Il colpo di fulmine di Elena è il dilemma dell’amore

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Nei comportamenti degli eroi omerici c’è l’anima dell’Occidente: dal potere (Agamennone) alla pietà per il nemico (Priamo/Achille)
Intervista a Giulio Guidorizzi di Maurizio Assalto,

“La Stampa – Tuttolibri”, 26 giugno 2016

«Sono stato preso dal gran fiume di Omero. Come una barchetta che segue la corrente». E seguendo la corrente, nel suo Io, Agamennone, Giulio Guidorizzi, professore di Letteratura greca all’Università di Torino, intrepido navigatore nel mare magnum del mito, ha riscritto la storia della guerra di Troia, dal punto di vista del signore di Micene, e sviluppando tutti quei punti che nell’Iliade sono lasciati in sospeso. «La mia idea iniziale era di scrivere un’introduzione a Omero per il pubblico ampio, che contenesse gli elementi della sua antropologia. Quindi ho concepito un po’ follemente un saggio-racconto, che via via è diventato più racconto che saggio». Il gran fiume del cantore cieco, appunto. «Ho usato un linguaggio paratattico, frasi brevi, frequenti divagazioni – proprio come lui – per cercare di riproporre il tessuto orale della sua poesia. E così sono diventato un piccolo piccolissimo Omero. Un rapsodo».
Agamennone non è un personaggio molto simpatico: perché ha incentrato il suo racconto su di lui?
«Per alcune ragioni. Perché offre un panorama completo di tutta la guerra di Troia – mentre Achille muore, Ettore muore… Poi perché rappresenta la prospettiva della regalità: è quello che dall’alto della gerarchia sociale osserva ed è però anche attore dell’azione. E infine proprio perché è un personaggio antipatico ai più: e invece leggendo l’Iliade ci si rende conto che ha uno spessore psicologico».
Cioè?
«In apparenza è arrogante, borioso, pretende di governare il destino degli altri. Però ci sono degli squarci in cui appare un’altra persona, che palpita per il fratello ferito, si prende cura della comunità, sa anche ammettere le sue colpe. Come tutti gli eroi ha due facce: una scura e una luminosa. Perché Omero non è soltanto un narratore epico che racconta una storia: è anche capace di far venire fuori l’interiorità dei suoi personaggi. E nessuno è uguale agli altri».
Oltre a Omero, e ovviamente all’Agamennone di Eschilo, di quali fonti si è servito?
«Ho usato le mie letture, che mi hanno aiutato a dare colore ai personaggi. Per esempio c’è un briciolo di Thomas Mann, Giuseppe e i suoi fratelli, nell’impianto mitico, nel modo di narrare. C’è anche qualcosa di Tolstoj: quando racconto l’innamoramento di Elena, il colpo di fulmine all’arrivo di Paride, dico che lei – senza ancora avvedersi che le sta nascendo dentro la passione, a cui non può opporsi, perché è stata prescelta da Afrodite – si accorge per la prima volta che suo marito Menelao ha alcuni fili bianchi nella barba e ride troppo forte: come Anna Karenina, quando arriva alla stazione dopo che Vronskij le ha rivelato il suo amore e si accorge che il marito ha delle orecchie strane – da un dettaglio insignificante, il primo accenno del disamore».
Una volta nei banchi di scuola ci si divideva tra fan dell’Iliade e fan dell’Odissea: lei a quale partito appartiene?
«Al primo. Perché l’Iliade dà un quadro sublime di una società eroica, contiene tutto il modo di essere e il modo di pensare di una società guerriera in cui, è vero, ognuno combatte con l’altro, ma in realtà ognuno combatte contro il suo destino».
Non le pare tuttavia che l’Odissea, in quanto racconta un mondo «fluido», privo di riferimenti stabili, in cui l’eroe deve di continuo mettere alla prova la propria capacità di far fronte agli imprevisti, possa parlare di più all’uomo contemporaneo?
«La mia sfida è far parlare all’uomo contemporaneo anche l’Iliade, far capire che dietro a questa crudeltà inesorabile c’è una visione alta, disperata dell’esistenza, che è molto vicina a noi. L’Iliade parla di quel blocco di emozioni, passioni e forze che si agitano nell’anima umana – la sfida, la morte, l’amore -, forze possenti contro cui tu puoi solo opporre la tua volontà, ma sapendo che ne sarai travolto. L’Odissea ci mette a contatto con un modello di uomo che ci è lontano, perché vive in un mondo favoloso, ma al tempo stesso vicino, perché il soggetto umano è già circoscritto, c’è un io. L’io dei personaggi dell’Iliade non è così: è un io dilatato dalla volontà di autoaffermarsi, dalle passioni e da questo senso veramente tragico, la consapevolezza che la vita inizia e finisce, come spazio di luce, tra due eternità di buio. Cioè, la radice della tragedia è nell’Iliade, come sapeva Aristotele. L’Odissea è più vicina al romanzo».
Qual è il suo eroe preferito?
«Mah, direi tutti. Io convivo con questi personaggi da cinquant’anni ed è come se li sentissi miei amici. Ognuno ha la sua risposta da dare di fronte alla moîra, al destino che sfugge al controllo umano, e ognuno lotta con la propria sorte istante per istante come se fosse l’ultimo momento della sua vita. È un mondo che non conosce trascendenza, perché la morte spazza via tutto, ogni cosa si gioca qui e ora. E questi eroi mostrano – ognuno a suo modo – che non possono sfuggire al destino, nessuno può».
Un episodio memorabile?
«Uno su tutti: l’incontro di Priamo e Achille. Qualcosa di meraviglioso: riconoscere sé stesso in un nemico. Ciò che li accomuna è la pietà, perché ognuno comprende nell’altro il proprio dolore. Io credo che pochi passi nella letteratura mondiale siano più commoventi di quello in cui questi due personaggi si abbracciano, ognuno nel proprio dolore, e Achille vede in quel vecchio il proprio padre, e Priamo riconosce nel dolore di Achille la sua stessa perdita. Le loro lacrime si mescolano: solo Omero può usare un’immagine così bella, così forte. È un passo quasi filosofico, dove si raggiunge la consapevolezza dell’appartenenza a un destino comune, in cui tutti gli uomini si costituiscono come tali in contrapposizione agli dèi, e hanno la dignità e l’orgoglio della propria sofferenza».
Dopo avere riscritto l’lIiade, ora lei si appresta a curarne una nuova edizione in sei volumi, per la Fondazione Valla, a capo di un’équipe internazionale. Ci saranno problemi di traduzione?
«Tanti. A partire dalle espressioni formulari, che una volta i traduttori tendevano a stemperare, ma che sono state opportunamente reintrodotte da Rosa Calzecchi Onesti, per me la più grande traduttrice di Iliade e Odissea. Poi c’è il fatto che tanti concetti omerici non hanno una precisa corrispondenza nel sistema semantico italiano, e quindi occorre fornire una versione – come dire? – antropologica, che cerchi di mantenere lo splendore dei versi ma anche di dare l’idea di un mondo culturalmente altro. Per esempio, psyché non è solo l’anima, è la vita, certe volte è il soffio, l’ultimo respiro. E poi vorrei che alcuni termini fossero resi mantenendo il suono meraviglioso della lingua greca. Speriamo che gli dèi ci aiutino: Atena, soprattutto, ma anche gli altri».

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Sfidare Apollo, splendida follia

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Chryses cerca di riscattare la figlia Criseide da Agamennone, cratere a figure rosse, ca. 360 –350 a.C., Louvre.

