Matthew Kneale rievoca i sette saccheggi subiti dalla città nella sua lunga storia. Su quello compiuto da Alarico nel 410 d. C. le versioni sono discordi: per alcuni fu una vera catastrofe, per altri provocò danni limitati
Paolo Mieli, “Corriere della Sera”, 3 luglio 2018
Roma, agli inizi del V secolo, era una città che contava forse più di un milione di abitanti (qualcuno li ha stimati addirittura un milione e mezzo), malsana e soffocante. Morbillo, orecchioni, tubercolosi e vaiolo erano ormai da tempo malattie endemiche. Ma la piaga più grande era la malaria. Dai documenti risulta che l’Urbe era vittima all’incirca di un’epidemia malarica ogni sei anni, in genere all’indomani dei temporali estivi e a partire dalle zone vicine al Tevere, dove prosperavano le zanzare e vivevano gli abitanti più poveri. Da ottocento anni non aveva più subito un’invasione e si riteneva che — soprattutto dopo un percorso di integrazione dei barbari — non ce ne sarebbero state mai più. Invece…
Nella notte del 24 agosto 410, torme di visigoti maleodoranti e pieni di pidocchi attraversarono la Porta Salaria e si riversarono nella città che veniva già dall’aver subito un lungo assedio: il cibo era stato razionato e gli 800 mila abitanti (forse anche di più) avevano cominciato a morire letteralmente di fame. Il sacco che ne seguì durò tre giorni. Secondo uno storico cristiano, Socrate di Costantinopoli (Socrate Scolastico, che scrisse trent’anni dopo l’accaduto) furono uccisi molti senatori e la maggior parte dei monumenti cittadini venne data alle fiamme. Procopio (che invece scrisse cento anni dopo il sacco) sostenne che i visigoti «annientarono» la maggioranza dei romani. San Girolamo che ne parlò dalla Terra Santa, soltanto due anni dopo gli eventi, diede una versione apocalittica di quel che era successo già prima che i visigoti entrassero in città: secondo lui, allorché gli uomini di Alarico fecero il loro ingresso a Roma buona parte degli abitanti era già morta di fame. «Una fame arrabbiata», raccontò Girolamo, «ha spinto i cittadini a cibi nefandi; si sono sbranati l’un l’altro, membro a membro: le mamme non hanno risparmiato i propri figli ancora lattanti».
Ma un’altra fonte, Paolo Orosio — che scrisse otto anni dopo l’invasione, probabilmente mentre si trovava in Spagna — offrì una versione assai diversa di quel che era capitato nei giorni delle scorribande romane dei visigoti: Alarico, sostenne Orosio, aveva dato «ordine alle truppe, principalmente, di lasciar illesi e tranquilli quanti si fossero rifugiati in luoghi sacri, specialmente nelle basiliche dei santi apostoli Pietro e Paolo, e, secondariamente, di astenersi quanto possibile, nella caccia alla preda, dal sangue». Uno storico della Chiesa, Sozomeno, che poco dopo Orosio si occupò di ciò che era avvenuto a Roma nel 410, indugiò su episodi di visigoti «di buon cuore» che fecero del bene alla città. A questo punto si pone una domanda: com’è possibile che queste fonti, tutte cristiane, siano a tal punto in contrasto tra loro? È lo stesso quesito che si pone Matthew Kneale in un libro assai stimolante, Storia di Roma in sette saccheggi, edito da Bollati Boringhieri. I saccheggi sono: 1) quello dei galli di Brenno del 387 a.C. descritto da Tito Livio; 2) quello di cui qui stiamo parlando del 410; 3) quello del 546 del re ostrogoto Totila; 4) quello dei normanni di Roberto il Guiscardo del 1084; 5) il sacco dei lanzichenecchi al soldo dell’imperatore Carlo V d’Asburgo del 1527; 6) l’assedio dei francesi di Luigi Napoleone del 1849 e 7) l’occupazione nazista del 1943-44.
Per tutti esistono, nella rappresentazione che se n’è data in seguito, clamorose contraddizioni e discrepanze come quelle di cui si è detto all’inizio. A proposito delle quali, fa notare Kneale, «gli autori che riferiscono di un saccheggio brutale, compreso Girolamo — il quale senza dubbio provava ancora rancore verso i ricchi che lo avevano scacciato dalla città — vedevano il disastro come la punizione divina dei romani per il lusso in cui si erano crogiolati e per il loro paganesimo». Agli occhi di Girolamo «il sacco doveva essere stato terribile, perché questo era ciò che i romani meritavano». All’epoca — anche se ormai da un secolo l’impero era governato dai cristiani, con una breve interruzione durante il regno del pagano Giuliano — il paganesimo era ancora molto presente nella vita romana. Con «gran disgusto del fervente vescovo di Milano Ambrogio, folle di romani, cristiani compresi, continuavano a prender parte con gioia alle antiche celebrazioni pagane della città». Le più popolari erano i Lupercalia, durante i quali «gruppi di giovani uomini rincorrevano le ragazze per la città colpendole con una frusta in onore della lupa di Roma, una pratica che si credeva le rendesse fertili».
