Picchi di intensità per il ritmo di Achille ed Ettore

Classici ritradotti. L’esametro greco viene trasformato in una sequenza sillabica scandita con enfasi contenuta e discreta, che spesso gioca sulla sospensione precipitando nel verso successivo

Maria Grazia Ciani, “il manifesto”, 1 luglio 208

Nonostante la mole, la nuova Iliade di Franco Ferrari (Oscar «Classici», testo greco a fronte) è estremamente maneggevole e soprattutto ha il pregio di cogliere tutti gli aspetti relativi a un capolavoro antico, restituendolo nella sua complessità ma sciogliendo al tempo stesso quei nodi tecnici che tendono a rendere di difficile comprensione i testi classici. L’introduzione è fondata sulla questione dell’oralità e della redazione scritta del poema. Qui Ferrari chiarisce la «scoperta» di Parry e Lord inserendola in un quadro più ampio che si rivela a una lettura molto attenta del poema, a quei particolari considerati come «incidenti» sui quali facilmente il lettore sorvola, e che fanno pensare a una «precoce redazione scritta del poema» (come documento da conservare), tesi sostenuta dai numerosi esempi di riprese omeriche – sia pure elaborate e variate – da parte di autori posteriori a Omero, quali Simonide, Stesicoro, Alceo, Alcmane… Esistevano quindi esemplari scritti anteriori alla cosiddetta redazione pisistratea e il poema – come del resto osservava Wilamowitz – era già «pronto» quando pervenne agli Ateniesi.
Nonostante ciò o forse proprio per questo, il testo dei poemi omerici rimase a lungo «liquido e cangiante nel dettato e nel numero dei versi», e qui il curatore interviene sulla figura degli aedi (quali Femio e Demodoco nell’Odissea) , che rappresentano una sorta di archeologia del canto epico e in un certo senso precedono i rapsodi, che si esibivano per lo più nelle feste recitando pezzi staccati dell’epopea e si davano il cambio, raccogliendo l’uno il testimone dell’altro. Ma l’osservazione più interessante – al di là di altri particolarità su cui sorvolo – è, a mio parere, quella sulla concezione dell’Iliade stessa, poema di guerra, ma fino a un certo punto, in quanto si basa innanzitutto sull’ideologia del dono e dell’onore per poi trasformarsi in una visione allargata della vita e del destino dei singoli, mentre la guerra, pur nella ferocia delle descrizioni, diventa lo sfondo necessario ma non fondamentale del racconto.
In conclusione: un’introduzione originale, concreta, che si sofferma su particolari in genere tralasciati, ignorati, poco analizzati – i quali invece mettono in luce la frastagliata realtà di questi poemi che in genere si leggono e studiano tenendo conto delle parti più poetiche, dimenticando che la filologia, quando è applicata con chiarezza e ariosità, apre scenari inattesi e svela minuti e affascinanti misteri.
Asciutto ed essenziale il commento, variegato in quanto unisce rilievi tecnici e informazioni necessarie senza dilungarsi in interpretazioni fantasiose: modello da imitare specie trattando opere così vaste e complesse. E lo stesso dicasi della «Nota filologica», che ci presenta un tratto della storia della filologia interessante come un romanzo, sfatando una volta di più l’idea che questi argomenti siano la morte della poesia.
Abituale asciuttezza
Infine, la traduzione, cioè l’argomento che più ci interessa e incuriosisce. E incominciamo da quanto lo stesso Franco Ferrari ci dice in poche paginette con l’abituale asciuttezza. La posizione di Ferrari è categorica ma non è facile comprendere la sua esposizione se non si possiede un concetto chiaro e una conoscenza approfondita della metrica in generale e della sua evoluzione, perché è su questa che si basa la scelta del traduttore. Risalendo al blank verse e al gioco di fusione tra la ritmica delle sillabe (italiano e lingue romanze) e quella degli accenti (lingue germaniche), Ferrari opta per lo «statuto sillabico forte della lingua italiana» (senza peraltro attenersi a una polarità secca sillaba/accento, ma a uno spettro allargato di tendenze secondo l’orientamento di Franco Fortini) – il quale fa sì che «una cadenza legata a picchi di intensità si risolva… in un ritmo scandito con enfasi contenuta e discreta, più adatto del martellante esametro barbaro pascoliano a riverberare le inflessioni dell’esametro greco».
