Marino Niola, “La Repubblica”, 4 luglio 2015
L’Europa è figlia della Grecia. Poi ne è diventata madre. E adesso rischia di diventare la sua crudele matrigna. Che l’Ellade sia il momento aurorale dell’Occidente moderno e delle sue parole chiave non ci sono dubbi. Su questa genealogia sono stati versati fiumi del migliore inchiostro. Le idee dell’essere e dell’avere del vecchio continente sono state fabbricate nell’officina egea. Ma è tra gli ultimi anni del Settecento e i primi dell’Ottocento che la Grecia, e con lei il Meridione europeo, sono stati ripensati e in un certo senso reinventati dallo sguardo del Nord, quello germanico prima di ogni altro. È allora che si determina la biforcazione antropologica tra le due Europe, che da quel momento smettono di essere una. E cominciano specchiarsi, ciascuna nella differenza dell’altra. Nel senso che le potenze del Settentrione, Germania, Inghilterra e Francia, ovvero gli attuali pilastri dell’Unione, diventano moderne. E, soprattutto cominciano a rappresentare la loro modernità per contrasto con il mondo euromediterraneo, consegnato per sempre alla sua irredimibile antichità. Non a caso è allora che nasce la scienza della mitologia greca. E a inventarla non sono i legittimi abitatori delle contrade del mito, ma filologi, filosofi, storici e archeologi tedeschi. Come Wilamowitz e Winckelmann. La cui devozione estetica per l’Ellade è indiscutibile. Ma è altrettanto indiscutibile che idealizzandola di fatto l’hanno reinventata.
L’amico Marcel Detienne, il più grande grecista vivente, diceva poco tempo fa che in realtà la Grecia che noi conosciamo, quella che abbiamo studiato a scuola, è stata letteralmente creata da questi studiosi. Perché la mitologia antica diventasse un archetipo, un antecedente logico e archeologico, destinato a lasciare il posto alla razionalità moderna. Che i miti non li vive ma li spiega. Ed è un grande errore, aggiungeva Detienne, perché pensiero mitologico e filosofia, cioè poesia e pensiero razionale non succedono l’uno all’altro sulla scena della storia. Ma nascono insieme. È per questo che la filosofia di Platone, anche quella politica, parla sempre attraverso il mito.
Nella cultura nord-europea, a dominanza protestante, il Sud del continente e il mondo classico in generale diventano così la metafora culturale di un passato che non passa. Che non riuscirebbe a trasformarsi in presente, perché incapace di sincronizzarsi sul cambio di marcia della storia. E perciò resta fissato per sempre, come il fotogramma nobile di uno sviluppo mancato. Di una condizione submoderna. Che è alla radice della nostra nozione di sottosviluppo. «Questa è la patria delle divinità della mitologia greca. Terra degli dèi e degli eroi», diceva Tocqueville, uno dei padri del liberalismo, sottintendendo così che non è la terra degli uomini di oggi.
E in quegli stessi anni, le scoperte archeologiche compiute per lo più da tedeschi, inglesi e francesi, fanno affiorare un passato glorioso di cui i popoli mediterranei appaiono gli indegni continuatori. Portatori sani dell’antico, una sorta di archeologia vivente. E spesso i grandi archeologi come Schliemann, che nel 1871 scopre le rovine di Troia e nel 1874 quelle di Micene, la città di Agamennone, parlano con accenti liricamente solenni delle rovine di pietra. E con disprezzo di coloro che abitano senza merito quelle terre. Parlandone, come fa qualche volta anche Voltaire, come di selvaggi di casa nostra. Con un cortocircuito tra antichi e primitivi. Tra popoli lontani nella geografia e popoli lontani nella cronologia. È quella che Giacomo Leopardi chiamava una meridionalità nel tempo, un Sud della storia. E così la Grecia emigra verso eredi che si ritengono più degni del lascito. L’altare di Pergamo va a Berlino, il frontone del Partenone a Londra e la Nike di Samotracia a Parigi.
E perfino coloro che hanno amato alla follia l’altra Europa, come Goethe, Madame de Staël, Hölderlin, fino a Nietzsche e a D.H. Lawrence, l’hanno di fatto minorizzata sul piano sociale e antropologico, arretrando il suo presente in una antichità spesso di maniera. Più mitologica che storica. Più neoclassica che classica. Contrapponendo, per esempio, la fredda ragione calcolante del Nord, così ben rappresentata oggi a Bruxelles, al calore antico ma improduttivo del Mezzogiorno. «Risorgi Omero! Se nel Nord di porta in porta, ti scacciarono freddi, qui troveresti un popolo ancora greco, e greco il firmamento». Questo idillio di August Von Platen fa il paio con Goethe il quale arriva a dire che «più di ogni altro popolo i Greci hanno sognato il sogno della vita nella maniera migliore ». E non è da meno Henry James, che parla di quella «interminabile luna di miele paganeggiante » da cui i popoli del Mare Nostrum non riuscirebbero a ridestarsi. Il problema resta sempre quello di un risveglio mancato. Di un asincrono dello sviluppo che riproduce la faglia tra popoli che fanno la storia e popoli portatori inerti della tradizione. Fissati nel fermo immagine di una non-storia prigioniera del passato. Una faglia antica che pesa sul futuro dell’Europa.