Matteo Nucci, “Venerdì di Repubblica”, 7 novembre 2014
Per gli antichi greci più che la filosofia esisteva il filosofare. Un’azione, anzi una pratica, subito chiara nel significato originario del verbo: amare (philein) la sapienza, la saggezza (sophia). Il filosofo, dunque, non aveva nulla a che vedere con il tipo umano a cui siamo abituati. Come il medico, egli era dedito a una terapia, terapia non del corpo ma dell’anima. Soprattutto dopo la grandiosa riflessione filosofica tedesca dei secoli XVIII e XIX, noi identifichiamo il filosofo in un uomo immerso nella ricerca teoretica, chino sui libri, sempre alle prese con domande circa il senso dell’essere. Nell’antichità invece la pratica di chi era in cerca di saggezza possedeva un carattere immediatamente vitale, per nulla estraneo alla quotidianità. Il fine della conoscenza consisteva in qualcosa di molto semplice e comune a tutti gli esseri umani: raggiungere la felicità. Come vivere bene la nostra breve vita? Come essere felici?
I filosofi indagavano, aprivano scuole e spesso mettevano per scritto i risultati delle loro ricerche. Offrivano insomma una strada: la loro pratica coincideva con il “vivere bene” che si preoccupavano di insegnare, poiché essi erano innanzitutto educatori. Il più esemplare tipo umano di questo genere fu Socrate. Innumerevoli furono coloro che presero a seguirlo e che, dopo la sua morte, cercarono di proseguire sulla via che ritennero più giusta. Il principale lo conosciamo tutti. Si chiamava Aristocle e per le sue ampie spalle fu soprannominato Platone. La sua genialità oscurò gli altri amici (più che discepoli) di Socrate che infatti la storia ribattezzò con un epiteto poco affettuoso: “socratici minori”. Tra di essi, uno dei più dimenticati era nato a Cirene, nell’attuale Libia orientale, si chiamava Aristippo e fu noto al suo tempo poiché identificava la felicità nel piacere.
Ma che tipo piacere? – dobbiamo chiederci noi oggi. E in che senso la felicità può identificarsi con esso? Delle riflessioni di Aristippo è rimasto davvero poco e quel poco è stato oscurato a lungo. Una magnifica edizione italiana curata dal massimo esperto dell’argomento, Gabriele Giannantoni, fu pubblicata da Sansoni nel 1958 e ovviamente è introvabile. A essa però ha attinto a piene mani Michel Onfray, pubblicando un libro che è in sostanza un’edizione semplificata delle testimonianze su Aristippo di Cirene, opera importante per tutti gli appassionati e anche per chi semplicemente continua a credere che la ricerca della saggezza e la cura di se stessi sia il compito principale nell’arco di una vita.
Con L’invenzione del piacere. Aristippo e i cirenaici (Ponte alle Grazie, pp. 205) possiamo tentare di penetrare i segreti di un uomo che lasciò presto la città dove nacque attorno al 430 a. C. per vivere fra l’altro a Corinto, Atene, Egina, Siracusa e che morì verso il 360. Benestante (Cirene era ricchissima, al tempo, grazie soprattutto al siflio, una pianta oggi scomparsa usata come condimento e medicinale), ottimo conversatore, attento alle situazioni, sapeva come comportarsi sia che si trovasse alla corte del potentissimo tiranno siracusano Dionisio il Giovane, sia che dovesse affrontare le ire di pensatori drastici e ostentatamente poveri come Diogene di Sinope, tra i precursori del Cinismo. I principi a cui s’ispirava erano la misura nel godere dei piaceri, l’assoluta indipendenza di pensiero, la predisposizione all’ascolto, ossia la curiosità sempre viva dell’intelligenza. Un insieme di propensioni che lo spinse a frequentare prima le lezioni dei Sofisti e più tardi i dialoghi in cui Socrate si lanciava giorno dopo giorno passeggiando per Atene.