Giulio Guidorizzi racconta l’«Iliade» dal punto di vista di quel borioso di Agamennone. Un esperimento ardito ma perfettamente riuscito

Piero Boitani, “Il Sole 24 ore – Domenica”, 8 maggio 2016

Quando arrivai sotto le mura di Micene, cinquant’anni fa, il cielo era nero e solcato da lampi. La Porta dei Leoni si apriva bassa e squadrata tra enormi pietre grigie. Il vento soffiava furibondo e faceva freddo. Immaginavo le fiaccole accese che, da Troia, di monte in monte, avevano segnalato la partenza del Re per il ritorno. Mi domandavo dove si fosse fermato il carro che portava Cassandra dopo che lui ne era sceso per camminare verso casa sul tappeto purpureo. Qualche giorno prima, ad Atene, avevo contemplato a lungo la maschera funebre sbalzata in oro: dopo averla ritrovata, Schliemann aveva telegrafato al re di Grecia: «Ho visto il volto di Agamennone». Mostra un «un uomo dal naso sottile, con una piega altezzosa sulle labbra, un viso che esprime fierezza, disdegno, regalità». Sì, doveva essere proprio Agamennone, quello lì: anche se era impossibile che lo fosse. Schliemann sapeva benissimo che il mito è molto più forte dell’evidenza materiale, che l’ Iliade e l’ Orestea vinceranno sempre l’archeologia e la storia.
Lo sa anche Giulio Guidorizzi, che pure è grecista serio e agguerrito, il quale s’è occupato a fondo del mito greco (ha curato sull’argomento due splendidi Meridiani), di Edipo, di sogno nella Grecia classica, di magia nell’antichità, e che sta traducendo proprio l’Iliade, e dirigendo una squadra internazionale di studiosi per l’edizione Valla in sei volumi del poema. A tale chiara manifestazione di follia (del resto, ha studiato anche questa in un bel libro di qualche anno fa) Giulio Guidorizzi ne aggiunge ora un’altra: quella, in sostanza, di riscrivere l’Iliade, con qualche frammento di Eschilo e dell’Odissea per sfidare Apollo e le Muse sino in fondo.
Ogni anno, da almeno dieci, tengo ben due serie di lezioni sull’Iliade e l’Odissea. Perciò, ho cominciato a leggere il libro con qualche scetticismo: per esser passato anch’io tra questi furori, per l’oggettiva difficoltà di gareggiare con Omero, per scarsa considerazione nei confronti di Agamennone. Ma come, pensavo, proprio quell’antipatico, insopportabile borioso che ruba Briseide ad Achille e si considera a tutti superiore non si sa bene perché? Ma Io, Agamennone vale come la Cassandra di Christa Wolf. Dopo due pagine, il tempo di passare dal Prologo al primo capitolo, Mýthos, non riuscivo più a metterlo giù. Perché Guidorizzi sa raccontare bene: come Ulisse, al quale Alcinoo dice che narra con sapienza e con arte, come un aedo. E sa, al momento giusto inserire nel discorso i concetti fondamentali che lo guidano e danno il titolo a ciascuno dei suoi capitoli: mýthos, appunto, e poi timé (l’onore), eros, dóra (dono), dólos (l’inganno), pólemos (guerra), psyché (anima), móira (fato), nóstos (ritorno). Quando, nel primo capitolo, narra la vicenda di Enomao, Ippodamia e Pelope – gli antenati di Agamennone – rende la storia così avvincente che sino alla sua consumazione il lettore non riesce a distaccarsene. Ma al tempo stesso quel lettore viene messo nella posizione di cogliere le complicazioni intricate e le sfumature del mito, le sue diramazioni e i suoi salti improvvisi: insomma di capire cosa significhino la memoria e il canto per una civiltà giovane.
L’Iliade consiste per buona parte di battaglie e duelli: lunghi e lenti, in Omero. Ma se si comprende che combattere per l’onore e la gloria significa, nell’ethos greco di tremila anni fa, scegliere tra il lasciare una sia pur minima traccia di sé e affondare irrimediabilmente nel nulla, allora si capisce l’estrema urgenza personale che sta dietro agli scontri infiniti del poema. L’Iliade è tutta “agonistica”, diceva l’anonimo del Sublime: è il poema della forza, scriveva Simone Weil. È polemos, lotta, lance spade scudi elmi frecce, cavalli e carri, sangue, vittorie e sconfitte. Soltanto leggendo Io, Agamennone mi sono reso conto di quanto avesse ragione William Golding, l’autore de Il Signore delle mosche, quando, molti anni fa, mi disse che il carattere “virile” del poema – per lui, una delle sue virtù supreme – sta nel suo essere una guerra di ciascuno contro la moira, pur nella coscienza che contro di essa non si può nulla.
Quando Guidorizzi si tuffa nella mischia e racconta l’avanzata dei Troiani – l’incursione di Diomede e Ulisse, e poi, in crescendo di ritmo, l’attacco e la ritirata di Agamennone, Diomede ferito, Ettore che comincia ad appiccare il fuoco alle navi e sfonda il muro greco, Aiace che si ritira, Patroclo che, rivestito delle armi di Achille, esce sul campo di battaglia e viene ucciso da Ettore, poi il duello di quest’ultimo con Achille, lo scempio furibondo – la sequenza che costruisce è di una rapidità sconvolgente. Dominano, in essa, il thymós e l’ombra della psyché: l’uno, «l’energia sempre in movimento» degli eroi, il «groppo di impulsi ed emozioni» che li trascina; e lo stagliarsi perenne dell’altra, la psyché, «l’ultimo respiro di vita che abbandona un uomo, lasciandolo immoto tra le braccia della morte»: «Il gran lottare, amare, odiare, soffrire che accompagna la vita degli esseri umani istante dopo istante si risolve dunque in questo: un soffio che svapora dell’aria».
Tuttavia, ci sono anche nel libro l’ammaliante cintura di Afrodite e lo scambio di doni: Elena che tesse la guerra che si sta combattendo per lei e stupisce gli anziani di Troia per la sua bellezza tremenda – una di quelle pause straordinarie nelle quali, secondo Rachel Bespaloff, il divenire tumultuoso della guerra si coagula in essere –, il deflagrare dell’eros negli incontri di lei e Paride e di Zeus ed Era, l’affetto doloroso di Ettore e Andromaca, la philía tra Achille e Patroclo, l’incontro civile di Glauco e Diomede. E infine l’ingresso di Priamo nella tenda di Achille, la preghiera in nome del padre, la grande pietà dell’eroe dell’ira, la cena, lo sguardo d’ammirazione che il vecchio e il giovane si scambiano: «il gran dolore del mondo» che sempre ti prende.
Al contrario che nell’Iliade, qui la guerra termina: Achille, per amore di Polissena, si fa cogliere scoperto dalla freccia di Paride, la città è presa con l’inganno, saccheggiata, incendiata, gli uomini uccisi, le donne deportate in schiavitù dai vincitori. Agamennone parte, naviga sull’Egeo con la propria preda, la figlia di Priamo, la veggente Cassandra. Di nuovo, il ritmo si fa incalzante: Cassandra ricorda Edipo, Evadne, Tiresia, Otrioneo; Clitennestra pensa a Ifigenia e si dà a Egisto, nel quale rivive l’inimicizia del padre Tieste per il padre di Agamennone, Atreo. Le fiaccole segnalano l’arrivo di Agamennone a Micene. Cassandra, come in Eschilo, pre-vede tutto ciò che sta per accadere. E che, inesorabilmente, accade: Agamennone incede sotto la Porta dei Leoni, entra nel palazzo, è ucciso come un bue alla greppia. Disceso all’Ade, racconta che la moglie Clitennestra, sgozzata Cassandra, non gli ha neppure chiuso la bocca e gli occhi. Lo racconta a Ulisse: l’eroe del ragionare, del pazientare, dell’errare: del sopravvivere e del narrare.

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In classe con Erodoto

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Federico Condello, “Il Manifesto”, 4 maggio 2016

Gradi di istruzione. Il liceo classico è al centro di un dibattito accanito. Spesso la premessa di detrattori e difensori è sbagliata: quell’indirizzo non serve a formare grecisti né studenti snob. È un esercizio del pensiero

«Ho fatto il classico». La frase meriterebbe una voce in un’appendice al Dizionario dei luoghi comuni flaubertiano. Un ingegnere a disagio la userà per garantire che, nonostante tutto, qualcosa sa ancora; un neodiplomato la premetterà alla domanda: «posso superare il test di Medicina?»; e un critico del liceo classico la sfodererà preferibilmente per dimostrare di non avere pregiudizi personali.
Quest’ultimo è oggi l’uso più frequente. La discussione sulla crisi del liceo classico è accesa, e il 28 e 29 aprile ha avuto una tappa importante al Politecnico di Milano, in un convegno atteso – nei licei non si è parlato d’altro per mesi – promosso dalla Direzione generale per gli ordinamenti scolastici del Miur. Evento tutto mediatico e un po’ enfatico, ma da non trascurare, visto che si attende una riforma della seconda prova.

Lingua contro cultura
Proprio di qui è partito il dibattito, un anno fa, quando un classicista di fama come Maurizio Bettini propose dalle pagine di Repubblica di intervenire sull’esame di Stato, contro le «dannose traduzioni dal greco e dal latino». Così il titolo, urlante; ma Bettini era cauto e forniva consigli pratici, non nuovi, ora ragionevoli (si tragga la prova da autori davvero studiati a scuola; si diano informazioni di contesto), ora più dubbi (si aggiungano quesiti di carattere disciplinare e interdisciplinare: quanti e di che sorta?).
Il dibattito si è presto radicalizzato, e non per caso: la «lingua» contro la «cultura», con la «cultura» ridotta peraltro ad antropologia del mondo antico, specialità accademica che molti dei riformatori ma sarà un caso professano ex cathedra. Fino al proclama di Luigi Berlinguer, vero nume del convegno milanese: «il liceo classico non è solo le lingue antiche e non è prevalentemente le lingue antiche». Come a dire: il liceo classico è in crisi (d’iscrizioni, innanzitutto: anche se ora ci sono segni di ripresa) e la crisi si risolve eliminando quel che ne fa un liceo classico. È un’idea: come insegna Poe, per vincere il terrore del baratro si può decidere di buttarcisi dentro. E pazienza per chi, affezionato al principio di non contraddizione, suggerisce semmai di rafforzare le materie scientifiche.