I romani, riferisce Kneale, da secoli «consideravano il sesso in maniera positiva, come un piacere accordato dagli dei di cui si doveva godere». Si pensava anche che «traendone piacere si facessero figli più sani». Non ci si preoccupava troppo «nemmeno del tipo di rapporto, se avesse luogo tra un maschio e una femmina o tra maschi (soltanto i rapporti tra donne destavano qualche disagio)». Nessuno si poneva problemi in merito alle «categorizzazioni sessuali». Se un uomo una volta andava a letto con una donna o con un uomo, «non ci si aspettava che poi continuasse a fare lo stesso». Poteva «cercare il piacere ovunque lo vedesse». Se esistevano dei tabù, essi erano legati a questioni di classe. Qualora un ricco andasse a letto con la moglie di un altro aristocratico, «si trattava di adulterio». Ma lo stesso uomo era libero di «avere un rapporto con una persona di rango inferiore». Anzi, liberissimo. Nessuno si poneva problemi circa i rapporti sessuali con gli schiavi, considerati una proprietà. Casomai si ironizzava sulla «tirchieria» di coloro che, anziché comprare schiavi al mercato, ne generavano con le donne, schiave, «in loro possesso». Allo stesso modo, «nessuno era troppo turbato dall’idea di uomini che abusassero sessualmente dei bambini, a patto che non fossero figli di aristocratici».
A tutto ciò si oppose il cristianesimo di San Paolo, che «considerava un abominio qualsiasi pratica sessuale al di fuori di quella più semplice e funzionale» del matrimonio; e «il sesso in generale — per non parlare del goderne — era comunque visto con molto sospetto». I primi devoti «idealizzavano la verginità, la castità e i matrimoni platonici». Il monaco Girolamo fu un grande fustigatore di questi costumi: era disgustato «dal fatto che i ricchi cristiani di Roma aderissero alla loro fede a parole, adoperandosi nel contempo ai propri interessi dinastici». In che senso? Se «davano una figlia vergine a Gesù», ne tenevano un’altra nel mondo terreno, e «in caso di necessità non si facevano scrupoli a riprendersi la vergine donata a Cristo per metterla sul mercato a che trovasse un buon partito».
Le «tensioni maggiori, almeno all’interno dell’aristocrazia romana, spesso non vedevano contrapposti pagani e cristiani, ma pagani e cristiani da una parte e un gruppetto di cristiani molto devoti dall’altra». Ed è a sostegno di questi ultimi che Girolamo lanciava il suo anatema, sostenendo che il sacco era stato una sorta di punizione divina nei confronti di una Roma dissoluta e ancora pagana. Fu per le sue denunce che, alla morte del vescovo Damaso, suo protettore, Girolamo fu cacciato dalla città. E Girolamo «si vendicò» esaltando, per così dire, il sacco di Alarico come se si trattasse di una punizione divina per la persistenza del paganesimo a Roma.
Al contrario, sempre secondo Kneale, «chi raccontava di un saccheggio rispettoso aveva in mente un quadro politico più ampio». Questi autori «intendevano respingere le accuse pagane, secondo le quali il sacco aveva avuto luogo perché i romani avevano chiuso i templi degli antichi dei e ne avevano fuso le statue». Il secondo gruppo «voleva dimostrare che Pietro e Paolo avevano protetto bene la città e che, grazie alla loro influenza, Dio aveva addolcito i cuori dei visigoti». Ma chi aveva ragione? E cosa accadde davvero? Kneale si affida all’archeologia e censisce gli edifici che, a quel che risulta dagli scavi, furono realmente danneggiati. La lista, scrive, «non è molto lunga». Secondo l’autore, Orosio e coloro che riferiscono di un saccheggio «amichevole» paiono «avvicinarsi di più alla verità». È probabilmente tutt’altro che falso che Alarico avesse ordinato ai suoi di «comportarsi bene». Del resto, se avesse distrutto Roma, «la città avrebbe perso ogni valore come merce di scambio e lui stesso avrebbe avuto poche possibilità di stringere un accordo con l’Impero d’Occidente». Se ne può trarre la conclusione che «in generale, nel 410 d.C. Roma ebbe fortuna». In confronto al destino di altre città della stessa epoca (date alle fiamme, videro i propri abitanti ridotti in schiavitù), Roma in quel 410 «se la cavò molto bene».
