempo» (ceterum quidem omne spatium non vita sed tempus est), non gli sfugge il dettaglio, pregnante, della scelta semantica di ceterum, ‘rimanente’, che sottolinea la «forte opposizione qualitativa (reliquum sarebbe stato solo quantitativo)» (pp. 43 s.). Che la qualità della vita non sia in alcun modo legata alla sua durata è tema ricorrente, rappresentato ad esempio dall’immagine di un vecchio canuto e rugoso, di cui si potrebbe pensare che abbia vissuto a lungo, ma – così Seneca in una delle sue folgoranti chiuse sentenziose – non ille diu vixit, sed diu fuit («non è vissuto a lungo, ma è stato al mondo a lungo»). Se questa frase si imprime nella memoria, ciò è dovuto alla sapiente strategia stilistica evidenziata nel commento: lo schema avversativo è sottolineato dalla ripresa di diu (‘a lungo’) e dalla struttura a membri decrescenti (la seconda proposizione è più breve della prima).
L’attenzione scrupolosa verso il lessico permette a Traina di scandagliare a fondo anche il tessuto metaforico con cui Seneca rappresenta i concetti del tempo fugace e della precarietà delle cose terrene (pp. 11-14). E così nel De brevitate, come anche nell’antologia di passi tratti da diverse opere, in fondo al volume, il tempo è descritto come un fiume, un’immagine che Seneca libera dalla polvere della tradizione isolandone gli effetti devastanti sull’uomo e la natura: un fiume, sì, e dunque un corso inarrestabile, ma di questo fiume la piena, la corrosione, la violenza travolgente. C’è, poi, la metafora del punto, quella contrazione totale di spazio e tempo che è il presente, e, conseguente a essa, l’immagine degli abissi del passato e del futuro che insidiano il saggio mentre cerca di tenersi in equilibrio su quel punto.
Tutti siamo vittime del tempo, tutti siamo occupati (parola chiave del trattato): la carrellata di figure umane (palestrati, gente distesa al sole ad abbronzarsi, effeminati che passano le ore dal barbiere, ma anche politici, uomini importanti, filologi puntigliosi) ha, come il mimo, «il sapore della vita». Seneca, che da ‘psicologo’ conosce l’animo umano e da artista lo descrive, da stoico lo spinge verso la saggezza, che Traina definisce come il polo dialettico positivo rispetto al tempo che scorre. Non avendo alcun controllo sulla durata della vita, l’uomo saggio presta attenzione all’uso che ne fa. L’opposizione tra qualità e quantità è vista così da un’angolatura propositiva: cogita semper qualis vita, non quanta sit («pensa sempre alla qualità della vita, non alla sua quantità»), scrive Seneca in un’epistola (70, 5). Chi si concentra sul presente, libero dall’angoscia degli abissi del tempo, può recuperare il passato e il futuro «come dimensioni psichiche» per mezzo del ricordo e della previsione. Fuori dal tempo, il saggio abbraccia ogni tempo, e così, come Dio, trionfa su ogni cosa.
Liberarsi delle occupazioni e iniziare a vivere. È il privilegio o, meglio, la conquista del saggio, che può annettere alla sua l’esperienza dei grandi del passato, quindi «disputare con Socrate, dubitare con Carneade, con Epicuro starsene in pace, vincere con gli Stoici la natura umana, con i Cinici oltrepassarla» (De brev. 14, 2). E, magari, con Seneca imparare a riempire di qualità il proprio tempo, lasciandosi accompagnare dalla sapiente guida di Traina.

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Quel mondo classico che svela l’inganno nascosto nelle parole

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Ivano Dionigi, “La Repubblica”, 23 gennaio 2017