Non solo al museo
Di fronte alla radicalizzazione del dibattito, i riformatori si producono in acrobatici distinguo e denunciano il fraintendimento. Si impegnino a essere più chiari, allora, perché a Milano ci si è affidati a slogan populistici come due fra mille «studiando l’aoristo non abbiamo rispetto del mondo classico» (Berlinguer) o «chi esce dal liceo classico deve avere i mezzi per andare in un museo, non sapere a memoria i verbi irregolari» (Bettini). Andare in un museo? Scopo ben poco ambizioso, che denuncia una visione snobistica dell’istruzione classica. Non meno allarmante il continuo richiamo al presunto dovere dei docenti d’oggi: rendere «interessante» il classico, mostrarne gli «aspetti inconsueti», «non far soffrire i ragazzi». Speriamo che i docenti liceali non debbano scegliere fra la taccia di sadici e il ruolo, umiliante, di intrattenitori dell’alta borghesia. Siamo qui agli antipodi dell’elogio reso da Gramsci all’asprezza benefica degli studi classici, al «conformismo dinamico» che, proprio perché duro, a suo tempo emancipa. Una professoressa liceale indignata ha detto che «gli ascensori sociali non funzionano ad acqua di rose».

Chiariamo un punto, allora: i docenti liceali non mirano a formare buoni visitatori di musei. Non mirano a formare classicisti dilettanti né di professione. Se si sbaglia la premessa, il dibattito è viziato. Molto saggia, la direttrice generale Carmela Palumbo ha dichiarato che «un convegno non è il luogo in cui discutere di revisioni ordinamentali». Servono più dati e meno slogan. Più franchezza e meno populismo. Il liceo classico forma studenti che per un quarto si iscrivono a Lettere; proprio le statistiche del Politecnico milanese mostrano che essi ottengono risultati egregi anche nei corsi di studio più lontani dal loro iter liceale. I dati di un mega-ateneo, l’università di Bologna, lo confermano: chi esce dal classico è in cima alle statistiche per rendimento e per scarsità d’abbandoni. Il Miur farà un’ottima cosa se fornirà dati di sistema su cui ragionare seriamente e si turerà le orecchie, per ora, di fronte a consigli unilaterali.

Remix di censo
Intanto, mentre la pedagogia va a braccetto con l’aziendalismo, molti osservano che la traduzione dalle lingue morte cioè la capacità di ricostruire contesti assenti a partire da un testo nudo e spesso ostico funziona ottimamente per conseguire i tanto decantati soft skills. E a Berlinguer che dichiara di voler andare «controcorrente» in Europa difendendo il classico (abbiamo visto come) è facile replicare che l’intero mondo anglofono riscopre massicciamente greco e latino e lascia a noi, esterofili di provincia, il privilegio di liquidarli.

Ma questo è ancora stare sulla difensiva. Il più recente rapporto del consorzio interuniversitario AlmaLaurea, che oggi monitora il 91% dei laureati italiani, tratteggia un quadro che fa urlare chi ha a cuore l’articolo 34 della Costituzione. Il presidente del consorzio – che è un latinista, Ivano Dionigi – lo ha presentato a Napoli proprio mentre a Milano si discorreva di visite ai musei; e lo ha sintetizzato così: «l’università non rimescola più le classi sociali, e la giustizia è la parola esiliata da rimpatriare». Del resto, da anni i sociologi analizzano il «3+2» di Berlinguer, e oltre a sancirne il fallimento nel suo primo scopo incrementare i laureati – offrono materia ulteriore di riflessione: i licei, e il classico ancora spicca, hanno un ruolo cruciale nel ridurre le disparità dipendenti dal censo.

In tale quadro sentiremo il solito, demenziale paralogismo: l’istruzione, in Italia, è sempre più d’élite; il liceo classico è la scuola più elitaria; ergo, chiudiamolo. In alternativa, rendiamolo più facile, più «interessante». Un dibattito frivolo finché non si parlerà di concreti investimenti e di revisione organizzativa profonda, che ci faccia capire quanto è sbagliato continuare a ragionare per alternative (latino e greco vs inglese e informatica) piuttosto che per somme.
Peraltro, chi «ha fatto il classico» dovrebbe aver letto testi politici piuttosto brutali e aver imparato almeno una cosa: il rapporto élites-masse non è faccenda semplice, e dissipare un patrimonio culturale d’élite non è fare il bene delle masse.

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Scontro di civiltà nella Gerusalemme di Giuseppe Flavio

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Andreas M. Steiner,  “Alias-Il Manifesto”, 1 maggio 2016

«70. D.C.», un saggio dello storico Giuseppe Brizzi per Laterza. Il rapporto tra Romani ed Ebrei, inizialmente segnato da pragmatica coesistenza, divenne una guerra ai limiti del genocidio. Ecco perché