Ciò nonostante i racconti di Orosio e Sozomeno sui «visigoti dal cuore tenero» sono, secondo Kneale, «lontani dalla verità». Agostino d’Ippona, il quale dall’Africa settentrionale reagì al saccheggio con una serie di sermoni dai quali prese forma la sua celebre opera La città di Dio, ricorda che nella sua congregazione erano presenti molti profughi romani e questi «se il sacco fosse stato una cosa da poco, è improbabile che avrebbero mai lasciato la città». Secondo Agostino, a meritare di finire sul banco degli imputati era la «base morale» del potere romano. Se i cristiani desideravano una città eterna, dovevano rivolgersi alla Città Celeste di Gerusalemme che «li attendeva in cielo». Nessuna città terrena, Roma inclusa, «sarebbe durata per sempre». Tra l’altro Agostino — spingendosi a riferire le atrocità subite da Roma nei giorni del sacco — parla delle vergini romane violentate precisando che «Dio non le aveva giudicate male né abbandonate» ed esprimendo la singolare supposizione che «potessero essere state loro, troppo orgogliose della propria verginità, ad attirare su di sé la violenza subita». Uno dei pochi scrittori che quell’anno si trovavano effettivamente a Roma fu il monaco britannico Pelagio, le cui idee avrebbero dato vita ad una forma di eresia cristiana che Agostino d’Ippona s’impegnò poi a sradicare. In una lettera così descrisse l’accaduto: «Ognuno era mescolato agli altri e scosso dalla paura; ogni famiglia aveva la propria afflizione e un terrore avvolgente afferrò tutti; schiavo e nobile erano una cosa sola; il medesimo spettro di morte si aggirava solennemente in mezzo a tutti noi».
Dopo tre giorni, con grande sollievo dei romani, i visigoti lasciarono la città e marciarono verso sud. Alarico sperava di arrivare in Sicilia e proseguire di seguito in Africa, ma non riuscì ad attraversare lo stretto di Messina. Due mesi dopo morì a Cosenza, probabilmente a causa della malaria contratta a Roma. «La città si era vendicata», scrive Kneale. Ma circa 136 anni dopo, nel 546, gli ostrogoti di Totila si presentarono nuovamente alle porte della città, la cinsero d’assedio, entrarono grazie a un tradimento e stavolta (pur per un breve periodo e a due riprese, la seconda nel 549) ne fecero la loro capitale. Nel 551 l’imperatore Giustiniano inviò in Italia un esercito comandato dall’eunuco Narsete, che all’inizio del 552 affrontò Totila in Umbria, lo sconfisse e lo uccise.
Dopodiché Roma, che ormai era pressoché spopolata «fu aiutata dalle disgrazie altrui». Le invasioni longobarde «provocarono un tale caos che la gente si riversò a fiotti entro le mura cittadine in cerca di salvezza». Alla fine del VI secolo contava quasi 50 mila abitanti. A causa degli argini marcescenti del Tevere, era devastata dalle alluvioni due o tre volte per secolo. Una delle più gravi ebbe luogo nel 589 e fu fantasiosamente descritta (due secoli dopo) da Paolo Diacono: il fiume «si gonfiò fino al punto che le sue acque scorrevano sopra le mura della città allagandone moltissimi rioni… Allora, nuotando nell’alveo del fiume insieme con moltissimi serpenti, un drago di terrificante grandezza attraversò la città e scese al mare». Templi e monumenti pagani furono abbandonati all’incuria e ai furti. A dire il vero, nota lo storico, «non vennero quasi costruite nuove chiese per lo meno non di dimensioni considerevoli, perché i Papi faticavano già a mantenere quelle esistenti». Date le sue dimensioni, San Pietro «in particolare rappresentava un problema e necessitava di riparazioni costanti». Sicché, nell’impossibilità di costruire nuovi edifici, i Papi si risolsero a riutilizzare quelli antichi. La cosa migliore fu che all’inizio del VII secolo il Pantheon, «il più bel tempio pagano di Roma», fu trasformato nella Basilica di Santa Maria ai Martiri, «scampando così alla lenta rovina cui andarono incontro altri grandi templi». Poi, dopo che Gerusalemme nel 636 cadde nelle mani dei musulmani, Roma divenne la meta principale dei pellegrinaggi cristiani. E risorse dai traumi, dalle sue rovine. In attesa, come detto all’inizio, di nuove incursioni e nuovi saccheggi.