Giovanni Pascoli, dai Poemi Conviviali: Gog e Magog. CLICCA QUI per leggere il testo.
“Pascoli scrisse che all’origine del poemetto vi erano “due leggende sui Tartari fuse insieme; l’intenzione: un triste presentimento sull’avvenire dell’umanità”. Leggende antiche e diffuse. Due popoli nomadi d’Asia, Gog (uomini giganti) e Magog (nani), selvaggi e sanguinari, erano stati da Alessandro Magno isolati al di là della Porta d’Occidente da lui fatta erigere a chiudere il passo fra due monti. Rumori che provengono dalla montagna incutono paura a quei barbari che li scambiano per la presenza di Alessandro e del suo esercito come custodi invincibili della porta. Ma presso i Tartari a poco a poco balena l’idea che Alessandro ogni tanto s’allontani. Allora, guidati da un nano, osano salire sulla montagna e così scoprono che i rumori che udivano e li terrorizzavano altro non erano che il fenomeno naturale dei venti echeggianti nella trombe di terra concava scavate nella montagna. Si fanno coraggio e riescono finalmente ad abbattere la porta che li teneva segregati:
Alla gran Porta si fermò lo stuolo:
sorgeva il bronzo fra l’occaso e loro.
Gog e Magog l’urtò di un urto solo.
La spranga si piegò dopo un martoro
lungo: la Porta a lungo stridè duramente,
s’aprì con chiaro clangor d’oro.
S’affacciò l’orda, e vide la pianura,
le città bianche presso la fiumane
e bionde messi e bovi alla pastura.
Sboccò bramendo e il mondo le fu pane.
C’è il motivo enunciato dal Pascoli stesso del triste presentimento dell’avvenire dell’umanità minacciata dai barbari ma forse anche un concomitante significato: quel popolo che s’affaccia alle terre dell’Occidente —come hanno pensato alcuni interpreti— è anche il popolo degli oppressi e dei diseredati che acquista alla fine
una propria libertà e ottiene un pane prima negato. Certo nella storia interna dei Conviviali il poema chiude un’epoca: l’invasione dei barbari nella sua brutale materialità segna la fine del mondo classico ed è un confuso presagio di una minaccia alla nostra civiltà.
Da sottolineare perché molto interessante stilisticamente, l’espressione formale. Pascoli qui usa un linguaggio rude che si serve di allitterazioni, suoni contrastanti prevalentemente aspri, ardite onomatopee”.
da Rinaldo Froldi, I cent’anni dei Poemi Conviviali di Giovanni Pascoli, “Revista de Filología Románica”, 2005, 22, 7-20
“Se fosse possibile disegnare una mappa della nostra coscienza collettiva, in un angolo remoto vi troveremo un luogo che per più di un millennio ha rappresentato un incubo. Evocato nella Bibbia da Ezechiele (38:2) e dall’Apocalisse (20:7), porta l’inquietante nome di Gog e Magog. Chi – o cosa – siano, precisamente non sappiamo. A volte Gog è un principe e Magog è una landa, altre volte è il contrario.
A volte Gogmagog è un gigante, o un’orda di 22 popoli. In ogni caso sono feroci e inumani. Divorano feti (le cui ceneri usano per creare pozioni magiche) serpenti, cani, scimmie, bevono il sangue delle donne. Neri e deformi, si accompagnano con uomini dalla testa di cane e altri mostri. Impalano, stuprano e sono invincibili. San Girolamo scrive che vivono oltre il Caucaso e il Mare d’Azov, porta di terribili invasioni. Nel sermone sulla fine del mondo, scritto nel V secolo, lo Pseudo-Efrem rivela che Alessandro Magno fu così impressionato da quei popoli che sbarrò l’accesso all’Occidente innalzando una possente cortina di ferro tra due grandi montagne chiamate Mammelle del Nord. Barriera insuperabile che ci separa dall’Anticristo, ma che pure – nei versi di Giovanni Pascoli – lascia passare uno spaventoso vociare, il cigolio di carri carichi di feroci orde, il clangore delle armi. Il Muro di Alessandro è ricoperto da un miracoloso bitume, l’assincitum che si trova solo nell’isola di Tripicia, come scrive il misterioso Etico Istrice nel VIII secolo: né punte metalliche né il fuoco possono scalfirlo. Nel Corano (Sura 18) si dice che il Bicorne – probabile trasfigurazione di Alessandro – ha eretto la porta di ferro ricoprendola di rame. Reggerà fino alla fine dei tempi, quando Gog e Magog piomberanno su di noi e ci faranno a pezzi, prima di essere annientati dal fuoco che gli pioverà addosso dal cielo. Gog e Magog furono via via identificati con Sciti, Goti, Mongoli, Tartari, Ungari, Avari, Alani. Ma anche con i Khazari, popolo caucasico che abbracciò l’ebraismo tra il 600 e l’anno Mille. Per lo scrittore arabo Ibn al-Faqih, attivo nel X secolo, la parola “Turco” deriva dall’arabo “taraka”, “lasciati dietro” il Muro. Muro a sua volta identificato con rovine nel Caucaso o traIran del Nord e Turkmenistan, ma che è stato confuso anche con la Grande Muraglia Cinese. Le lande desolate di Gog e Magog hanno occupato vasti territori della fantageografia e della letteratura, segnando i limiti dell’inumano all’interno dell’umano. Ma sino a quando?”