Nell’anno 70 d.C. la città di Gerusalemme, tra le più famose e splendide del mondo antico, venne distrutta, dopo un assedio durato circa cinque mesi e un dispiegamento militare imponente: quattro legioni, venti coorti di fanteria, otto alae di cavalleria e diciottomila uomini. A capeggiare l’offensiva fu Tito, figlio dell’imperatore Vespasiano, e destinato egli stesso a succedergli – nell’81 d.C. – alla guida dell’impero. L’incendio del grande tempio, costruito dall’«amico di Roma» Erode il Grande pochi anni prima, segna la conclusione di quella che verrà chiamata la grande rivolta giudaica contro Roma. Da quel momento in poi, cambia radicalmente non solo la storia degli abitanti di quella terra che, sessant’anni più tardi, diventerà la «Palestina», ma anche lo stesso rapporto, improntato a pacifica (seppur interessata) convivenza, che nei decenni aveva legato Roma agli Ebrei prima dell’era cristiana.
Nonostante le fonti antiche non siano interamente concordi sulla natura dell’incendio – intenzionale o scaturito da un incidente –, il futuro imperatore presentò la distruzione del monumento simbolo della religione e della cultura giudaica come una vittoria senza precedenti, degna di essere celebrata con un corteo trionfale che un testimone contemporaneo così descrive: «Era ancora buio quando tutto l’esercito … si era disposto nei pressi del tempio di Iside, dove gli imperatori avevano riposato quella notte. All’apparire dell’alba, Vespasiano e Tito uscirono incoronati d’alloro e rivestiti delle tradizionali vesti di porpora. … Ma quello che più destava l’ammirazione erano gli scenari mobili, che per la loro grandezza facevano temere per la sicurezza del loro trasporto. … Suddivisa in parecchie scene, la guerra vi era rappresentata con la più grande efficacia… l’arte e la complessità delle scene raffigurate erano tali che a chi non aveva visto svolgersi quei fatti sembrava ora di assistervi di persona… Il bottino veniva trasportato alla rinfusa, ma fra tutto spiccavano gli oggetti presi nel tempio di Gerusalemme, una tavola d’oro dal peso di molti talenti e un candelabro fatto ugualmente d’oro, ma di foggia diversa da quelli che noi usiamo. Vi era infatti al centro un’asta infissa in una base, da cui si dipartivano dei sottili bracci simili nella forma a un tridente e aventi ciascuno all’estremità una lampada; queste erano sette, dimostrando la venerazione dei giudei per quel numero».
È un brano della Guerra giudaica (VII, 5) dello storico Giuseppe Flavio (Yosef ben Matatiyahu: Giuseppe figlio di Mattia), nato a Gerusalemme nel 37 d.C. da una nobile famiglia sacerdotale. Dopo aver combattuto contro l’occupazione romana, venne fatto prigioniero. Graziato dall’imperatore Vespasiano, si stabilì – in seguito alla presa di Gerusalemme da parte di Tito – a Roma, dove scrisse in greco le sue opere, di fondamentale importanza, che si leggono, ancora oggi, come un romanzo.
Il candelabro descritto nel brano sul corteo trionfale è, verosimilmente, quello raffigurato nel celebre bassorilievo all’interno dell’Arco di Tito, eretto in onore del condottiero vincitore.
La vittoria militare sugli insorti ebbe come conseguenza la devastazione di Gerusalemme, la morte e/o la riduzione in schiavitù di migliaia di ebrei e il saccheggio di un’intera regione, la Giudea. Ma non solo. Con l’immenso bottino ricavato, i dinasti flavi finanziarono un vasto programma di arricchimento architettonico di Roma, che così si dotò di monumenti straordinari, tra cui il Tempio della Pace, il già citato Arco trionfale e, soprattutto, il più grande anfiteatro del mondo antico, il Colosseo, inaugurato nell’81, appena undici anni dopo la tragedia gerosolimitana. L’iscrizione rinvenuta su un architrave all’estremità orientale dell’edificio non lascia dubbi in proposito: IMPERATOR CAESAR VESPASIANUS AUGUSTUS AMPHITHEATRUM NOVUM EX MANIBUS FIERI IUSSIT (L’imperatore Vespasiano fece erigere il nuovo anfiteatro con i proventi del bottino). Fa riflettere il fatto che il simbolo stesso di Roma, quell’imperituro monumento alla gloria imperiale visitato ogni anno da milioni di turisti, racchiuda la tacita testimonianza della lontana catastrofe che per il poeta e filosofo inglese Samuel Taylor Coleridge rappresentava, insieme «all’omerica guerra di Troia, l’unico soggetto che ci rimane per un poema epico».
All’epopea evocata da Coleridge dedica una lunga e appassionata ricerca Giovanni Brizzi, professore di Storia romana all’Università di Bologna, già noto ai lettori per il suo Annibale, Come un’autobiografia (Rusconi 1994) e, più di recente, per Scipione e Annibale. La guerra per salvare Roma (Laterza 2007). Nel saggio 70 D.C. La conquista di Gerusalemme (Laterza «i Robinson/Letture», pp. 426) Brizzi, esperto di studi militari, avvia un serrato dialogo con Giuseppe Flavio, che nei suoi testi principali – le Antichità giudaiche e la Guerra giudaica – descrive come la Giudea e i territori contermini si fossero trasformati, passando da stato teocratico sovrano a provincia dell’impero romano. Brizzi ne ripercorre la sequenza cronologica, partendo dal lontano 161 a.C. – quando Roma aveva stretto un’alleanza strategica (in funzione anti-siriana) con la dinastia giudaica dei Maccabei –, per giungere alla catastrofe del 70 d.C. e, ancora oltre, agli ultimi fuochi della resistenza antiromana: quelli definitivamente spenti negli anni Trenta del secondo secolo con conseguente trasformazione – disposta dall’imperatore Adriano – di Gerusalemme in Aelia Capitolina e della Giudea in provincia di Syria-Palaestina (decretando così, per la prima volta, la fortuna di un nome che, nella sua duplice accezione, storica e politica, sopravvive ancora oggi).
Il rapporto tra Romani ed Ebrei, inizialmente segnato da pragmatica e pacifica coesistenza (negli stessi anni in cui Roma celebrava il suo trionfo sulla Giudea capta, nella capitale imperiale viveva da lunghi decenni una comunità ebraica numerosissima, a cui già Giulio Cesare aveva concesso la libertà di culto), si avviò ben presto a diventare, scrive Brizzi, una guerra «ai limiti del genocidio, segnata dalla totale incomunicabilità tra le due parti».
Ma come si giunse a tanto? Quale fu il ruolo, nello scacchiere vicino-orientale tra primo secolo a.C. e primo secolo d.C., di personaggi dall’identità sfaccettata quali Erode il Grande, di prefetti/procuratori romani incaricati di governare la provincia della Giudea, o, ancora, di capi ribelli come Giuda il Galileo, fondatore della setta dei sicari, degli zeloti Eleazar ben Simon e Giovanni di Giscala, e dello stesso Giuseppe Flavio? E quali furono le premesse storico-ideologiche di un conflitto che per gli Ebrei sfociò nella più grave tragedia della loro storia antica e, per Roma, significò la perdita di «buona parte della sua forza militare» e di un «patrimonio non rimpiazzabile di energie vitali» (Brizzi)? L’autore del saggio individua la ragione ultima di quella catastrofe nella irriducibilità delle rispettive fisionomie culturali, nello «zelo ebraico verso la legge divina da un lato, la devozione romana per le umane leggi dell’impero, dall’altro».
Fu «scontro di civiltà»? Semmai fu lo «scontro di civiltà» per eccellenza, sembra suggerire Giovanni Brizzi; la cui indagine ci ricorda come, tra le grandi date della Storia, alcune – rare – superino le altre per rilevanza e «longevità». Il 70 d.C. è una di queste.

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Spedizioni romane in Britannia

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Vittorio Emanuele Parsi, “Il Sole 24 ore – Domenica”,  17 aprile 2016

Il libro di Cristiano Bettini (Oltre il fiume oceano. Uomini e navi romane alla conquista della Britannia) è un volume poliedrico, dalle molte sfaccettature, una sorta di “imbuto rovesciato” che dalle operazioni in Britannia (Cesare 55 e 54 a.C.; Claudio 43 d.C.; Costanzo Cloro, 296 d.C.) allarga lo sguardo all’intera organizzazione militare romana. In effetti sono molti “i libri” contenuti in questo volume, impreziosito da un apparato iconografico e cartografico imponente e davvero ben realizzato. Si tratta di un libro di storia militare romana, evidentemente, ma anche di una riflessione a tutto tondo sul cosiddetto modello “expeditionary” che rappresenta la scelta obbligata delle forze armate di tutti i grandi Paesi occidentali contemporanei (Italia compresa). Infine è anche un manuale sulla navigazione a vela latina. Si respira in tutto il libro la lunga esperienza marinaresca e la sincera passione per il mare dell’autore, ammiraglio di squadra in congedo della Marina Militare, che in questa sua nuova opera letteraria dà prova di una competenza e professionalità storica di assoluto livello.
Le tre spedizioni romane in Britannia vengono contestualizzate nei diversi momenti di vita dell’”imperium”: la fase tarda repubblicana della bulimia espansionistica cesariana, quella della lunga auge imperiale, in buona sostanza coincidente con i due secoli centrali del principato e il lungo epilogo difensivo, che si protrarrà, considerando la parte orientale dell’impero oltre 1000 anni. Roma non nasce come potenza navale. Lo diventa per poter sconfiggere Cartagine. Ma proprio il fatto che dopo la distruzione della città punica nessun’altro sfidante saprà contenderle il dominio del Mediterraneo cristallizza questa trasformazione. Saranno le spedizioni in Britannia, oltre il “Fiume Oceano”, appunto, a rimettere alla prova lo sperimentato talento romano per l’appropriazione delle buone idee e dei buoni manufatti altrui. Se i romani importarono il gladio dalla Spagna, proprio dopo le guerre puniche, così dai popoli atlantici appresero le tecniche marinaresche e di carpenteria per mettere in mare una flotta capace di navigazione oceanica.
In realtà è proprio la natura essenzialmente terrestre del potere militare romano a rendere queste tre spedizioni così interessanti e attuali. La loro ciclopicità non attesta tanto la trasformazione della natura di Roma da potenza continentale in potenza navale, quanto piuttosto la versatilità dello strumento militare romano e la straordinaria capacità di questo stato costruito intorno al suo esercito di affrontare sfide inedite e complesse con estremo pragmatismo, traendo lezione dalle esperienze precedenti. Le spedizioni in Britannia rappresentano innanzitutto un gigantesco rompicapo logistico, senza la cui soluzione esse non avrebbero potuto aver luogo o avrebbero costituito un episodio poderoso ed effimero al tempo stesso. Nella realtà, la presenza romana in Britannia durerà quasi fino al collasso dell’impero d’Occidente, nel V secolo d.C.. Esse costituiscono la più evidente manifestazione dell’organizzazione militare romana, capace di integrare l’intera catena logistica e di trasporto a sostegno delle forze combattenti. Ed è anche per questo che lo studio di queste tre campagne si rivela di straordinaria attualità. Oggi, la necessità di una sempre maggiore integrazione e coordinamento tra le diverse capacità delle forze armate rappresenta l’attuazione pratica della lezione romana. Non per caso, il modello delle spedizioni romane in Britannia venne ripreso dalla Gran Bretagna nella sua lunga fase imperiale e, successivamente, dagli Stati Uniti, che lo potenziarono ulteriormente. Pensando alle sfide che il mondo contemporaneo lancia alla nostra sicurezza, è evidente come non sia possibile proiettare alcuna forza a difesa degli interessi nazionali se questa non esiste e non è in grado di operare in autonomia per un certo lasso di tempo anche contro forze nemiche ben equipaggiate: ma senza capacità di trasporto nessuna forza può essere ugualmente proiettata, così come ogni convoglio necessita di adeguata protezione antisom e aerea. Di qui la caratteristica di “operabilità interforze” del modello “expeditionary”, che consente di superare anche la tradizionale rivalità tra la componente terrestre, quella navale e quella aerea.
In conclusione, il libro di Cristiano Bettini è straordinariamente documentato (oltre che ben scritto) e colma un vuoto nella letteratura accademica non solo italiana tanto nel campo della storia militare quanto in quello degli studi strategici.
Cristiano Bettini, Oltre il fiume oceano. Uomini e navi romane alla conquista della Britannia, Laurus, Roma, pagg. 510

