Giuseppe Ungaretti, Il deserto. Quaderno egiziano 1931, Milano, Mondadori, 1996
Il poeta Ungaretti scrive queste note nell’estate del 1931, in occasione del suo ritorno nella sua città natale, Alessandria, non più rivista dal 1912. Sono dedicate al fondatore della città del “porto sepolto”, “la caldaia dove si consumarono e si fusero i sogni d’Occidente e d’Oriente”: Alessandro Magno.
«Perché quegli uomini scavano come formiche sotto quella moschea e quelle tombe di Santoni e di pascià, tutti quei cunicoli?»
«Si cerca la sema [Sêma o Sôma, tempio funerario] dove Alessandro Magno ebbe sepoltura e onori come un Dio.»
Forse non ritornerà alla luce, ma nella sua bara di cristallo, il corpo imbalsamato dell’avventuroso monarca, ma questa città ch’egli eresse sulla sabbia fu, per nove secoli, la caldaia dove si consumarono e si fusero i sogni d’Occidente e d’Oriente. L’averla tratta alla luce è segno che merita ogni venerazione nei secoli.
Alessandro, pieno di grazia accigliata sull’impeto del cavallo, come lo vedi nelle antiche figure, compì dai venti ai trentatré anni nella sua rapida vita prodigi, e sempre l’ho ammirato come il modello della gioventù.
Nato quando stava spargendosi l’idea che essere greco non dipendesse dal sangue, ma dall’educazione; quando correva voce che degno di chiamarsi Greco era chi a furia di sentirsi tale si fosse dimostrato uomo vero mettendo nella pienezza umana la sua dignità; nato quando sorgeva l’Ellenismo, quel moto di idee che portava il Greco a sentire non più municipale, ma universale la sua missione — il discepolo d’Aristotile era anche frutto d’una terra all’antica.
Filippo suo padre, del quale a vent’anni fu erede, dovette all’ordinamento rurale della Macedonia. Della quale era Re, quella lucida energia che l’impose al comando in guerra degli altri Stati greci, ormai retti dalle civiche discordie. Olimpia, sua madre, era d’un sangue furente: portava per monile un serpe vivo. Era naturale che Alessandro non potesse concepire l’idea dell’Ellenismo, che pure l’animava, se non mediante una fantasia omerica.
Basta gettare un’occhiata su una carta per misurare la vastità della sua avventura che fu la prima grande dell’Occidente. Essa all’ingrosso, usando nomi d’oggi, si estende sulla Cirenaica e l’Egitto, sull’Asia Minore, la Siria, la Palestina, l’Armenia, il Kurdistan, la Mesopotamia, la Persia, il Bukhara, l’Afganistan, il Belucistan: passa l’Indo.
Colla morte d’Alessandro l’Impero sì smembra; ma non cessa, su larghe zone, il dominio ellenico, e non cessa, ciò che avrà conseguenze più memorabili, e fino nell’India, il proseguimento spirituale dell’avventura. Una lunga convivenza della civiltà europea con vari mondi orientali si stabilisce, una lenta corruzione di pensieri e di forme che rinnoverà il mondo.
S’è detto che Alessandria fu la caldaia dove il complesso tormento antico raggiunse la soluzione. E per varie ragioni. Principalmente, mi sembra, perché Alessandria era diventata il porto del mondo; perché era sorta al di qua della soglia dell’Egitto, Alessandria, in un certo senso non faceva parte dell’Egitto. Città straniera, lontana dal Nilo. L’Egitto è un’oasi chiusa. La sua, che fu una civiltà singolare, aveva ricevuto dalla natura e aveva chiesto all’arte tutte le precauzioni per rimanere, intorno al suo fiume, impenetrabile.