Novum per i classici era sempre qualcosa di dirompente e traumatico: “nova” la terra che gli Argonauti cercavano con la loro spedizione sacrilega; “novus” l’uomo che per primo nella propria famiglia ricopriva una magistratura; “nova” la religione cristiana che in nome della fede interiore rifiutava i riti esteriori della “religio civilis”. Quale è il nostro “novum”? Non quello che campeggia su copertine e classifiche; non quello delle periodiche proposte politiche che non riescono a interessare né giovani né vecchi; non quello dell’amministrazione della cosa pubblica esibita, più che gestita, a colpi di “like”; non quello della gridata e nominalistica discontinuità; e neppure quello della improvvisata originalità, che, come dice Berenson, «è propria degli incapaci». Queste sono novità che alimentano la cronaca, non il nuovo che fa la storia.
Novum è ben altro: è ciò che imprevedibilmente e irreversibilmente segna il destino individuale e collettivo. E se non siamo vigili, lo vediamo non in faccia, ma di spalle, quando se n’è già andato.
Il novum possiamo coglierlo nell’avvento ormai conclamato di due “barbari”, nelle due rivoluzioni che rischiano di mettere in ginocchio il vecchio ordine politico, economico, etico. La rivoluzione sociale, ovvero l’arrivo di nuovi popoli in cerca di quella giustizia che noi abbiamo rimosso dal nostro lessico.
La rivoluzione tecnologica, ovvero l’impero dei media digitali, che porta con sé inedite possibilità ma anche altrettante domande. Questo passaggio dall’analogico al digitale ha segnato – paradossale contrappasso – un salto dalla socialità del noi alla solitudine dell’io.
Per conoscere questo novum abbiamo bisogno di politica e di cultura, di statisti (perché diciamo leader?) e di maestri. Figure fuori moda che preferiscono la verità alla consolazione.
Nel Protagora di Platone leggiamo che gli uomini morivano perché si facevano la guerra, perché «conoscevano soltanto la tecnica (demiourgiké téchne) ma non l’arte della politica (politiké téchne)», la sola che può salvare la vita degli uomini. Cicerone, facendo l’esegesi di quel mito platonico, esalta la parola politica per eccellenza: res publica, “la cosa di tutti”; in opposizione alla res privata, “la cosa del singolo”. Grazie al governo della res publica, il civis – leggiamo nel Sogno di Scipione – si assicura «un posto riservato in cielo». Perché la politica è la responsabilità più nobile. Messaggio pressoché incomprensibile per noi, arrendevoli al linguaggio sin troppo facile e contronatura dell’antipolitica. Contronatura: perché noi “animali politici” siamo destinati a edificare la polis, e, dice Aristotele, «chi vive fuori dalla comunità civile è o bestia o dio».
L’università, una delle istituzioni più prestigiose e più credibili del Paese, ha oggi una responsabilità non riducibile a codificata ed esangue mission. Noi professori siamo chiamati a professare (profiteri) l’etica della competenza e l’etica del rigore intellettuale e morale, che non si concilia con la doxa rumorosa, la chiacchiera imperante, il facile consenso.
Due i compiti tra i principali e più urgenti. In primo luogo quello di ricordare la bellezza, la prerogativa e il potere della parola: quel logos che ci distingue dagli animali (a-loga) e che, nella relazione con l’altro, si fa ponte: dia-logos appunto. Oggi la parola rischia di non esserci amica: ridotta a strumento, slogan, merce, finisce per assumere una sciagurata autonomia dalla realtà e di logorarsi in una crisi di entropia. Come lamentava Frontone, un oratore del II sec. d.C., ci accontentiamo delle parole che troviamo «per via»: le parole «ovvie » (obvia).
Abbiamo bisogno di una ecologia linguistica, che segni la differenza tra “vocaboli” e “parole”; abbiamo bisogno di una pentecoste laica. Perdura l’eco del lamento di Sallustio: «Abbiamo smarrito i veri nomi delle cose»; e ci suona sinistramente familiare l’atto di accusa di un personaggio dell’Agricola di Tacito contro la voracità imperialistica dei Romani: «Il depredare, il massacrare e il rapinare con falsi nomi li chiamano “impero” (imperium), e dove fanno il deserto lo chiamano “pace” (pax) ». Uso mai dismesso quello di creare neologismi che sottendono false equivalenze e usi mistificati: pensiamo ai nostri “flessibilità” per disoccupazione, “economia sommersa” per lavoro nero, “guerra preventiva” per aggressione. La stessa parola “trasparenza” nella sua ipertrofia regolamentare non è forse il sintomo di quella cattiva coscienza che s’illude di creare la virtù per decreto?
Nel tempo della retorica totale – dove i colpi di Stato si fanno a suon di parole prima ancora che di armi –, la vera tragedia è che i padroni del linguaggio mandino in esilio i cittadini della parola. In questa prospettiva la filo-logia, «la cura e l’amore per la parola», trascende il significato di disciplina specialistica e si eleva a impegno severo e nobile di ogni uomo che non intenda né censurare né censurarsi. Altro compito dell’università: promuovere un’alleanza tra humanities e tecnologie. A chi sostiene che la scienza e le tecnologie sono destinate a scalzare le humanities e che i problemi del mondo si risolvono unicamente in termini ingegneristici e orientati al futuro, si dovrà replicare che, se la scienza e le tecnologie hanno l’onere dell’ars respondendi, della risposta ai problemi del momento, il sapere umanistico ha l’onere dell’ars interrogandi, della domanda. Arte più difficile e decisiva, perché ha la responsabilità di ricapitolare e interpellare gli snodi del pensiero: vale ricordare che il paradigma della dimenticanza, che alimenta la tecnica, non può escludere quello della memoria che alimenta le idee; che la cultura deve governare la politica, l’economia e la tecnica; che l’oblio del passato e l’affidamento esclusivo agli algoritmi ci consegnano alla monocultura iper e microspecialistica, quando non addirittura a una sorta di monoteismo tecnologico; che alla scuola spetta formare cittadini digitali consapevoli, come ha fatto con i cittadini agricoli, industriali, elettronici. Ricordare col Petrarca che la condizione dell’uomo europeo è quella di «rivolgere lo sguardo contemporaneamente avanti e indietro» (simul ante retroque prospiciens); che la verità si sottrae al presente e si tende tra “il già” e “il non ancora”; che tramite, memoria, eredità di ieri sono punti di riferimento indispensabili per conoscere e riconoscere i “barbari” di oggi. Proprio i classici possono soccorrerci e aprirci il tempio del tempo: perché – come ha ricordato Umberto Eco – ci allungano la vita; perché – come ci ha illuminati Osip Mandel’stam– il classico deve essere sentito non come ciò che è già stato ma «ciò che ancora deve essere». Perché i classici, al pari della scienza e della tecnologia, hanno il futuro nel sangue.

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