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Tutti pazzi per Delfi, il ritorno degli oracoli

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Da Eleusi a Dioniso, da Orfeo alla Sfinge in libreria è boom di saggi che indagano religioni e culti iniziatici dell’antica Grecia. E che parlano soprattutto di noi

Silvia Ronchey, “La Repubblica”, 2 marzo 2015

Quando san Paolo, nel tredicesimo capitolo della prima lettera ai Corinzi, parla dell’iniziazione ai misteri cristiani, descrive così la condizione umana: «Ora vediamo attraverso lo specchio di un enigma», “per speculum in aenigmate”. «Poi, vedremo faccia a faccia». Lewis Carroll usò l’espressione «attraverso lo specchio» (Through the Looking Glass) come titolo del secondo volume di Alice nel paese delle meraviglie, che è un trattato sui misteri dell’antichità (quelli eleusini per esempio: pensiamo al neonato che si trasforma in maiale nella cucina della Duchessa), anche se viene considerato un libro “per piccoli”. Come del resto altri libri simili della seconda metà dell’Ottocento, tra cui il Pinocchio di Collodi, a sua volta ispirato da una precedente narrazione dall’apparenza fiabesca, in realtà iniziatica, le Metamorfosi di Apuleio.
Non è un caso. “Piccolo” era nel mondo ellenico il nome in codice del “non iniziato”, di chi attendeva l’iniziazione: «Quando ero piccolo (parvulus) parlavo da piccolo, conoscevo da piccolo, ragionavo da piccolo. Ma ora che sono adulto (vir), ciò che era da piccoli l’ho eliminato». Anche la parola “enigma”, che compare subito dopo, è una parola spia. Era “per enigmi” che la parte più profonda e più mistica, “misterica” appunto, della religione greca veniva comunicata a chi attendeva l’iniziazione.
Per enigmi parlava la Pizia a Delfi. Il santuario di Apollo, attivo almeno fin dall’VIII secolo a.C., come spiega Michael Scott ( Delfi. Il centro del mondo antico, Laterza, pagg. 368), era l’omphalos, il cordone ombelicale attraverso cui il profondo viaggio mistico della religione ellenica teneva collegato il solare mondo greco all’oscuro grembo della tradizione misterica ancestrale.
Physis kryptesthai philei, «la natura ama nascondersi», ammoniva Eraclito; e aggiungeva: «L’oracolo non dice né nasconde: dà segni» (semainei), come riferisce nel De Pythiae oraculis Plutarco.
«Guarda, ritornano, uno per uno, / con passo incerto, solo a metà svegli», scriveva Ezra Pound in quella magnifica poesia intitolata Ritorno. Oggi gli dèi della Grecia ritornano in un corteo di libri sui culti e i misteri del loro antico regno. Oggi, nel revival della storia delle religioni, ritorna l’interesse per il paganesimo mistico e profondo, come nel vecchio Rinascimento, ora anche nel nuovo.
Se il solare Apollo suggeriva la sua conoscenza attraverso un tenebroso intreccio di parole, da districare a costo della stessa vita, anche Gesù nel Vangelo — spiega Maurizio Bettini (Il grande racconto dei miti classici, Il Mulino, pagg. 503) — formula enigmi quando recita le sue parabole. Come quella del seminatore, che i discepoli non comprendono: «Se non capite il significato di questa parabola, come farete a capire tutte le altre?», li rimprovera Gesù. «Il seminatore semina la parola»: solo una piccola parte del seme non muore. Lo sapeva André Gide.
È la risoluzione dell’enigma per eccellenza, quello della Sfinge, creato da un uomo, rivolto a un altro uomo, che ha per soluzione l’uomo — Simone Beta, Il labirinto della parola. Enigmi, oracoli e sogni nella cultura antica (Einaudi, pagg. 347) — a gettare Edipo nella condizione esistenziale ancora più fittamente misterica che lo rende il protagonista del mito greco più famoso al giorno d’oggi, l’alias di ciascuno di noi, la maschera primaria del gran teatro del mito su cui si proietta il mistero universale dell’inconscio.
«Conosci te stesso», recitava la scritta sul frontone del tempio di Delfi, e per quante interpretazioni ne siano state date, da Platone all’Oracolo di Matrix, quasi nessuno ha in seguito dubitato che il mistero del mondo giaccia nel profondo dell’io, in sotterranei della coscienza simili all’adyton dov’era conservata, sotto la pavimentazione marmorea del tempio, la sacra pietra che indicava il centro del mondo.
Plutarco, sacerdote delfico, forse il più grande conoscitore della religione ellenica, in un altro dei suoi dialoghi pitici fa discutere gli interlocutori sul significato dell’altrettanto famosa e di Delfi, «offerta sacra al dio» inscritta tra le colonne frontali del tempio. Le interpretazioni dei dialoganti sono ancora più misteriose, forse, della scritta. La più amabile è quella di Nicandro, secondo cui sta per ei, la particella interrogativa “se”.
Come testimoniato da Petronio e ricordato da Eliot in exergo alla Terra desolata, la Sibilla cumana, alla domanda «Cosa vuoi?», rispondeva: «Voglio morire ». La “morte al mondo”, stato di trance per la sacerdotessa, era anche condizione perché il fedele potesse fruire dell’insegnamento segreto dell’oracolo: «L’anima è nell’ignoranza tranne quando si trova nel processo di morte. Perciò anche il verbo “morire” e il verbo “essere iniziato” si somigliano», recita un frammento di Plutarco sui Grandi Misteri eleusini.
Morte e vita unite insieme in una sola esperienza iniziatica, l’epopteia, in cui l’immortalità coincide con l’espansione della coscienza che muore al principio d’individuazione: è il segreto, o almeno uno dei segreti, dell’iniziazione più impenetrabile del mondo antico, quella di Eleusi, dove la morte non è peraltro solo condizione metaforica di uscita dall’io, ma è anche attuata materialmente nel sacrificio umano che occhieggia dalla sterminata profusione di inquietanti quanto reticenti testimonianze pagane e cristiane (ora integralmente raccolte nell’antologia Eleusis e Orfismo. I Misteri e la tradizione iniziatica greca, a cura di Angelo Tonelli, Feltrinelli, pagg. 639, euro 14) su «quelle peripezie terribili, brividi, tremori, sudore e sbigottimento» che nell’immenso telesterion di Demetra, non lontano dalla Pietra Senzasorriso, il 20 del mese di Boedromione, al termine di un’interminabile processione orgiastica, metteva in scena la discesa agli inferi di Persefone e la sua rinascita nel ciclo primaverile della terra.
L’immagine della Madre e della Figlia, la spiga mietuta dallo ierofante, la melograna rosso sangue, il sacro accoppiamento, le altre “cose indicibili”, la Grande Luce che tutti descrivono lampeggiare “in alternanza” dal sottomondo di tenebra: il dramma sacro eleusino, residuo di riti dell’antica religione femminile — meno quella di Iside, di cui ci parlano Apuleio e Collodi, che quella dell’antica Dea Bianca di Graves — non dava al miste “un insegnamento”, ma, come spiega Aristotele, “un’impronta”, un marchio: «L’iniziato non deve apprendere qualcosa ma raggiungere una certa condizione psichica», disporsi a uno stato di coscienza alternativo, altrimenti irraggiungibile e da allora irreversibile, cui non necessariamente concorreva il kykeon, la bevanda sacra dei misteri, forse dotata di proprietà psicotrope, ma che certamente, come esplicitato anche nelle lamine orfiche, abbatteva la strutturazione dell’io in una promessa di immortalità “felice e beatissima” e tanto più dolce in quanto già attuata nella morte- in-vita.
«Nella religione degli antichi greci si manifesta la facoltà di vedere il mondo nella luce del divino. E le forme nelle quali questo mondo si è manifestato divinamente ai greci non dimostrano forse la loro verità nel fatto che vivono ancora oggi? », scriveva nel 1929 Walter Otto (Gli dèi della Grecia, ripubblicato da Adelphi, pagg. 343, euro 42). Anche dopo la fine del paganesimo, anche se, come denunciò Plutarco, «il grande Dio Pan è morto», il mito greco è rimasto vivo. Se qualcosa è cambiata, non è stata certo la psiche umana, ma la la sua capacità di collegarsi a quel “tutto” con cui secondo san Clemente di Alessandria i Grandi Misteri di Eleusi avevano a che fare; a quella che i neoplatonici avrebbero chiamato l’anima del mondo: la sua “religione”, da “religo”, legare. Gli dèi dell’antichità sono scomparsi solo in apparenza. Si sono inabissati nel profondo dell’inconscio collettivo, per riaffiorarne continuamente: come sintomi, ha intuito Jung, perché il mito e il sintomo sono la stessa cosa, perché «se vogliamo studiare la sofferenza umana», come ha detto James Hillman, «dobbiamo studiare il mito».

