Silvia Fumarola, “La Repubblica”, 15 luglio 2019
Il regista Matteo Rovere dopo “Il primo re” gira in protolatino la fondazione di Roma
L’antica Alba Longa con le capanne, le pelli stese al sole, la cacciagione intorno ai falò, è protetta da un bosco selvaggio pieno di rovi che non immagini sia lì, a pochi chilometri da Roma. Vicino a Cinecittà world e a un magazzino di mobili e cucine, il mondo si è fermato all’800 a.C., tra templi di legno e argilla. È il mondo di Romulus, la nuova serie di Sky girata in protolatino, diretta da Matteo Rovere, creatore e showrunner, regista con Michele Alhaique e Enrico Maria Artale. Per farsi un’idea. «Mèghei eyòndomst, mèd fèide» («Devo andare, fidati di me»), dice Enitos (Giovanni Buselli) al fratello, l’aspirante re Iemos (Andrea Arcangeli), che risponde: «Sei ne kàpio, fèidese ne pòte. Nos ne disiònghese màtri iouesàuimos. Ne òinola kàussa» («Non posso fidarmi di chi non capisco. A nostra madre abbiamo giurato di non separarci. Per nessun motivo»). La serie si potrà vedere in originale con i sottotitoli, o doppiata in italiano.
Dopo Il primo re con Alessandro Borghi, Rovere torna a raccontare la fondazione di Roma, «ma da una prospettiva completamente diversa — spiega il regista, 37 anni, il più giovane
cineasta italiano vincitore di un Nastro d’argento come miglior produttore con Smetto quando voglio nel 2014. «Nel film Il primo re era protagonista la leggenda, Romulus è sulla realtà che ha fatto da genesi a quella leggenda, sugli scontri delle tribù latine. Svela chi c’è dietro il mitico personaggio di Romolo. È una serie che ha tanti livelli di lettura. Divisa in dieci episodi — dirigo i primi due e la parte finale — spiega la costruzione del potere, il momento in cui si pongono le basi dell’ordine politico dell’Occidente nei secoli a venire». Per gli attori la lingua è stata una sfida: «Recitare in protolatino è stato traumatico — ammette Andrea Arcangeli — ci aiuta a raccontare uomini per certi versi più simili ad animali, che comunque si differenziavano per provenienze e ranghi». Per Marianna Fontana, il ruolo di Ilia è «come una lama che spezza il racconto tra i due personaggi maschili. Il mio approccio con il protolatino è stato musicale, ho seguito le pause e i tempi». Francesco Di Napoli (La paranza dei bambini) interpreta lo schiavo Wiros «che si fa onore e si riscatta. Lo sento vicino nel coraggio di superare le paure».
Sangue e fango: la brutalità verrà restituita nuda e cruda. «Facciamo un discorso molto realistico» dice il regista «è un mondo primitivo fatto di emotività, sentimenti, sessualità, guerra fra le tribù». «Romulus» osserva Riccardo Tozzi di Cattleya, che produce la serie con Sky e Groenlandia «restituisce un mondo primario e la sua purezza, anche nel sesso non c’è niente di perverso». «Se fai un racconto di questo tipo» aggiunge Nils Hartmann, direttore produzioni originali di Sky Italia, «devi farlo con verità se no diventa una soap opera». Grazie alla consulenza di Valentino Nizzo, direttore del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, lo scenografo Tonino Zera ha puntato al massimo realismo. «E abbiamo differenziato i diversi popoli latini, da quelli di Alba Longa e Velia a quello di Gabi, attraverso i colori della terra (marrone, ocra, rosso)» sottolinea la costumista Valentina Taviani mostrando le stoffe tinte sul set. Primitivo e selvaggio come il regno del Trono di spade, Romulus (in onda nel 2020), affascinerà il pubblico giovane. «Sono felice di aver seguito Matteo in un’impresa “da matti”» dice Tozzi. «Questa non è la serie più costosa prodotta in Italia, ma penso che sia la più complessa. Oggi il pubblico è pronto ad accogliere progetti sempre più complessi».