Se la comprensione di quanto viene affermato non è facile, veniamo alla traduzione per la quale ho pensato di prendere in considerazione alcuni brani noti del poema omerico.
«Canta, Musa, l’ira…»
Ineludibile l’inizio del primo canto: «Canta, Musa, l’ira di Achille Pelide, / l’ira sciagurata che lutti innumerevoli impose / agli Achei precipitando alla casa dei morti molte / anime forti di eroi e facendo dei loro corpi / la preda di cani, il banchetto di rapaci: si attuava / il piano di Zeus da quando, scontratisi, si separarono / l’Atride capo di genti e Achille divino».
Non credo sia dovuto a suggestione il fatto che – in luogo della resa dell’esametro ad verbum, che suscita la sensazione di un racconto ininterrotto, di una specie di prosa spezzata – qui si avverta un ritmo il quale, facendo leva sulla lingua d’arrivo, «traveste», secondo l’espressione stessa del traduttore, l’esametro greco e lo trasforma in una sequenza scandita, nella quale gli enjambement – invece di scomporre l’ordito – lo rafforzano, sottolineando una sospensione che precipita nel verso seguente, in un alternarsi di pieni e di vuoti, di pause e di riprese che trascinano il lettore concentrando l’attenzione proprio sul «travestimento». Una nuova proposta di traduzione, profondamente studiata e rispettosa del testo greco senza essere né libera né pedissequa, ma originale soprattutto nella resa del «passo epico», grazie appunto all’adozione dello «statuto sillabico».
Citerò un passo del Catalogo delle navi (libro II): «Lo seguivano gli agili Abanti chiomati sulla nuca, / guerrieri avidi di squarciare con le aste protese / di frassino le corazze attorno al petto dei nemici. / Venivano con lui quaranta navi scure».
La ripetizione del ritornello, reso molto felicemente (venivano quaranta o ottanta navi scure) e la versione sincopata della rassegna rendono la misura del terrore – la forza marinara dell’intera Ellade schierata all’orizzonte, archetipo di un’Operazione Overlord ante litteram.
La bellezza di alcuni passi
Sfogliando il poema, anziché leggerlo puntigliosamente da cima a fondo, è più facile cogliere la bellezza di alcuni passi, come questi del libro IX: «Ma anche a voi altri vorrei consigliare di far vela verso casa / Perché ormai non vi accadrà di vedere la fine / Di Ilio scoscesa: stese la sua mano a proteggerla / Zeus tonante, la sua gente ha ripreso fiducia» (vv. 417-420); «Nulla per me vale il soffio della vita: non le ricchezze / Che dicono ospitasse la popolosa città di Ilio / In tempo di pace, prima che arrivassero i figli degli Achei, / né quelle che chiude al suo interno la soglia marmorea / di Febo Apollo l’arciere di Pito rupestre. / Buoi e grasse pecore si possono razziare, bacili / E cavalli dalle fulve criniere si possono acquistare: il soffio / Della vita non si può, per farlo tornare indietro, né rubare / Né comprare una volta che abbia varcato la barriera dei denti» (vv. 401-409).
E alcuni versi tratti dalle scene di morte di Sarpedonte e Patroclo nel libro XVI: «Cadde simile a quercia o a pioppo o a pino / Svettante che calafati tagliano sui monti con scuri / Appena affilate per farne scafo di nave: / così quello giaceva disteso davanti ai cavalli / e al cocchio rantolando e stringendo la polvere insanguinata» (Sarpedonte, vv. 482-486); «Si troncò di netto nelle mani di Patroclo l’asta / Dalla lunga ombra, pesante, poderosa, dalla punta / Di bronzo e gli cadde dalle spalle con la sua cinghia lo scudo / Ben orlato. Gli slegò la corazza Apollo sovrano / Figlio di Zeus. Cecità gli invase la mente, si sfaldarono / I suoi splendidi arti, si fermò sbalordito…» (Patroclo, vv. 801-806);