Le fondamenta del suo modo di cercare la saggezza sono lì, tra i Sofisti e Socrate, messe assieme attraverso il suo carattere di misurato gaudente. Secondo Aristippo, la conoscenza è frutto della nostra percezione, percezione che è relativa a noi e alle circostanze. Quel che ci appare, però, deve essere organizzato armoniosamente nel nostro incontro con gli esseri umani, aprendoci al dialogo, sempre pronti a ridiscutere quel che troviamo giusto. È la lezione del V secolo, quando i commerci fecero incontrare tradizioni, usi e costumi diversi spingendo a mettere in discussione le verità rivelate. Aristippo però declinò questo atteggiamento culturale in base alle sue attitudini.
Da una parte dunque cercò di utilizzare le armi della conoscenza per individuare quel piacere che, nel momento esatto in cui si sta vivendo (fuori dal passato e dal futuro, fuori da ricordi e anticipazioni, portatori di dolori), può accompagnarci senza eccessi alla felicità. Dall’altra sottolineò la necessità di essere costantemente autonomi e padroni di se stessi mentre si segue questa strada. Così uno degli aneddoti più ricorrenti sul suo stile di vita racconta di una risposta sferzante a chi gli domandava della sua relazione con una famosa etera di nome Laide: “La posseggo, non ne sono posseduto” disse “Ottima cosa è vincere e non essere schiavi dei piaceri, più che il non goderne affatto”. Si deve godere, ma soltanto quando il piacere è in nostro possesso e non siamo noi a esserne schiavi. Il piacere non è dunque il fine ultimo ma il mezzo attraverso cui si raggiunge la felicità. Questo piacere è misura e moderazione.
Tutto il contrario di quel che ha raccontato una certa tradizione molto ostile verso Aristippo e verso la scuola che egli non fondò mai ma che più tardi s’immaginò fosse seguita al suo insegnamento e fu per questo ribattezzata “Scuola Cirenaica”. È in questa tradizione ostile che trova linfa vitale per la sua introduzione tutta ideologica Michel Onfray, scatenato difensore di Aristippo contro tutti i filosofi a lui contemporanei, quasi fossero nemici da combattere, colpevoli soltanto di aver prodotto una riflessione più ascoltata, seguita e duratura. Ormai famoso per l’ateismo, l’edonismo e la carica “rivoluzionaria” del suo pensiero, Onfray non si cura più di studiare con attenzione critica ciò di cui parla.
Le sue pagine introduttive al pensiero dei Cirenaici (come se fosse mai esistita una corrente filosofica unitaria di quel genere) sono l’unica parte del libro che il lettore può tranquillamente lasciar perdere. Troviamo caricature dei presunti avversari di Aristippo che non hanno nessun appiglio nella realtà: Pitagorici solo dediti ai numeri come fossero giochini, un Platone in pillole da manuale di scuole elementari che non ha nulla a che fare con la ricchezza del filosofo, e una costante battaglia contro tutti quei “nemici della felicità” che si sarebbero tanto dedicati a oscurare il pensiero di Aristippo. Come se gli altri filosofi greci non avessero cercato anch’essi la felicità, semmai percorrendo altre vie, certo non autopunitive come piacerebbe a Onfray, ma semplicemente più profonde e a volte più contraddittorie. Al punto che la storia, i lettori e i seguaci in generale hanno voluto attribuire a quelle strade un maggior credito che a quella piacevole, bonaria e di attenta intelligenza percorsa da Aristippo di Cirene.
“Aristippo di Cirene incarna un’altra tradizione filosofica, che sarà da mettere in prospettiva con gli usi e i costumi dell’epoca ellenistica. Aristippo testimonia un modo d’essere, di fare e di pensare capace di fornire un modello; mostra senza che gli interessi dimostrare; rende carne e poi rincara la dose, perché gli importa poco di disincarnare, di astrarre quintessenze per darsi le arie di uno che sa maneggiare le parole, di un saltimbanco del verbo; si sposta, va e viene, parla e interpella; sceglie l’agorà, lo spazio aperto; dischiude la filosofia al mondo esterno e non la riserva agli specialisti, ai dottori, agli studiosi inchiodati alla propria scrivania; sollecita il verduraio, il calzolaio, il marinaio, la prostituta, addirittura il principe, e si fa beffe delle conversazioni tra i filosofi. Tanta tracotanza e sconvenienza gli negano l’accesso a quel pantheon in cui sonnecchiano Platone e Aristotele…”. M. Onfray