Maurizio Bettini, “La Repubblica”, 23 settembre 2015
I travestimenti di Dioniso, i tradimenti di Afrodite, i riti e le commedie. Così gli antichi si prendevano gioco dei divino
Esistono religioni in cui ridere della divinità è possibile anche da parte di coloro che, contemporaneamente, questa stessa divinità la venerano: e ciò è considerato perfettamente “naturale”. Solo la nostra lunga, ben più che millenaria assuefazione ai quadri mentali delle religioni monoteistiche, fa sì che la possibilità di ridere della divinità ci sembri incompatibile con la pratica religiosa – tanto che, per poterlo fare, si deve necessariamente essere dei non credenti, persone che alla religione guardano da fuori. Tutto al contrario, esistono religioni in cui ridere degli dèi è stata ed ancora è pratica comune.
È quello che accadeva, per esempio, presso i Krachi, una popolazione della zona del Volta, in Africa, oggi parte dello stato del Ghana, nei cui racconti trovano posto una divinità che si allontana dagli uomini perché ogni mattino una vecchia la colpisce col pestello; o addirittura taglia un pezzetto del suo corpo per metterlo nella zuppa. A questo proposito Italo Calvino si domandava se «già in origine le religioni di questi popoli» non fossero «imbevute di realismo e di autoironia». Ma anche senza uscire dal nostro ristretto orizzonte geografico, ossia l’Europa, basterà ricordare che anche la cultura antica, quella propria dei Greci e dei Romani, ammetteva tranquillamente la possibilità di ridere della divinità.
Il fatto è che troppo spesso noi giudichiamo naturali, ossia propri della natura umana, abitudini e comportamenti che sono invece costruzioni culturali: tant’è vero che basta voltare pagina, nel libro delle culture, per scoprire che altri, diversi da noi, hanno avuto e hanno comportamenti diversi da quelli che noi riteniamo imposti direttamente dalla natura. Ed è questo il caso di quelle culture, come le antiche, in cui si poteva ridere degli dèi.
Siamo ad Atene, nel 405 a.C., in piena guerra del Peloponneso, un periodo particolarmente drammatico per la città. Per l’esattezza ci troviamo fra i mesi di gennaio e febbraio, giorni in cui si celebravano le Lenee, una festa dedicata a Dioniso (con l’epiteto di Leneo) in cui si svolgevano importanti agoni teatrali. E questo il momento in cui Aristofane mette in scena le Rane, una delle sue commedie più celebri. La trama è la seguente. Accompagnato da un servo, Xanthias, il dio Dioniso decide di scendere all’Ade per riportare in vita il poeta Euripide, di cui è un ammiratore. Si tratta di un viaggio non privo di rischi, ragion per cui il dio decide di assumere l’identità dell’unico personaggio che, da vivo, è stato capace non solo di scendere all’Ade, ma anche di uscirne: ossia Eracle. Dioniso indossa dunque la pelle di leone, tipica dell’eroe, ne impugna la celebre clava, e così travestito si mette in cammino. La prima tappa è costituita, per l’appunto, da una visita a Eracle. Il quale però, vedendo Dioniso con indosso i suoi tipici attributi, non può far a meno di notare che, da sotto la gloriosa leonté, spunta il bordo di una tunica gialla, tipicamente femminile; e che la terribile clava si accompagna a una calzatura dal tacco alto, anch’essa femminile. «Non riesco a non ridere», commenta Eracle vedendo Dioniso combinato così. E con queste parole siamo già entrati nel nostro tema: ridere degli dèi.