Anna Ferrari, Dizionario dei luoghi letterari immaginari, Utet, 2007
Alessandro nel Medioevo Occidentale, a cura di Mariantonia Liborio, Fondazione Lorenzo Valla / Arnoldo Mondadori Editore, 1997
Claudio Mutti, “…berranno le acque del Tigri e dell’Eufrate…”. Alessandro imprigiona Gog e Magog. CLICCA QUI per leggere l’articolo.
Dai Poemi Conviviali, Alexandros, 1895
I
– Giungemmo: è il Fine. O sacro Araldo, squilla!
Non altra terra se non là, nell’aria,
quella che in mezzo del brocchier vi brilla,
o Pezetèri: errante e solitaria
terra, inaccessa. Dall’ultima sponda
vedete là, mistofori di Caria,
l’ultimo fiume Oceano senz’onda.
O venuti dall’Haemo e dal Carmelo
ecco, la terra sfuma e si profonda
dentro la notte fulgida del cielo.
II
Fiumane che passai! voi la foresta
immota nella chiara acqua portate,
portate il cupo mormorìo, che resta.
Montagne che varcai! dopo varcate,
sì grande spazio di su voi non pare,
che maggior prima non lo invidïate.
Azzurri, come il cielo, come il mare,
o monti! o fiumi! era miglior pensiero
ristare, non guardare oltre, sognare;
il sogno è l’infinita ombra del Vero.
III
Oh! più felice, quanto più cammino
m’era d’innanzi; quanto più cimenti,
quanto più dubbi, quanto più destino!
Ad Isso! Quando divampava ai venti
notturno il campo, con le mille schiere
e i carri oscuri e gl’infiniti armenti.
A Pella! quando nelle lunghe sere
inseguivamo, o mio Capo di toro,
il sole; il sole che tra selve nere
sempre più lungi, ardea come un tesoro
IV
Figlio d’Amynta! io non sapea di meta
allor che mossi. Un nomo di tra le are
intonava Timotheo, l’auleta:
soffio possente d’un fatale andare,
oltre la morte; e m’è nel cuor, presente
come in conchiglia murmure di mare.
O squillo acuto, o spirito possente,
che passi in alto e gridi, che ti segua!
ma questo è il Fine, è l’Oceano, il Niente…
e il canto passa ed oltre noi dilegua. –
V
E così, piange, poi che giunse anelo:
piange dall’occhio nero come morte:
piange dall’occhio azzurro come cielo.
Chè si fa sempre (tale è la sua sorte)
nell’occhio nero lo sperar, più vano:
nell’occhio azzurro il desiar, più forte.
Egli ode belve fremere lontano,
egli ode forze incognite, incessanti,
passargli a fronte nell’immenso piano,
come trotto di mandre d’elefanti.
VI
In tanto nell’Epiro aspra e montana
filano le sue vergini sorelle
pel dolce Assente la milesia lana.
A tarda notte, tra le industri ancelle,
torcono il fuso con le ceree dita;
e il vento passa e passano le stelle.
Olympiàs in un sogno smarrita
ascolta il lungo favellìo d’un fonte,
ascolta nella cava ombra infinita,
le grandi quercie bisbigliar sul monte.