Tra Dioniso e la polis cercando l’antica saggezza dell’ospitalità. La tessera hospitalis era un pegno di amicizia tra Romani e forestieri Nell’Iliade e nell’Odissea filos, amico, e xenos sono sinonimi
Marino Niola, “La Repubblica”, 12 luglio 2016
Strangers in the night. Stranieri in una notte. È quello che sono diventati tre milioni di europei che vivono nel Regno Unito. Professionisti, lavoratori, studenti che, per effetto della Brexit, si sono addormentati comunitari e risvegliati extra-britannici. Da pari a impari. Da cittadini a immigrati. Del resto è stata proprio la paura dell’immigrazione, la benzina gettata da Nigel Farage e da Boris Johnson sul fuoco isolazionista. Che adesso rischia di fare della Gran Bretagna il cortile in fiamme di un continente sull’orlo di una crisi di nervi. Dove il timore presunto dell’invasione e la minaccia reale del terrorismo portano acqua al mulino dei nazionalismi, che vedono in ogni straniero un nemico. Un’equazione xenofoba per una questione ostica. Che viene però da molto lontano, tant’è che è scritta a chiare lettere nelle matrici linguistiche della nostra civiltà. Non a caso parole chiave del presente, come xenofobia, straniero, estraneo, strano, nemico, ospite, e perfino ostico, derivano tutte da uno stesso nucleo incandescente.
Un magma etimologico ancora impresso in certe esitazioni del nostro vocabolario che, per esempio, definisce con il termine ospite, sia chi accoglie sia chi viene accolto. Un’ambivalenza spiazzante. Ma una confusione soltanto apparente, perché quando non ci sono due parole distinte per definire due ruoli diversi significa che in realtà quei due ruoli sono uno solo. Una coincidenza reale tra due falsi opposti. Perché la legge non scritta dell’ospitalità comanda di accogliere lo straniero in quanto ciascuno di noi, a sua volta, è stato o sarà uno straniero in cerca di ospitalità.
In realtà siamo di fronte a figure e concetti che sin dalle origini delle società euro-mediterranee, danno senso e forma ai pericoli e, al tempo stesso, alla necessità dell’accoglienza. Il fatto che in latino una stessa parola, hostis, definisca lo straniero e il nemico, ma anche l’ospite, riflette immediatamente l’indeterminazione del rapporto con l’altro, che per definizione può oscillare tra un estremo ospitale e un estremo ostile. Tra l’accoglienza e il conflitto. Ancor più illuminante è il greco xenos, straniero — da cui deriva il nostro xenofobia — che in origine designa semplicemente l’ospite. Insomma l’estraneo che bussa alla porta è ospite per antonomasia, proprio in quanto viene da un altro paese. Come dice Omero, forestieri e mendicanti sono incarnazioni di Zeus. Addirittura, nell’Iliade e nell’Odissea filos, amico, e xenos ricorrono spesso come sinonimi, quasi a sottolineare che l’altro è l’amico per eccellenza. È il prossimo tuo. Una sacralizzazione che risuona come un gong remotissimo, le cui vibrazioni arrivano fino a quel passo del Vangelo di Matteo dove Gesù dice ai discepoli «ero straniero e voi mi avete accolto». Rivelando così che una scintilla del Cristo brilla in ogni povero cristo.
E nella Grecia di Pericle, terra madre della democrazia occidentale, si chiama xenia il patto di amicizia che lega il cittadino al forestiero in un rapporto reversibile, una relazione double face, in cui le parti sono fatte per essere scambiate. Accogliere ed essere accolti, offrire e ricevere asilo non sono, infatti, azioni diverse, ma due tempi e due modi di una stessa azione. Non a caso nelle lingue indoeuropee dare e prendere derivano da una stessa radice, do. E chiedersi se un senso preceda l’altro, è come domandarsi se è nato prima l’uovo o la gallina. Lo diceva il grande linguista Émile Benveniste, che allo studio delle parole che stanno sotto le nostre parole ha dedicato tutto il suo genio.
Il patrono della xenia antica è Dioniso, il nume straniero per eccellenza, la personificazione del fermento che l’arrivo dell’altro porta con sé. Un’alterazione vitale. E virale. Proprio per questo i rituali in onore del dio del vino si chiamano epidemie. Secondo Marcel Detienne, il grande antropologo del mondo antico, il termine epidemia in origine non appartiene al vocabolario della medicina, ma a quello della religione e designa l’irruzione improvvisa di una potenza ignota. E tale è Dioniso, che irrompe sulla scena della polis come un ospite inatteso e sconosciuto, portato dalle onde su una imbarcazione di fortuna, oggi la chiameremmo un barcone della disperazione. Nel rito i cittadini fingono di voler ricacciare indietro la barca. In realtà il rimpatrio forzato del dio epidemico mette in scena i sogni e gli incubi degli autoctoni, perché rappresenta le due facce dello scambio. La necessità del contatto e la paura del contagio. O, con parole nostre, i rischi e i vantaggi della globalizzazione. Ancora una volta il mito non parla al passato, ma al presente remoto, come un fotogramma anticipato del tempo che stiamo vivendo. Perché nella storia tutto cambia ma tutto torna. E sotto le onde del tempo che corre ci sono le correnti del tempo che ricorre.
E proprio perché l’incontro con lo straniero è un fatto etico ma anche pratico, da governare con lungimiranza, i Romani che di senso pratico ne avevano da vendere, avevano inventato la tessera hospitalis, un contrassegno che veniva spezzato in due parti quale pegno di amicizia e promessa di reciprocità fra una famiglia romana e una straniera. Era la contromarca concreta del patto di ospitalità e delle condizioni che lo regolano. Perché se le parole volano, i simboli rimangono. E le due metà della tessera valevano come segno di riconoscimento anche per i discendenti, vincolati a loro volta dal patto di solidarietà contratto dagli antenati. È proprio questa possibilità di mediare e calibrare l’ospitalità che sembra mancare alle politiche dell’accoglienza di oggi, che riducono tutto a percentuali e quote, muri e lasciapassare, centri di identificazione e libertà coatte, false generalità e respingimenti, senza coinvolgere e responsabilizzare chi arriva e far sentire tutelato chi accoglie. Ecco perché l’immigrazione sta diventando il cavallo di Troia del continente. Se c’è una lezione che possiamo prendere dal passato è proprio questa. Il rapporto con l’altro ha bisogno di essere regolato dalle norme, ma anche di essere suggellato da simboli e rituali che trasformino il dettato astratto delle leggi in relazioni e in emozioni, in pegni ed impegni che mettono in gioco sentimenti e volontà, rispetto e dignità, disponibilità e lealtà. Insomma, qualcosa come una tessera hospitalis declinata al presente. Perché l’Europa, se vuole avere un domani, deve far ricorso ai suoi simboli migliori come antidoto contro i suoi istinti peggiori.
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