Dal libro XXIV – da molti ritenuto un’aggiunta postuma – ricorderò almeno due passi significativi di quel risvolto umano della guerra che Ferrari ha sottolineato nell’introduzione: «Achille prende tra le sue braccia il cadavere di Ettore per deporlo sul carro: / Dopo che le serve lavarono e unsero il corpo / E lo avvolsero in un telo pregiato e in una tunica Achille / Lo sollevò di persona e lo depose su un letto e insieme / Con lui i compagni lo issarono sul lucido carro» (vv. 587-590); e la mirabile scena della «contemplazione»: «Allungavano prontamente le mani sui cibi imbanditi, / ma quando ebbero saziato il desiderio di bevanda e di cibo / Priamo Dardanide guardava Achille ammirandone / L’imponenza e la bellezza tanto somigliava agli dei / E Achille guardava Priamo Dardanide ammirandone / La nobile figura e porgendo ascolto alle sue parole» (vv. 627-632).
Considerata l’arte della traduzione nel suo insieme, pur citando solo pochissimi esempi, vorrei dire ancora due parole sull’uso e la resa delle formule fisse e degli epiteti. Regola aurea della tradizione epica è – si dice – il rispetto di tutti quegli elementi «fissi» che costituiscono i punti di appoggio per i cantori itineranti. A tal proposito Ismail Kadaré, rievocando in un suo docu-romanzo la scoperta dell’oralità da parte di Parry-Lord, rammenta che nei Balcani era prassi consueta la conservazione delle leggende per via orale e che esistevano gilde di cantori molto chiuse, che si trasmettevano le loro leggende col divieto assoluto di alterare alcunché, con una fissità dura e ostinata da portare alla follia (Ismail Kadare-Jusuf Vrioni, Le dossier H., Fayard, 1989).
La traduzione di Franco Ferrari rispetta l’antica regola, con qualche leggera variante peraltro giustificata dalla fluidità del poema da lui stesso sottolineata. Quindi Apollo è sempre «arciere» o «signore dell’arco», Ettore «sterminatore», gli Achei «dalle forti gambiere», Zeus «adunatore di nembi», Aiace «baluardo degli Achei», Andromaca e Era «dalle candide braccia» (confesso che la variante «candida di braccia» mi piace meno, e così «bella di guance» e simili). Trovo estremamente efficaci le formule «di morte», nelle loro lievi variazioni, che peraltro rispondono alle variazioni del testo («Lo catturò tenebra odiosa», «Morte lo avvolse», «Livida notte avvolse i suoi occhi», «La notte calò sui suoi occhi» ecc.). Qualche altra soluzione, specie degli epiteti, mi piace meno e eviterò di citarle perché è solo un mio parere, ma non posso fare a meno di confessare che là dove sono rimasta delusa è nella traduzione degli epiteti degli eroi maggiori. Non mi riconosco in un Achille «scattante di piede» o anche semplicemente «scattante», e soprattutto in Ettore «domesticatore di puledri», siano o non siano questi termini quelli più esatti per rendere il greco. Per entrambi gli eroi l’epiteto è importante, li caratterizza in modo assoluto e inoltre l’Ettore domesticatore di puledri chiude il poema – musicalmente parlando – in minore. Certo, anche questo dimostra come sia difficile tradurre l’epiteto che in sé racchiude tutta una storia, a volte ci vorrebbe un verso intero, come ha fatto quello scrittore che , citando l’ultimo verso dell’Iliade, scriveva: «Questi furono gli onori funebri resi a Ettore, a Ettore che quando era vivo, amava domare i cavalli». Bello, certo, ma non è possibile forzare e snaturare in questo modo il severo anche se fluido esametro. D’altronde quello che conta è l’insieme di questa nuova traduzione che appare diversa dalle altre e avvincente per il ritmo trascinante di quello «statuto sillabico forte» che si dimostra una scelta estremamente felice e che rende la lettura sorprendentemente scorrevole e «nuova». Una bellissima Iliade.