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Nel segno di Iside l’incontro delle civiltà

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L’influsso dell’antico Egitto sul mondo greco-romano
Maurizio Assalto, “La Stampa”,  5 marzo 2016

Certo, a vedere quelle statuette con una giovane donna che allatta il figlioletto al seno, non è possibile non pensare alle miriadi di immagini della Madonna col Bambino prodotte dal Medioevo in poi. Invece la giovane donna è Iside, la grande dea degli Egizi, il Bambinello è suo figlio Arpocrate (il nome da infante di quello che diventerà Horus), e il tutto è stato plasmato lungo il Nilo (ma poi anche in varie parti del Mediterraneo, anche sulle coste italiche) alcuni secoli prima (e poi anche dopo) la venuta di Nostro Signore.
Un plagio cristiano? Sappiamo che il cristianesimo è debitore di molte concezioni più antiche, rimodellate e reinterpretate (anche Arpocrate-Horus, come più tardi il greco Dioniso-Zagreus, conosce una vicenda di uccisione, addirittura di smembramento, e risurrezione). Ma nella mostra «Il Nilo a Pompei», che si apre oggi al Museo Egizio (fino al 4 settembre, con importanti prestiti italiani e internazionali), la suggestione è lasciata in sospeso: tanto più che le immagini di Maria lactans, nell’Egitto cristiano del V-VII secolo, sono molto rare, e il motivo iconografico riemerge soltanto nell’Italia del 1100. Pure, le contaminazioni dell’Egitto con la koiné greco-romana, e più in generale con il mondo mediterraneo, sono innegabili e non in una sola direzione. Come dimostra questa intelligente rassegna che nel rinnovato museo inaugura lo spazio dedicato alle esposizioni temporanee, che il direttore Christian Greco, curatore della mostra con Federico Poole e Alessia Fassone, vorrebbe organizzare annualmente per investigare le influenze della cultura egizia nell’arte e nella cultura di tutti i tempi, fino alle avanguardie novecentesche.
Se le prime tracce di contatti risalgono addirittura alla metà del secondo millennio (esposto un grande vaso di impostazione minoico-cipriota e con iscrizioni geroglifiche, da Deir el-Medina), è nei secoli successivi, con Omero e poi con Erodoto, Platone, Diodoro Siculo, Plutarco, che l’immagine dell’Egitto si fissa presso i greci come quella di un luogo esotico, misterioso, affascinante e di sapienziale antichità. Nel III secolo a.C. sono attestati i primi insediamenti di mercanti egiziani a Delo, quindi al Pireo e, tra la fine del II e l’inizio del I, sulle coste della Campania.
Intanto la conquista del paese dei faraoni da parte di Alessandro e il successivo insediamento della dinastia greca dei Tolomei nella nuova capitale Alessandria hanno dato vita al crogiolo di una nuova civiltà. Alcune vecchie divinità egizie passano in secondo piano, altre nascono e vengono assimilate a quelle elleniche, come Serapide (un misto di Osiride a Api, variamente e liberamente identificato con Ades, con Zeus, con Asclepio). Su tutte, e al centro di tutto, Iside, l’antica grande dea della fertilità identificata con Afrodite e infinitamente rideclinata, come si vede nei reperti in mostra: Isis Fortuna, Isis Pelagia (protettrice dei naviganti), Isis Panthea (sintesi di tutta la divinità immaginabile), Isis come dea dei misteri iniziatici (cosa che non era mai stata nella terra d’origine) associata alla Demetra eleusina.
A Roma e nelle altre città della repubblica (poi dell’impero, fino alla piemontese Industria, l’odierna Monteu da Po) ai larari con la tradizionale triade capitolina (Giove, Giunone, Minerva) si affiancano quelli con Iside, Arpocrate, Serapide e Anubi. Alla grande dea madre è dedicato un imponente tempio a Benevento, da cui proviene una statua di diorite dell’imperatore Domiziano (I sec. d.C.) ritratto come un faraone, con il copricapo nemes, le braccia rigide lungo i fianchi, la gamba sinistra avanzata, secondo una plurimillenaria tradizione iconografica. Un altro Iseo sorge a Pompei intorno al 100 a.C., e nelle domus della città vesuviana le decorazioni parietali si affollano di elementi egittizzanti, come negli affreschi esposti, dalla Casa del Bracciale d’oro, con lussureggiante vegetazione mediterranea dalla quale spuntano teste di faraoni e – in funzione ormai meramente decorativa – sfingi alate, quindi greche, ma in posizione accovacciata, come quelle egizie. Ormai l’Egitto è una moda, sovente una mania.
Attraverso i primi scambi commerciali, poi le due conquiste – quella di Alessandro (332 a.C.) e quella romana (31 a.C.) – due grandi civiltà si sono contaminate con vantaggi reciproci. Ed è questo, in filigrana, l’insegnamento della mostra: ospitata nelle sale opportunamente dedicate a Khaled al-Asaad, l’anziano archeologo trucidato la scorsa estate a Palmira dai fanatici dell’Isis, che per una felice combinazione si inaugurano col racconto di una storia che è l’esatto opposto di quella vissuta in questi tempi nel Medio Oriente in fiamme. E che corregge in qualche modo la profezia di Samuel Huntington: tra le civiltà, se sono davvero civiltà, ci può essere, c’è incontro; lo scontro si dà soltanto con l’inciviltà.

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Gli occhi di Giulio Cesare da Dante ai “Promessi sposi”

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Andrea Del Sarto, Studio della testa di Cesare, 1520-21

Uno studio di Luciano Canfora indaga le fonti latine che hanno nutrito la Divina Commedia (e non solo)