Non si tratta però solo di Aristofane: l’uso di ridere degli dèi in Grecia è presente già a partire da Omero. Molti ricorderanno la celebre scena, narrata nell’Odissea, in cui Ares fa all’amore con Afrodite, che è presentata come sposa di Efesto. Ma il fabbro divino si è accorto del tradimento, per questo imprigiona i due amanti in una rete infrangibile – di quelle che solo lui sa costruire – e li espone al ludibrio delle altre divinità (Odissea 8, vv. 306 e ss.): «Padre Zeus e voi altri beati dèi eterni, venite a vedere l’azione ridicola e intollerabile, come sempre mi oltraggia Afrodite figlia di Zeus, me che sono zoppo, e invece ama Ares inviso e funesto, perché lui è bello e veloce, mentre io sono storpio». Ares e Afrodite, goffi amanti esposti al ludibrio degli altri dèi, sono personaggi ridicoli. Ridono gli dèi di questa scena, ma insieme agli dèi dell’Olimpo ridono anche i lettori dell’Odissea.
È un fatto che il politeismo antico accetta una pratica – ridere della divinità – che stupisce (quando non indigna) noi uomini di oggi, islamici, cristiani o anche laici che della divinità, anche se le siamo estranei, abbiamo comunque ereditato l’immagine che per secoli e secoli ne hanno dato le religioni monoteiste. Ora, se si guarda bene come funziona le religione antica, si vede che anche con il dio si possono stabilire praticamente tutte le relazioni che sono attive anche fra gli uomini.
Con la divinità si può comunicare attraverso la preghiera; l’offerta di frutti o il sacrificio di animali – ossia doni di carattere molto concreto – costituiscono una forma di omaggio ma anche di scambio, servono a stabilire amicizie e alleanze con la divinità; ancora, gli dèi antichi non sono solo tanti e molteplici, ma sono divinità presenti, lo sono nei templi della città, in quelli sparsi sul territorio, nelle case dei cittadini, che li onorano con il culto domestico, le loro immagini sono ovunque e di ogni forma. «Tutto è pieno di dèi», diceva Talete, la loro presenza fra i mortali è diffusa è continua. Neppure la natura degli dèi, se ci si pensa bene, è radicalmente diversa da quella degli uomini: a differenza di questi essi sono esseri immortali, è vero, ma entrambe le stirpi, quella divina e quella umana, hanno comunque una stessa origine, tutte e due provengono da Gaia, la Terra. Gli dèi antichi sono non solo vicini agli uomini, sono soprattutto “partner” dei mortali, esseri potenti e immortali che però, a dispetto di ciò, possono anche porsi “in relazione” con gli umani sotto molteplici punti di vista. Ecco perché si può anche ridere di loro: allo stesso modo in cui si può averli in casa propria, proporre loro scambi offrendo frutti o animali, combatterli, amarli, sognarli. Perché ridere non è diverso da tutto il resto: prendersi gioco di qualcuno fa parte dell’intero bouquet di relazioni che gli uomini stabiliscono fra loro.
A questo punto non ci resta che concludere con un breve parallelo fra il modo in cui gli antichi hanno rappresentato i loro dèi e quello in cui le religioni dette monoteistiche si rappresentano invece la propria divinità. Lasciamo da parte il cristianesimo, che si è costruito sul racconto di un Dio che si è fatto uomo per essere ucciso e così redimere i peccati del mondo: una religione come questa, che si fonda sulla passione e la morte del figlio di Dio, si oppone costituzionalmente alla possibilità di ridere. Quanto al Dio ebraico e islamico – ma questo vale anche per colui che i Cristiani chiamano Dio Padre – a differenza delle divinità antiche questa non solo è unica, ma è soprattutto lontana: è un dio che, in quanto costituisce l’origine di tutto ciò che esiste, ed è egli stesso il Tutto – increato ed eterno, infinito, assoluto – per lo stesso motivo è anche remoto, inafferrabile negli spazi siderali che costituiscono solo una particella della sua immensità.
Con Lui non si interagisce offrendogli doni concreti, ma gli si rivolgono solo offerte metaforiche e spirituali. Di lui non esistono immagini, la sua è una presenza tanto totale quanto astratta, anzi, astratta proprio perché totale. L’unica relazione che con lui si può avere è di totale sottomissione, di piena accettazione ai suol voleri, l’esecuzione della sua volontà in un progetto che è addirittura cosmico e, come tale, va ben oltre ciò che riguarda la minima presenza dei singoli uomini. Come si potrebbe ridere di una divinità come questa?