Federico Condello, L’«Iliade» plurilingue di Franco Ferrari
Classici ritradotti. Negli Oscar una nuova, personalissima versione, con denso commento

«Non si è autori che a partire dalla seconda opera», diceva il Lejeune del Patto autobiografico. Aurea regola, dalla quale viene una formula tra le più fortunate del nostro marketing librario: «dallo stesso autore di…». Segue, naturalmente, menzione di uno o più bestseller anteriori. Ma cosa accadrebbe se volessimo applicare la regola, e la pubblicità che ne deriva, all’autore primo e principe, cioè a Omero? Il gioco funzionerebbe ancora? O invece Omero fa eccezione, ed è nato autore fin dalla sua prima opera, che è per noi la prima di tutte le opere a venire? L’«Oscar» omerico che si discute in queste pagine (Iliade, a cura di Franco Ferrari, pp. 1232) esibisce placidamente questa réclame: «di Omero negli Oscar: Iliade, Odissea». E però bisogna ammettere che la dicitura suona piuttosto spiazzante, se applicata al cieco di Chio, al poeta dei poeti. «Iliade, Odissea»: che altro mai dovrebbe esserci? «Di Omero»: siamo sicuri? E «di Omero» in che senso? Omero è forse un autore come un altro?
Eppure, a suo modo, la regola di Lejeune funziona anche per l’autore dell’Iliade e dell’Odissea. «Omero» – il suo nome, il suo mito – è decisamente posteriore ai poemi che del suo nome e del suo mito si alimentarono: appropriarsi di quei poemi, e diffonderli sotto la paternità di un proto-poeta leggendario, fu una geniale operazione di marketing letterario avvenuta nel corso del VI sec. a.C. Gli aedi che la promossero, oltre a tutelare se stessi dietro un comodo anonimato, diedero impulso a una dilagante attività pubblicitaria in virtù della quale «tutta la poesia epica, intorno al 500 a.C., è poesia di Omero» (Wilamowitz): tutta l’epica perduta che noi oggi leggiamo a brandelli. Finché essa circolò sotto il nome di Omero, fu salvaguardata. Poi si perse. Così, se dapprima «Omero» trasse lustro dall’Iliade, di lì a breve l’Iliade trasse lustro da «Omero»; e con essa l’Odissea, poema programmaticamente epigonale con cui inizia davvero «la letteratura», diceva Vincenzo Di Benedetto; e con l’Iliade e l’Odissea ogni altro epos di età arcaica a vocazione panellenica: tutti poemi provenienti a qualche titolo da Omero, cioè «dallo stesso autore di…».
E oggi? Oggi Omero è più che mai «Omero», perché la sua canonizzazione moderna – un fenomeno tutto sommato recente, di pretta età romantica – ne fa un autore più che mai anonimo, più che mai collettivo. Diciamoci la verità: situare Omero nel tempo e nello spazio non solo non ci interessa, ma ripugnerebbe al nostro gusto, e ci parrebbe lesa maestà. Semmai, ci interessa sapere chi lo traduce per noi.
In effetti, fra le infinite patenti di classicità che vanno riconosciute a Omero, una si deve sottolineare, perché la si nota di rado: Omero è l’unico «autore» classico di cui importa sapere chi sia il suo traduttore. Nessuno se lo chiede, fuori dagli specialisti, per Senofonte o Cicerone, per Seneca o Plutarco, e nemmeno per Platone o Aristotele. Omero è diverso. «Voglio rileggere Omero», oppure «mia figlia deve leggere Omero, che traduzione mi consigli?»: ecco una domanda che i classicisti si sentono porre da amici e conoscenti con la stessa frequenza con cui i medici si sentono interpellare su questo o quell’acciacco. E improvvisamente i classicisti si scoprono utili: anche se quasi mai riescono a dare una risposta secca.
D’ora in poi, per l’Iliade, la risposta risulterà forse più facile. Sì, perché a Ferrari riesce qualcosa che ai traduttori omerici riesce di rado: emanciparsi, nella misura in cui è possibile e legittimo, dal canone traduttivo anteriore. Ora, si sa che l’Omero novecentesco è indiscutibilmente quello di Rosa Calzecchi Onesti: la portentosa traduttrice forgiò nel 1950 l’italo-omerico contemporaneo; liberarsi del suo modello si è rivelato per lo più un’impresa impossibile, anche quando la si è lucidamente perseguita. Fra le rare eccezioni, il coraggioso Omero in prosa di Maria Grazia Ciani; e l’ispida, laboriosa, genialmente cervellotica Odissea del citato Di Benedetto.
Ferrari, con questa sua Iliade, si colloca da par suo fra le eccezioni. La sua Iliade viene dopo l’Odissea da lui tradotta quasi vent’anni fa; e viene dopo tanti altri classici – lirici, tragici, prosatori – volgarizzati per le maggiori case editrici italiane: se a Ferrari applicassimo la formula «dallo stesso traduttore di…», l’elenco sarebbe lunghissimo. Con l’Iliade, però, egli compie un’operazione speciale, costata anni e anni di lavoro: il traduttore cerca un ritmo e un tono che siano solo suoi; e solo sue sono tante singole soluzioni che innovano, oltre al ron-ron formulare, tutto il campionario lessicale del poema. Ne esce una stupenda Iliade plurilingue: accanto al registro aulico, c’è il colloquiale; accanto alla vaghezza lirica, c’è il vocabolario tecnico; accanto all’epiteto stereotipato – atto d’ossequio dell’aedo alla sua tradizione, che impone al traduttore un analogo tradizionalismo – c’è l’imprevisto guizzo della nominazione inedita, esatta, illuminante.
Un’Iliade nuova è una novità davvero. Le novità sono qui figlie di dottrina, non solo di felicità espressiva: quasi ogni scelta è una meditata presa di posizione esegetica. E infatti l’introduzione, la nota filologica, il densissimo commento sono fra i migliori contributi omerici recenti. La profondità si abbina a una chiarezza superba, di cui pochi sarebbero stati capaci.
«Voglio rileggere l’Iliade…». Bene: questa traduzione si può caldeggiare con ottimi motivi.

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Informazioni su Mrsflakes

Il sito latinorum.tk è nato per accompagnare le mie lezioni dedicate alla cultura latina, per proporre divagazioni "extra ordinem" sulla classicità e per condividere in rete percorsi e materiali. Si tratta di un lavoro in fieri, che si arricchirà nel tempo di pagine e approfondimenti. Grazie anticipatamente a chi volesse proporre commenti, consigli, contributi: "ita res accendent lumina rebus…" Insegno Italiano & Latino al Liceo Scientifico ”G. Galilei” di San Donà di Piave, in provincia di Venezia. Curo anche il blog illuminationschool.wordpress.com e un sito dedicato a Dante e alla Divina Commedia, www.dantealighieri.tk.
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