Gian Luigi Beccaria, “La Stampa”,  14 febbraio 2016

Frammezzo alla ricchezza di dati obiettivi e riferimenti, cosa dimostra il volumetto di Luciano Canfora che esce col titolo Gli occhi di Cesare. La biblioteca latina di Dante (ed. Salerno)? Mostra che chi scrive non si rifugia al fresco sotto un pero a contemplare le stelle, o si lascia lambire dallo zefiro vivificante di primavera che gli insuffla l’ispirazione, ma inventa, innova, costruisce i propri libri usando altri libri: racconta, ma al cospetto di quanto hanno fatto altri prima di lui, seguendoli, magari rovesciandoli.
Perché «gli occhi di Cesare»? Dante ha posto Cesare tra «li spiriti magni» del limbo, dove lo fa comparire «armato con li occhi grifagni». Non è casuale l’aggettivo. Non è totalmente invenzione di Dante. L’unica fonte latina che fornisca un ritratto fisico di Cesare è il capitolo 45 di uno dei testi più diffusi nel Medioevo occidentale, il De vita Caesaris di Svetonio. Il quale Svetonio aveva scritto: «nigris vegetisque oculis». Dante vuole mettere in rilievo gli occhi vividi, lucidi e neri, simili a quelli di un falcone, o grifone, di un uccello di rapina insomma: occhi fieri, lampeggianti, come di animale sempre pronto a ghermire.
Una volta indicata la fonte certa, Canfora compie un secondo passo, e cita Manzoni, capitolo VII dei Promessi sposi: c’è un bravo armato (sta a guardia dell’osteria dove Renzo, Tonio e Gervaso cenano insieme per preparare il colpo di mano del matrimonio clandestino) appoggiato al vano della porta che fa «lampeggiare ora il bianco, ora il nero dei due occhi grifagni». Nello stesso capitolo affiorano anche richiami al Giulio Cesare di Shakespeare, un passo del monologo di Bruto, quando parla dell’intervallo che si frappone tra il compiere un’azione terribile e il primo impulso a compierla, una sorta di sogno orribile, di incubo: quel passo è addirittura ripreso nel pensiero di Lucia angosciata durante la preparazione del citato matrimonio a sorpresa in casa di don Abbondio.
Cesare-Svetonio-Dante-Shakespeare. Canfora è implacabile. Esamina ogni dettaglio, non molla la preda. Non molla difatti il nostro Manzoni, e va al Cinque maggio, dove si mettono insieme Cesare e il Giustiniano di Dante di Paradiso VI: Cesare «fu di tal volo / che nol seguiteria lingua né penna». E Manzoni a sua volta scriverà di Napoleone: «di quel securo il fulmine tenea dietro al baleno». E ancora Giustiniano, quando insisteva sulle fulminanti campagne di guerra di Cesare, prepara la via a Manzoni che nella sua Ode ci dirà dell’altrettanto fulminante, velocissima carriera guerresca di Napoleone: «Dall’Alpi alle Piramidi / dal Manzanarre al Reno…», e poi «scoppiò da Scilla al Tanai / dall’uno all’altro mar».
Stesso ritmo accelerato, stessa sequenza spazio-temporale vorticosa. In questi casi però Manzoni mette a confronto due grandi, Cesare-Napoleone. Nel capitolo VII dei Promessi sposi invece capovolgerà la prospettiva storica. Ormai pensa che la storia non è fatta dai grandi, tant’è vero che il Cesare dantesco dagli occhi grifagni ora è grottescamente rovesciato in un bravaccio. Una vera «stoccata anticesariana». A un bandito di strada sono attribuiti gli occhi del Cesare dantesco e svetoniano: è un gioco dissacrante, come Manzoni ama fare ogni tanto, per esempio (è sempre Canfora a notarlo) quando paragona Don Rodrigo che fugge scornato dal paese dopo il voltafaccia dell’Innominato al Catilina in fuga da Roma, come l’aveva descritto Sallustio nel De coniuratione Catilinae.
Siamo soltanto che alle prime venti pagine di questo denso volumetto. Nelle seguenti Canfora continuerà a parlare fittamente di Svetonio, e di Livio, di Orosio, di Lucano, di Sallustio, di Tacito, libri essenziali della biblioteca storica di Dante. Un piccolo libro, questo di Canfora, ma talmente ricco di riferimenti e di scaltrezza che non solo ci addottrina, ma dimostra compiutamente che forse la letteratura esiste – scriveva Zanzotto – «quasi come invito a entrare in un coro di citazioni». Ci vuole uno Sherlock Holmes della filologia come Canfora per scovarle, incrociarle, e interpretarle a fondo.

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Ovidio: il trionfo del poema liquido

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Giovanni da Udine (1487-1564), Contesa tra Apollo e Marsia, 1517-1518, Città del Vaticano, Loggetta del Cardinal Bibbiena

A 10 anni dal primo volume, il settimo completa l’imponente edizione Valla delle «Metamorfosi» offrendo ricchissimi stimoli ai lettori
Alessandro Schiesaro, “Il Sole 24 Ore – Domenica”, 7 febbraio 2016

A dieci anni dall’uscita del primo volume, il sesto completa l’imponente edizione Valla delle Metamorfosi di Ovidio e come i precedenti offre ricchissimi stimoli ai lettori specialistici e non, anche grazie agli indici tematici di tutta l’opera, strumento prezioso per esplorazioni incrociate.

In questi ultimi tre libri dell’opera Ovidio porta a termine il suo tour de force mitopoietico proiettando le Metamorfosi nel futuro. Lo afferma con orgoglio, in tono di sfida, nei versi che suggellano il poema: i suoi versi saranno letti ovunque e sempre, immuni all’ira di Giove e all’usura del tempo. Questo gesto titanico giunge al termine di un libro, il quindicesimo, che si concentra a più riprese, e da più angolazioni, sul tema del tempo e del destino, nuclei concettuali tra i più tormentati del poema. Tutte le Metamorfosi sono dominate dall’inquietante dialettica tra permanenza e instabilità. La prima creazione del mondo, narrata con l’enfasi e il respiro delle grandi cosmogonie, dura pochissimo, subito sopraffatta dall’iniquità delle prime generazioni di esseri umani e prontamente distrutta dal diluvio vendicatore di Giove. La metamorfosi è di regola fulminea nel suo concretarsi: bastano il capriccio di un dio lascivo, uno sguardo illecito, l’errore di un attimo, e uomini e donne si ritrovano mutati in alberi, pietre, animali, ma per sempre. Poema del flusso e del fluido, le Metamorfosi, e insieme, quindi, di una rigidità punitiva.
Ora Ovidio sceglie di affidare a un protagonista d’eccezione, il filosofo Pitagora di Samo, una riflessione generale sullo scorrere del tempo. Pitagora ha le carte in regola per farlo, convinto com’è della metempsicosi: le anime dei defunti non muoiono mai, solo trasmigrano di corpo in corpo, animale o umano che sia. Ne deriva l’assoluta empietà di cibarsi di carni: «no, vi prego, non lo fate, e ascoltate i miei avvertimenti, e se vi mettete in bocca membra di buoi macellati, sappiate e rendetevi conto che masticate i vostri contadini!». Indossati i panni del maestro ispirato, Pitagora illustra una visione del cosmo incentrata sulla ciclicità, la ripetizione, la distruzione come presupposto di nuova creazione. Lo si crederebbe un materialista alla Epicuro, se non fosse appunto che per lui l’anima sfugge a questo destino di dissoluzione materiale e sopravvive, eterna, ai corpi che di volta in volta la ospitano.
Come all’inizio del poema, anche alla fine importa a Ovidio sottolineare le credenziali didascaliche del suo poema, il confronto diretto con la dottrina dei Greci. Le implicazioni sono molteplici. Da un lato, è chiaro, la filosofia di Pitagora è il riferimento perfetto per un poema metamorfico: in un ciclo continuo di trasformazioni sorprendenti e di metempsicosi spiazzanti anche le storie mirabili narrate dal poeta finiscono per trovare un inquadramento più sistematico. La natura stessa, sottolinea Pitagora, è maestra di metamorfosi: basta guardare come dal corpo putrefatto di un toro nascono le api, dalle braccia recise a un granchio si generi lo scorpione, i bruchi lascino il posto alle farfalle. Se tutti i corpi, come afferma il filosofo, derivano la loro origine da altri, perché stupirsi delle vicende che il poeta Ovidio ha ripercorso nella sua opera? Ma questi ultimi libri del suo poema sono anche quelli in cui è più diretto il coinvolgimento con temi storici e politici, in cui ritroviamo per esempio, un’Eneide compressa e polemica, le lodi di Cesare, quelle di Augusto. Tutte vicende che l’insegnamento di Pitagora ricolloca giocoforza in una dimensione inevitabilmente caduca: Troia, ricca e potente, «mostra soltanto antiche rovine», Sparta è ormai «terra senza valore», Micene, Atene, Tebe: nulla più, se non nomi. E Roma? La cronologia impone che Pitagora parli di Roma al futuro, come di una città potente che si sta affacciando per la prima volta sul proscenio della storia circondata da aspettative emozionanti, destinata a diventare capitale del mondo, centro di un impero smisurato. Pitagora si ferma qui, alla profezia di un futuro radioso esemplata in apparenza sulla promessa virgiliana di un «impero senza fine», e però resa incerta e periclitante dal contesto in cui è inserita, preceduta com’è da quel regesto lugubre di grandi civiltà scomparse e seguita dalla conferma che la terra, il cielo e tutto quanto contengono sono destinati a mutare forma. Se tutto cambia e tutto trascorre neppure Roma ’eterna’ potrà sfuggire a questa regola generale. Sfugge invece, Ovidio lo proclama nel sigillo finale, il lavoro del poeta, il cui nome resterà indelebile e la cui opera sarà letta da tutti, e «per tutti i secoli»: un auspicio temperato dal dubbio, ma comunque una rivendicazione orgogliosa di merito.
Fama duratura toccherà certamente alle Metamorfosi Valla, che segnano il coronamento di un trentennio di studi in cui si è radicalmente modificato il ruolo di Ovidio nel panorama della letteratura latina e di quella mondiale. È stata particolarmente felice la scelta del direttore dell’opera, Alessandro Barchiesi, di riunire nell’impresa i protagonisti principali di questa nuova aetas Ovidiana. Quasi mezzo secolo di età separa il più giovane tra i commentatori, Joseph Reed, dal decano Edward Kenney, il quale fin dagli anni sessanta aveva promosso a Cambridge un ripensamento complessivo della poesia ovidiana. E a Cambridge l’opera si chiude oggi con questi ultimi tre libri magistralmente commentati da Philip Hardie, dopo che lo stesso Barchiesi e Gianpiero Rosati avevano dimostrato l’apporto decisivo della critica italiana. Si addice alle Metamorfosi questa polifonia di stili e modi dell’analisi, questo orizzonte internazionale dell’impresa. Per ora, almeno, Ovidio ha avuto davvero l’ultima parola: «vivrò».
Ovidio, Metamorfosi. Volume VI (Libri XIII-XV), a cura di Philip Hardie, traduzione di Goachino Chiarini, indici a cura di Caterina Lazzarini, Fondazione Valla/Mondadori, Milano, pagg. 972

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Ponzio Pilato, ipotesi e illazioni nella nebbia

Iscrizione trovata presso il teatro di Cesarea in Palestina, 1961

Iscrizione trovata presso il teatro di Cesarea in Palestina, 1961

Aldo Schiavone, «Ponzio Pilato. Un enigma tra storia e memoria», Einaudi. Storicamente inafferrabile, il ruolo svolto dal funzionario romano nella passione di Gesù è oggetto di un’analisi oscillante, troppo possibilista

Carlo Franco, “il manifesto”, 7 febbraio 2016

Tra storia e memoria muove l’ultimo libro di Aldo Schiavone: Ponzio Pilato Un enigma tra storia e memoria (Einaudi «Storia», pp. 174). Centoquaranta pagine per ragionare sul funzionario romano che condannò a morte Gesù verso l’anno 30 della nostra era, sotto il regno di Tiberio. Lo studio storico dei resoconti della passione nei Vangeli fronteggia difficoltà gravissime, forse insormontabili. Lo dimostrano le divergenze della ricerca moderna: ogni fase, ogni parola della vicenda è stata discussa, accettata, respinta, riscritta. Una recente sintesi ha avuto bisogno, per fare il punto, di oltre ottocento pagine (The Trial and Crucifixion of Jesus. Texts and Commentary, a cura di D.W. Chapman e E.J. Schnabel, Tübingen, Mohr Siebeck, 2015). Il libro di Schiavone è invece agile: la documentazione è confinata in appendice, insieme alla corposa bibliografia, e i tecnicismi sono poco invadenti. La scrittura, condotta con mano sicura, si apre a sviluppi narrativi. L’indagine non si limita ai problematici dati fattuali, ma si insinua nel non detto dei testi, e soprattutto nelle intenzioni dei protagonisti. Ne consegue, pur con cautele, che il piano di «ciò che avvenne veramente» è spesso superato, a favore di inferenze suggestive e però irrimediabilmente speculative. Osservazioni utili offre l’analisi della prassi amministrativa romana, determinata ove possibile a governare con il consenso delle élites (La Giudea romana e il lavoro del secondo prefetto). Ma il riflesso di questi criteri non si lascia cogliere facilmente nella vicenda di Gesù. La tradizione su Pilato induce a credere che «il prefetto non doveva capire la religiosità giudaica»: lo mostrano gli incidenti seguiti all’introduzione a Gerusalemme di stendardi con l’effigie dell’Augusto (Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, 2.9.2-4) o alla collocazione nel Tempio di scudi dorati in onore di Tiberio (Filone di Alessandria, Ambasceria a Gaio, 38, 299–305).
Giustamente Schiavone indaga che cosa Pilato poteva sapere sulla storia e la cultura della Giudea: è possibile, ma non sicuro, che gli giungesse l’eco della storiografia greca, che andò poi a innervare l’acida digressione di Tacito (Storie, 5. 2-10). Ignote le sue idee: che condividesse il pragmatico scetticismo dell’aristocrazia romana è però ragionevole. Soccorre l’immaginazione, che è virtù dello storico, da usare con prudenza. Posto che «non sappiamo in quale lingua Pilato e Gesù si parlassero», l’ipotesi che il prefetto sapesse l’aramaico (come nel film The Passion) è destinata a restare tale. Le incertezze sullo svolgimento degli eventi nel pretorio di Gerusalemme sono, come è noto, fortissime: per ricostruire e interpretare gli atteggiamenti del prefetto, Schiavone attinge a un piano «psicologico», velando il dettato con frequenti formule attenuative. Nella sezione centrale del libro, dedicata all’interrogatorio (non un «processo») di Gesù, si incontra una sequenza di «è ragionevole supporre», «è probabile», «non vi è ragione per non», «non vi è motivo di dubitare». Essa conduce oltre la soglia del conoscibile, e dello storicamente accertabile. Le riflessioni su Gesù e la sua «certezza solitaria, esposta al dubbio e all’angoscia», su Pilato, che «è possibile fosse già rimasto colpito dalla predicazione di Gesù», la cui personalità «doveva essergli apparsa, nel confronto diretto, perturbante e inattesa», accompagnano una ricostruzione indiziaria, che approda a toni talora pensosi: il dialogo tra i due «è di una potenza simbolica senza eguali», e getta da secoli una luce «abbagliante in modo quasi insopportabile». Ma dopo aver definito quella scena «storicamente persuasiva», Schiavone aggiunge enigmaticamente: «Che sia anche acceduta – nei fatti e non solo nella memoria, e per giunta nei termini in cui la raccontiamo – potrebbe anche essere, fra tutte, la cosa meno importante».
Il lettore resta perplesso: si intende che il contenuto di «verità» del soggetto è inafferrabile. Sequenze di possibilistici verbi al futuro scandiscono passaggi importanti: il grido dei sacerdoti davanti alla proclamazione di Gesù come figlio di Dio «avrà sicuramente colpito il governatore», il quale «lo avrà comparato d’istinto al comportamento del prigioniero» e «si sarà chiesto» se Gesù fosse uno dei «cosiddetti uomini divini» così frequenti in Oriente. Che le questioni del giudaismo fossero estranee alla mentalità romana, che Pilato non fosse «in sintonia con la religione ebraica» è credibile, come si è detto; più difficile pensare che egli «subito si era reso conto della diversità di Gesù»: tale è il senso del racconto evangelico, che però ha a che fare con la memoria o con la teologia più che con i fatti. Le sottili esegesi proposte da Schiavone oscillano tra la ricerca storica e la filosofia, se non la teologia. Certo, il racconto dei vangeli non è un «documento», ma un intreccio di memorie orali, profezie «compiute», rielaborazioni successive. Coerentemente, Schiavone non attribuisce valore storico assoluto agli eventi che analizza. E il carattere non confessionale del suo discorso permette qualche provocazione. Così circa la scena dell’Ecce homo: «Non si può credere a una sola parola di questo racconto». Sullo sfondo sta la critica neotestamentaria: il racconto della passione fu curvato dalla tradizione in una forma che aggravava la responsabilità giudaica e alleggeriva quella romana. Schiavone attribuisce assoluta importanza a eventi di cui pure invita a dubitare radicalmente. Si veda la famosa domanda di Pilato sull’essenza della «verità» (Giovanni, 18.38). «Verità» è parola tipicamente giovannea, però si esita a considerare la frase solo una «falsificazione della memoria». A tratti il discorso si fa ispirato: «nella sua disadorna essenzialità, la prosa di Giovanni raggiunge risultati di grande efficacia espressiva. Nulla, se non un corpo ferito e oltraggiato: e in quel corpo, la maestà e l’onnipotenza di Dio, scempiate dai carnefici». Si percepisce un moto alterno, che segue e poi rigetta la logica del testo analizzato: in una domanda di Pilato a Gesù si coglie «un’esplicita risonanza metafisica», propria di un uomo che «non senza apprensione, sta intuendo la presenza dell’ignoto innanzi a lui». Ma Pilato la ha «pronunciata davvero»? Molto spinge a «ritenerlo possibile». Però circa la successiva risposta di Gesù si annota: «è possibile che Gesù non abbia mai pronunciato quelle parole». Il calibratissimo ma sfiancante oscillare dell’argomentazione coinvolge anche la filologia. La domanda di Pilato ai giudei («Crocifiggerò il vostro re?»: Giovanni, 19.15) è forse un’affermazione: «Quel punto interrogativo è probabilmente l’aggiunta di un copista troppo zelante, se non è stata voluta dallo stesso autore del Quarto vangelo». La filologia è destrutturata: giacché se è vera la prima ipotesi, il testo potrebbe essere corretto, ma è strana l’idea di «correggere» Giovanni nel caso della seconda alternativa.
His fretus, l’autore giunge al centro del libro: posto che la condanna di Gesù era «necessaria» al compimento del piano messianico, tra l’accusato che non si difese e il magistrato che non lo voleva mettere a morte si strinse una sorta di «patto» sul quale il vangelo di Giovanni però tace. Anche in questo caso, un’interpretazione più filosofica che storica. Del resto Schiavone ammette «l’impressione di una insuperabile ambiguità» che emana dalla figura di Pilato, «quasi la sua cifra non potesse essere altro dall’indefinito, dalla nebbia».

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